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Della rinuncia e della sconfitta. La strategia della post-precarietà

copertina1di Tommaso India

Il mondo politico ha altre priorità rispetto alle questioni legate al lavoro. Priorità importanti e fondamentali nel mondo contemporaneo, legate a questioni cogenti, che richiedono interventi immediati e, a volte, strutturali. Fra queste priorità, però, non vi sono le questioni legate al lavoro. Bisogna prenderne atto. Fare i conti con questo dato, soprattutto per quella parte politica che oggi è vagamente indicata come Sinistra, significa ammettere che una grossa fetta del panorama politico contemporaneo ha abbandonato uno dei suoi storici cavalli di battaglia. Non che la Sinistra italiana, o quel che ne rimane dopo le elezioni del 4 marzo scorso, non parli di lavoro, anzi. La parola lavoro e le questioni legate ad esso hanno fatto alcune apparizioni nel circo mediatico per arroccarsi soprattutto a sostegno dell’ormai quasi inefficace articolo 18, come norma di civiltà da ripristinare immediatamente. È nella retorica stantìa intorno a questa bandiera simbolica della Sinistra contemporanea che sta uno dei motivi fondamentali, forse il principale, della disfatta delle elezioni appena trascorse.

In via preliminare intendo chiarire il fatto che ritengo l’articolo 18 e il reintegro nel posto di lavoro a seguito di un licenziamento senza giusta causa non solo una garanzia fondamentale per tutti i lavoratori dipendenti e soprattutto per quelli che, con una terminologia ormai desueta, sono da identificarsi come il proletariato e sotto-proletariato [1] delle periferie del Paese, ma un principio di civiltà e buonsenso imprescindibile in una democrazia matura e sana, una democrazia che ha il coraggio di non lasciare indietro nessuno e di prendersi cura delle classi che un tempo usava chiamare subalterne. Tuttavia, ritengo che la reiterazione da parte della Sinistra italiana di una programmatica riabilitazione della quasi inefficace norma dello Statuto dei Lavoratori durante i mesi della campagna elettorale sia una evidente testimonianza della assoluta mancanza di analisi politica, sociale, storica e, in definitiva culturale, delle questioni legate al mondo del lavoro contemporaneo. Se ci fosse stata una tale analisi si sarebbe detto con forza e chiarezza che la riabilitazione dell’articolo 18 avrebbe dovuto essere un capitolo importante in una complessa azione politica sulle dinamiche che agitano il lavoro.

Da circa venti anni studiosi di diverse discipline hanno concentrato la loro attenzione sulle trasformazioni dei lavoratori subalterni e sul processo apparentemente inarrestabile di precarizzazione e assoggettamento al finanzcapitalismo odierno [2]. Alcune recenti pubblicazioni hanno dimostrato che siamo andati ben oltre il processo di precarizzazione per avviarci verso una nuova fase del deperimento delle nostre risorse intellettuali, sociali ed economiche [3]. Una nuova fase, post-precaria o se si preferisce pre-schiavista, in cui il lavoro è svuotato del proprio senso e si trasforma nel nuovo «oppio dei popoli» attraverso una retorica insidiosa che vuole l’attività lavorativa trasformarsi da mezzo per la conquista di libertà e dignità personale e sociale a strumento di distrazione degli individui, fonte di preoccupazione, ansia, e frustrazione. Se nelle analisi marxiste della seconda metà dell’Ottocento la minaccia per i lavoratori di tutto il mondo era rappresentata dai capitalisti che si arricchivano grazie al lavoro dei loro sottoposti; nella fase contemporanea la minaccia dei lavoratori è rappresentata dai rentier che, già arricchiti e definitivamente e smisuratamente lontani dai luoghi della produzione del loro capitale e del loro surplus di capitale, determinano le condizioni affinché la loro rendita si perpetui e anzi si accresca nel tempo, non grazie al lavoro dei propri sottoposti, ma grazie alla distrazione di lavoratori estremamente post-precarizzati [4].

