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Per una cartografia dell’immaginario. L’eredità di Umberto Eco

copertinadi Dario Inglese

Chissà cosa avrebbe scritto Umberto Eco delle cronache sordide e cupe che hanno attraversato  il nostro Paese durante questi due anni che ci separano dalla sua scomparsa. Nell’analisi delle confuse convulsioni del nostro tempo ci manca la sua voce dissonante, la intelligenza critica che sosteneva lo sguardo ironico e penetrante della sua testimonianza. Ci confortano le pagine che ci ha lasciato, il patrimonio di idee, di suggestioni, di intuizioni e di princìpi della sua vasta eredità intellettuale e morale. Ci giungono ancora risposte alle nostre interrogazioni di oggi dal libro postumo edito da La Nave di Teseo, Sulle spalle dei giganti (2017), che raccoglie gli interventi tenuti da Umberto Eco in oltre dieci edizioni del Festival culturale-letterario La Milanesiana. Volume che trascina il lettore in un’impresa titanica: un’imponente cartografia dei capisaldi dell’immaginario occidentale. L’assoluto. La verità. L’invisibile. La bellezza. La bruttezza. Il senso del sacro. La menzogna. Il fascino discreto del mistero.

L’opera, una collezione di contribuiti diversi prodotti nell’arco di più di un decennio, rivela una sorprendente unità grazie al duplice movimento che anima il modus operandi e la scrittura di Eco. Il filosofo, semiologo, mass-mediologo, romanziere piemontese, infatti, in ognuno dei dodici saggi che compongono il testo, veste i panni del geografo e dell’archeologo. Dapprima, da perfetto cartografo, mappa i loci della riflessione filosofico-sociologica occidentale, traccia confini e segna punti cardinali utili a far orientare il lettore. Poi, vestiti i panni dell’archeologo, inizia a scavare alla ricerca della loro origine. Ne svela genesi e sviluppo tratteggiandone la storia in pagine cariche di raffinata ironia e immensa competenza.

Sembra proprio che Eco cerchi di venire a capo dell’impossibile progetto enciclopedico che muoveva i geografi di Borges: mappare tutto ciò che è dato sapere. E visto l’inevitabile scacco cui è condannato chiunque azzardi una simile impresa, lo fa nell’unico modo concesso agli esseri umani: non fornire risposte ma generare problemi. «Mi limiterò» –    scrive Eco –  «non a chiarirvi ma a confondervi le idee». E ci riesce bene. Nel senso che, grazie anche all’interessante scelta editoriale di accostare le sue riflessioni a quadri, opere d’arte, illustrazioni, locandine e frame cinematografici, l’autore si tiene ben lontano dal confezionare soluzioni facili per il lettore pigro e prova, piuttosto, in tempi di pubblicazioni fin troppo rassicuranti, a sfidarne pazienza e tenuta. È una lettura multimediale quella proposta, continuamente interrotta e stimolata dalla ricerca di connessioni e dai continui rimandi a opere e citazioni abilmente inserite nel testo.

Il saggio d’apertura, Sulle spalle dei giganti, dà il titolo all’intera raccolta e, di fatto, ne costituisce la chiave di volta. Da qui, infatti, parte il dialogo tra passato e presente, il loro vicendevole richiamarsi, che dominerà le successive quattrocento pagine. Non si può, dunque, che iniziare da qui.

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René Magritte, La connaissance Absol, 1965

«Nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes» («Siamo come nani che stanno sulle spalle dei giganti»). Il celebre aforisma attribuito a Bernardo di Chartres nel XII secolo – sostiene Eco – è un’ottima cartina di tornasole per riflettere sulla natura cumulativa della conoscenza e, soprattutto, sul rapporto tra antichi e moderni nella nostra storia. La straordinaria fortuna di cui l’aforisma ha goduto nel tempo rivela, da una parte, interessanti analogie nella concezione del sapere in ambito religioso e scientifico. È indicativo, infatti, che una massima prodotta nel campo teologico-filosofico sia migrata pacificamente in quello della speculazione scientifica e che una delle sue ultime varianti, prodotta nel XX secolo dall’antropologo Max Gluckman, suoni pressappoco così: «scienza è qualsiasi disciplina in cui anche uno stupido di questa generazione può oltrepassare il punto raggiunto da un genio della generazione precedente». Dall’altra, rende manifesta l’ambiguità del rapporto padre-figlio poiché il riconoscimento di ogni auctoritas contiene i germi del suo superamento. La deferenza verso il modello, cioè, è anche una sfida: storicamente, perché ci possa essere progresso nella conoscenza, i figli sono costretti a uccidere i padri (metaforicamente, s’intende). San Tommaso, ad esempio, ha compiuto una rivoluzione filosofica inaudita ponendosi in totale continuità – così almeno sosteneva l’Aquinate – con la lezione, di fatto rigettata, di Sant’Agostino. Con la storia dei nani (i moderni) sulle spalle dei giganti (gli antichi), insomma, si è potuto, mostrando comunque riguardo, sovvertire le argomentazioni dei maestri. Per secoli, ancorché dissimulata, questa dinamica ha nutrito lo sviluppo del pensiero nel Vecchio e nel Nuovo mondo. Almeno fino ad oggi.