Ciò che mi sembra di poter ravvisare come recente tendenza riguardo le strategie di assoggettamento dei lavoratori è una nuova fase. Una fase che, grazie alla precarizzazione dei lavoratori contemporanei, utilizza gli strumenti forniti da questo processo per traghettare i rapporti fra classe egemonica e classi subalterne in una serie di nuove dinamiche tipiche della quarta rivoluzione industriale [5]. In maniera molto semplificata, per ragioni di spazio, è utile indicare fra i più importanti strumenti forniti dal processo di precarizzazione citato: l’atomizzazione e l’individualizzazione dei lavoratori dipendenti; la perdita di senso legato a lavori sempre più malpagati e sminuiti; l’intima e profonda solitudine dei lavoratori, soprattutto più giovani, coscienti di non avere la forza di una classe politico-sindacale capace di comprendere e farsi carico di solide istanze rappresentative.

Per dimostrare quanto affermato, prenderò le mosse da tre esempi di dispositivi che hanno trasformato recentemente i rapporti nel mondo del lavoro e che hanno contribuito e contibuiranno a traghettare i lavoratori nel mondo della quarta rivoluzione industriale.

3Il Jobs Act come dispositivo permanente di precarietà

La legge n. 183 del 2014, meglio nota come Jobs act è il primo atto di una riforma profonda e ampia del mercato del lavoro italiano e, da un certo punto di vista, dell’immaginario simbolico legato a quel mercato. A questa legge seguiranno altri interventi normativi volti a intervenire direttamente su vari aspetti che compongono il mercato del lavoro. Nello specifico gli interventi legislativi sono i seguenti:

- D. lgs. n. 22 del 2015, ovvero Disposizioni in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183;

- D. lgs. n. 23 del 2015, ovvero Disposizione in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014 n. 183;

- D. lgs. n. 80 del 2015, ovvero Misure per la collocazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione della legge 10 dicembre 2014 n. 183;

- D. lgs. n. 81 del 2015, ovvero Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014 n. 183;

- D. lgs. n. 148 del 2015, ovvero Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, in attuazione della legge 10 dicembre del 2014 n. 183;

- D. lgs. n. 149 del 2015, ovvero Disposizioni per la realizzazione e la semplificazione dell’attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale, in attuazione della legge 10 dicembre 2014 n. 183;

- D. lgs. n. 150 del 2015, ovvero Disposizioni in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 10 dicembre 2014 n. 183;

- D. lgs. n. 151 del 2015, ovvero Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità, in attuazione della legge 10 dicembre 2014 n. 183.

Non è mia intenzione scendere nel dettaglio di ogni decreto legislativo dell’elenco precedentemente esposto, dal momento che non ne avrei né il tempo né le competenze. L’elenco ha il mero scopo di mostrare l’ampiezza e l’incisività dell’intervento governativo. Ciò che è da tenere presente, tuttavia, è che l’intero sforzo legislativo aveva l’obiettivo di flessibilizzare il sistema dei rapporti fra datori di lavoro e dipendenti sia all’interno delle imprese, sia nella fase in uscita da queste. Questo è quanto si può leggere in un pamphlet pubblicato a cura di un gruppo di avvocati ad uso e consumo di lavoratori impiegati nel settore delle human resources (HR):

«La logica che ispira i decreti delegati in parola è, invece, opposta: flessibilizzare la disciplina del licenziamento, delle mansioni, dei controlli a distanza in modo da rendere più appetibile il contratto a tempo indeterminato, già incentivato dai benefici contributivi, e sfrondare le fattispecie nelle quali rischia di annidarsi una flessibilità per lo meno equivoca, irreggimentare la fruizione della Cassa integrazione e riformare il sistema dei sussidi di disoccupazione» [6].

Ciò che è da sottolineare è il fatto che il contratto a tempo indeterminato, obiettivo da raggiungere per la maggior parte degli uomini e delle donne in età lavorativamente attiva, diventa lo strumento deterrente per una precarizzazione definitiva e indeterminabile attraverso la flessibilizzazione della disciplina del licenziamento, delle mansioni e del controllo a distanza dei lavoratori.

La disciplina del licenziamento si può riassumere, anche se in maniera un po’ grossolana, nella libertà di licenziare da parte del datore di lavoro un suo dipendente senza giusta causa. In questo caso, al lavoratore che porti in giudizio il suo datore di lavoro e vincesse la causa non spetta più il reintegro nel suo posto di lavoro, bensì un indennizzo monetario rigidamente stabilito dalla legge e corrispondente a due mensilità per ogni anno di servizio con un minimo di quattro ed un massimo di ventiquattro mensilità. Per le aziende con un numero di dipendenti inferiore a quindici, cioè la stragrande maggioranza delle aziende italiane, le mensilità di indennizzo sono dimezzate sia nel minimo che nel massimo. Come è possibile evincere dalle stime sul mercato del lavoro, l’eliminazione della clausola che obbligava il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore e la sostituzione con un indennizzo pecuniario ben determinato non sono condizioni che hanno contribuito né alla crescita dell’occupazione né tanto meno alla dignità del lavoro [7]. Tale riforma si è sostanzialmente trasformata in un mezzo di permanente e totale precarietà dei nuovi lavoratori.

Per quanto riguarda la flessibilità della mobilità interna, se essa ha l’indubbio vantaggio di fornire le possibilità ad ogni singolo lavoratore di non svolgere le stesse mansioni per tutta la durata della sua vita lavorativa e di avanzare di carriera, essa possiede il lato scuro della minaccia che ad ogni singola crisi aziendale ogni lavoratore può essere costretto a rinunciare a parte delle integrazioni salariali che si è conquistato. Per quanto riguarda la questione del controllo, rimando a quanto dirò qui di seguito a proposito di un noto fatto, venuto alla ribalta delle prime pagine dei giornali nazionali, riguardante la questione del braccialetto di controllo di Amazon [8].

2Quando indichi la luna lo stolto guarda il dito

La questione del braccialetto di controllo è presto detta e riguarda un brevetto del noto colosso dell’e-commerce Amazon. Il braccialetto, che pochi hanno visto e non di certo su un luogo di lavoro, a quanto pare sarebbe uno strumento che dovrebbe essere indossato dai magazzinieri di Amazon durante il prelievo della merce da spedire. Sembra –  ma assenti sono le conferme ufficiali in questo senso – che lo strumento dovrebbe iniziare a vibrare nel momento in cui il lavoratore dovesse prelevare l’articolo errato. Altri sostengono che in realtà lo strumento non sia altro che un ulteriore e questa volta definitivamente degradante dispositivo di controllo dei lavoratori. A questa seconda schiera appartengono un certo numero di politici che, durante l’ultima campagna elettorale, hanno commentato la notizia in modo sprezzante, dimostrando di essere paladini indefessi della giustizia sociale, ma altresì osservatori lontani o distratti delle dinamiche che attualmente agitano il mondo del lavoro. Se fossero stati davvero vicini ai lavoratori, se avessero davvero analizzato i contesti lavorativi si sarebbero accorti che dal colosso Amazon fino al più piccolo venditore di qualunque merce esistono una infinità di dispositivi di controllo della produttività dei lavoratori. Dispositivi sicuramente meno eleganti e di minore richiamo mediatico, ma altrettanto e forse molto più degradanti.

Ogni lavoratore, oggi, lavora attraverso un terminale collegato via rete ad uno o più terminali. Ed ogni terminale registra movimenti, incassi, indice di produttività, articoli prelevati, articoli spediti, merci confezionate, bulloni avvitati, fatturati. Praticamente ogni ambito lavorativo è stato pervaso da sistemi di controllo. Quelli più raffinati hanno applicazioni specifiche che misurano specificatamente e solamente la produttività di ogni singolo lavoratore. Sono sistemi talmente raffinati e resi pubblici che i lavoratori stessi vogliono utilizzare per una sorta di competizione, un gioco machista per sentirsi forti e liberi, quando a diventare sempre più forti e ricchi sono altri. È la tesi del gioco che già Michael Burawoy nel suo saggio del 1979 [9] ha individuato nella tendenza dei componenti del gruppo di lavoratori indagati dall’etnografo statunitense a mettere le proprie capacità professionali in una continua ed estenuante competizione fra lavoratori.

Il controllo della manodopera, il controllo dei propri dipendenti, sudditi, cittadini è la base su cui si formano e perpetuano la maggior parte dei gruppi sociali contemporanei. Un controllo necessario e diretto a scopi che trascendono spesso il bene comune per servire scopi altri [10].

In questa vicenda, a mio avviso, sono due le cose da notare. La prima riguarda l’effetto legato alla eco della notizia stessa. La questione del braccialetto, infatti, porta all’attenzione di tutti il fatto che è possibile il controllo totale dei processi produttivi e, soprattutto, della produttività e dell’operato dei propri dipendenti. Il messaggio che sembra passare è che non solo è possibile, ma è anche auspicabile se si vuole un’espansione del proprio business pari a quello di Amazon. Se il colosso economico dice che si può fare perché non farlo in maniera sistematica e implementare gli strumenti già presenti?

La seconda questione da rilevare riguarda ancora una vola il mondo politico che si è stracciato le vesti al cospetto di una notizia farlocca. Segno ulteriore di quanto la politica si sia allontanata dal mondo del lavoro e non sappia che i dispositivi di controllo non hanno più bisogno di vigilanti in divisa e con il fischietto, ma che ogni nostro device si è trasformato in un controllore.

1Il reddito di cittadinanza e la post-precarietà

Il terzo esempio di cui vorrei occuparmi riguarda il possibile futuro di una parte considerevole dei cittadini italiani, dati i risultati delle ultime elezioni politiche, nonché di uno dei punti del programma del Movimento 5 Stelle: il reddito di cittadinanza. Da quanto si evince dal materiale informatico diffuso dai 5s, dovrebbe essere erogato dallo Stato a tutte le persone disoccupate/inoccupate o che percepiscono un salario o una pensione al di sotto della soglia di povertà fissata dall’ISTAT (780 euro netti mensili). Naturalmente vi sono altri criteri che devono essere adempiuti per avere il diritto di percepire e mantenere il reddito di cittadinanza. Innanzitutto è necessaria l’iscrizione, presso i centri per l’impiego e rendersi subito disponibile al lavoro, come se i centri dell’impiego fossero pieni di lavori rifiutati dai disoccupati, soprattutto del Meridione italiano. Chiunque abbia affrontato periodi di disoccupazione e si sia recato presso il centro dell’impiego del territorio di appartenenza ha avuto modo di constatare la quasi totale mancanza di proposte e la quasi totale mancanza di una veicolazione informativa. Si deve offrire la propria disponibilità, per almeno otto ore a settimana, per effettuare dei lavori pubblici, perché, in sostanza, se percepisci qualcosa dalla comunità a quest’ultima qualcosa bisogna pur restituire.

Poi è necessario iniziare un percorso per essere accompagnato nella ricerca del lavoro dimostrando una non meglio specificata reale volontà di trovare un impiego. Sinceramente non riesco proprio a capire come si possa dimostrare una “reale volontà” di cercare un lavoro e chi dovrebbe essere il giudice vidimante di tale “reale volontà”. Ciò che in realtà mi sembra di scorgere in questa affermazione è il pensiero abbastanza diffuso secondo cui, in realtà, se sei disoccupato o inoccupato in fondo è colpa tua, che hai studiato qualcosa di diverso da quello che chiede il mercato; che la mattina non sei arrivato prima dell’inizio dell’orario e non te ne sei andato molto dopo della fine dell’orario di lavoro; è colpa tua che hai preferito essere un buon padre o una buona madre; è colpa tua che non sei stato abbastanza ossequioso con i tuoi superiori, con i tuoi clienti o con il capo mandamento. In fondo, se sei disoccupato, in un mondo capitalista, è perché non hai una “reale volontà” di lavorare.

In seguito, è necessario frequentare percorsi per la qualifica o la riqualifica professionale e anche qui non è assolutamente specificato chi dovrebbe sostenere le spese di tale qualifica o riqualifica professionale. Sono costi dello Stato calcolati nella manovra? Ma lo Stato non ha già degli enormi problemi a finanziare la formazione? Lo Stato italiano, come dimostrano le statistiche dell’Eurostat [11], non è al di sotto della media dei paesi europei a investire nella formazione? Dovrebbero essere i cittadini a sostenere le spese di questa riqualificazione? Ma se una persona vive già al di sotto della soglia di povertà come può investire o reinvestire un numero indefinito di volte nella propria continua riqualificazione? Sono domande senza nessuna risposta inerenti temi che forse non sono stati adeguatamente spiegati agli elettori. Bisogna anche effettuare una ricerca attiva del lavoro per almeno due ore al giorno. Anche in questo caso, però, non è assolutamente indicato in che modo un cittadino debba effettuare una ricerca attiva. Si deve comunicare qualsiasi variazione del reddito.

Infine, è necessario accettare almeno uno dei primi tre lavori che saranno offerti al cittadino che percepisce il reddito di cittadinanza, ma non è specificato che tipo di lavori saranno, con quanto preavviso sarà comunicata la data o l’ora di inizio del lavoro, a quanta distanza dalla propria abituale resistenza e altre questioni che, però, nel programma del M5S sono strategicamente taciute.

Ciò che si evince da quanto detto è che il reddito di cittadinanza mi sembra tutt’altro che una misura capace di ridare dignità ai lavoratori sottopagati e ai disoccupati/inoccupati. È un programmatico intervento nell’ingresso della post-precarietà in cui l’incertezza professionale, identitaria, esistenziale e storica è un fatto culturale totale [12] e rappresenta l’essenza stessa degli individui e delle società. Il lavoro, in quest’ottica, è svuotato di ogni suo senso per essere contingentato e trasformato in mero momento necessario a perpetuare la propria condizione di precario.

Assemblea Fiom davanti a Palazzo ChigiConclusioni

Da quanto detto fin qui, emerge chiaramente come nel corso degli anni si sia prodotta una strategia [13] di lento e inesorabile svuotamento di senso delle pratiche lavorative e dell’essenza del lavoro come produzione di socialità, di simboli, di cultura oltre che di economia e sostentamento per chi di lavoro vive. Attuato e fatto radicare nella storia identitaria delle generazioni nate dagli anni Ottanta in poi, il processo di precarizzazione è stato soltanto una fase introduttiva a ciò a cui adesso stiamo assistendo. I punti fondamentali del nuovo processo di post-precarietà, esposti attraverso gli esempi di cui ho trattato nei paragrafi precedenti, sono stati: la precarizzazione permanente, definitiva e strutturale dei lavoratori italiani contemporanei attraverso la promulgazione del pacchetto di leggi e decreti legislativi noto come Jobs Act; lo sdoganamento e anzi la valorizzazione sempre più estrema dei metodi di controllo produttivi, esistenziali e sociali; infine la tendenza verso la promulgazione di misure volte a svuotare di ogni significato il lavoro dei cittadini che si pone non come soluzione alla precarietà e alla disoccupazione, ma come il suo prodotto più naturale.

È significato come gran parte di questa strategia non solo sia stata messa in atto dalla classe politica italiana, ma spesso è stata messa in opera dai partiti e dai movimenti che storicamente sono stati o avrebbero dovuto essere i naturali interlocutori dei lavoratori. È per questo che occorre immediatamente recuperare una riflessione e un’attenzione sulle dinamiche in atto attorno alle questioni legate al lavoro e alla produzione di capitale. Come è possibile, mi chiedo, che di fronte ad una strategia complessa, articolata come quella che ho tentato di illustrare precedentemente la sola soluzione pensabile sia quella di riabilitare l’articolo 18?

Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018
Note
[1] Con i termini «proletariato» e «sotto-proletariato» intendo quelle classi che, sebbene siano state proiettate in un contesto borghesizzante, pseudo-agiato e apparentemente pienamente inserito nei processi consumistici contemporanei è costretta a lavorare a qualsiasi condizione per pagare un sistema di consumi e valori che non contribuisce ad altro che a perpetuare una forma sempre più estrema, ma allo stesso tempo liquida, di subalternità al neo-capitalismo finanziario.
[2] Secondo Luciano Gallino: «Il finanzcapitalismo è una mega-macchina che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi. L’estrazione di valore tende ad abbracciare ogni momento e aspetto dell’esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all’estinzione. Come macchina sociale, il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sotto-sistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona» (Gallino L., 2011, Il Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino). Per una rapida quanto incompleta rassegna di studi sul precariato e sulla precarizzazione dei lavoratori dipendenti cfr. India T., 2017, Antropologia della deindustrializzazione. Il caso della Fiat di Termini Imerese, Editpress, Firenze con relativa bibliografia.
[3] Si vedano, solo a titolo di esempio, il testo di Marta Fana (2017, Non è lavoro, è sfruttamento, Laterza, Bari-Roma) e di Riccardo Staglianò (2018, Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri, Einaudi, Torino).
[4] Cfr. Picketty T., 2014, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano.
[5] La quarta rivoluzione industriale è una locuzione sempre più diffusa negli ambienti economico-industriale per indicare l’era contemporanea in cui la tecnologia sempre più pervasiva delle telecomunicazioni sta permeando anche i sistemi di produzione rendendoli sempre più intelligenti, flessibili e performanti. Cfr. Schwab K., 2016, La quarta rivoluzione industriale, Franco Angeli, Milano.
[6] Toffoletto F., De Luca Tamajo R., Bottini A., de Santis S., Salimbeni M. T. (a cura di), 2015, Le novità del jobs act, Iuris Laboris Italy Global HR Lawyers Toffoletto De Luca Tamajo, url: www.toffolettodeluca.it versione aggiornata a ottobre 2015 (consultato il 23/03/2018).
[7] Sebbene anche il mercato del lavoro italiano abbia beneficiato della generale crescita presente in Europa, esso sembra essere stato determinato più come risultato conseguente a fattori esogeni (la crescita delle economie europee) che a fattori endogeni (riforme strutturali). Cfr url: http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Employment_statistics/it, (consultato il 26/03/2018).
[8] Cfr. url: https://www.corrierecomunicazioni.it/digital-economy/amazon-tiene-banco-caso-braccialetto-politica-mobilitata-sul-no/ (consultato il 26/03/2018).
[9] Burawoy M.¸1979, Manufactoring consent. Changes in the labor process under monopoly capitalism, The University of Chicago Press, Chicago-London.
[10] Cfr. Foucault M., 1993, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino; Foucault M., 2005, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano (ed. or. 2004, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979, Seuil-Gallimard, Paris); De Martino S., 2009/2010-2011/2012, I percorsi teorici della governamentalità, tesi di dottorato in Sociologia, analisi sociali, politiche pubbliche, X ciclo, Università degli Studi di Salerno, Salerno; Bazzicalupo L., 2006, Il governo delle vite. Biopolitica e economia, Laterza, Roma-Bari.
[11] Cfr. Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione 2017. Italia url: https://ec.europa.eu/education/sites/education/files/monitor2017-it_it.pdf (consultato il 03/04/2018).
[12] Per approfondimenti sulla nozione di fatto sociale totale, inteso come fatto ce pervade ogni ambito relazionale della società cfr. Mauss M., 2002 (Ia ed. 1923), Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino.
[13] Sulla nozione di tattica e strategia cfr. De Certeau M., 1984, The practice of everyday  life, University of California Press, Berkeley.
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Tommaso India, attualmente si occupa di antropologia del lavoro con un particolare riferimento ai processi di deindustrializzazione e precarizzazione in corso in Sicilia. Si è laureato nel 2010 in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo con una tesi intitolata Aids, rito e cultura fra i Wahehe della Tanzania, frutto di una ricerca etnografica condotta nelle regione di Iringa (Tanzania centro meridionale). Nel 2015 ha conseguito il dottorato in Antropologia e Studi Storico-linguistici presso l’Università di Messina. Ha recentemente dato alle stampe il volume Antropologia della deindustrializzazione, Ed. it.
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