Dopo una squisita disamina della travagliata relazione tra padri e figli nella storia della riflessione filosofica, scientifica e religiosa, Eco sposta la sua attenzione sulla contemporaneità facendosi acuto osservatore della nostra società. Oggi –  scrive –  viviamo in un mondo in cui ci sono sempre meno auctoritates cui richiamarsi. Un mondo in cui, anzi, è proprio lo stesso principio del legittimarsi attraverso un’auctoritas che viene meno, presi come siamo in una confusione di modelli in cui il conflitto generazionale è attenuato in nome dell’adesione incondizionata a tutto ciò che ci propinano mass media e mercato. In questo senso –  osserva l’autore – anche le ribellioni hanno un retrogusto inter-generazionale che ne stempera la forza pacificando la dialettica tra vecchi e giovani.

Eco lancia queste considerazioni in poche righe al termine del suo saggio ma, mi sembra di poter dire, la sua critica non verte solo sul versante psicologico della questione. Importanti psicanalisti, ad esempio, hanno recentemente analizzato il cambiamento della figura del padre e hanno rilevato con preoccupazione come, in nome del perseguimento dell’amicizia a tutti i costi con i figli, i genitori abbiano progressivamente abdicato al loro ruolo di guida. Nelle pagine di Eco, però, non c’è questo. Non solo, almeno. Qui si parla di segni, simboli e della loro risemantizzazione. Di modelli unificati che attenuando l’ideale del “sano parricidio” creano una finta, e sovente diretta dall’alto, pace sociale nemica di un reale allargamento di prospettive e senso critico (a dispetto delle vertiginose rivoluzioni tecnologiche): «il rischio, per chiunque, e senza colpa di nessuno, è che in un’innovazione ininterrotta e ininterrottamente accettata da tutti, schiere di nani siedano sulle spalle di altri nani». «Quando il principio stesso del parricidio è in crisi» –  osserva amaramente Eco –  «mala tempora currunt».

Una nota di pessimismo attenuata, appena prima di chiudere il suo intervento, dal riferimento ai maestri:

«Ma i peggiori diagnostici di ogni epoca sono proprio i contemporanei. I miei giganti mi hanno insegnato che ci sono spazi di transizione, in cui vengono a mancare le coordinate, e non s’intravede bene il futuro, non si comprendono ancora le astuzie della Ragione, i complotti impercettibili dello Zeitgeist. Forse il sano ideale del parricidio sta già risorgendo in forme diverse […]. Forse nell’ombra si aggirano giganti, che ancora ignoriamo, pronti a sedere sulle spalle di noi nani».
-Renè-Magritte-La-robe-du-soir1954.

Renè Magritte, La robe du soir, 1954

Fissate le coordinate con il saggio d’apertura, il volume prosegue indagando temi enormi, per complessità e portata, alla ricerca di connessioni e salti temporali (e disciplinari) tanto pindarici quanto affascinanti. Di fronte a titoli perentori (La bellezza, Assoluto e relativo, L’invisibile, Il complotto, Rappresentazioni del sacro), si passa dalla sensazione di vertigine iniziale alla vivida partecipazione ai ragionamenti e alle provocazioni dell’autore. Chi vorrà saperne di più e, contemporaneamente, confondersi le idee non ha che l’imbarazzo della scelta: c’è qualcosa che accomuna, storicamente e strutturalmente, l’esperienza della bellezza? Il “brutto” va descritto in termini negativi (come assenza di “bello”) o positivi? Che cosa c’è dietro la polisemia del fuoco? Quando un aforisma è cancrizzabile? E qual è la sua funzione? È possibile individuare criteri di verità oggettiva? A cosa serve la narrativa? Perché l’essere umano mente, simula e dissimula? C’è un legame tra segreto e potere? Che cosa rende il mistero tanto affascinante? L’imperfezione è un concetto imperfetto? E perché sembra attrarre artisti, scrittori, registi non meno della perfezione? Come esprimere concretamente quanto di più invisibile ci sia: l’esperienza del sacro?

Questi interrogativi, e altri ancora, sono disseminati lungo tutti i capitoli che compongono l’opera. Non potendo, per ovvie ragioni di spazio, dedicarmi alla discussione dettagliata di ogni singolo saggio, ne scelgo arbitrariamente due. Si tratta di quelli che, a mio avviso, possono offrire fecondi spunti di riflessione ai cultori delle scienze umane.

Il primo, Assoluto e relativo, presentato alla Milanesiana nel 2007 (nel bel mezzo del pontificato di Papa Benedetto XVI), affronta un tema all’epoca dibattuto anche nei salotti televisivi e nei bar: il relativismo culturale. Come molti ricorderanno, l’azione pastorale di Ratzinger si contraddistinse per un netto richiamo all’universalità dei precetti cristiani contro la deriva relativista, intesa come il segno della crisi morale dell’Occidente. Dopo esser salito al Soglio di Pietro, l’attuale Papa Emerito continuava così l’energica missione teologica iniziata da cardinale, come Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e da teologo grazie anche al sodalizio intellettuale con il filosofo Marcello Pera. Bene, Eco interviene nel dibattitto con il suo stile intelligente e pungente. Dopo aver fatto notare che esistono varie tipologie di relativismo (cognitivo, culturale, morale), ricorda che ammettere la diversità non «significa abdicare alla nostra identità culturale» e che il mancato riconoscimento delle ragioni altrui confonde una prudente concezione di verità con la fine di ogni valore e con l’anarchia dei modelli. Una tentazione cui, a volte, cedono anche gli antropologi con esperienza di campo (vedi, ad esempio, Ernest Gellner). Un errore che –  scrive Eco – ai suoi tempi non avrebbe mai permesso di superare un esame di filosofia all’università.

René Magritte, La recherche de l'absolu, 1963.

René Magritte, La recherche de l’absolu, 1963

Ecco che allora la questione da filosofica diventa politica: il netto rifiuto del relativismo culturale è dettato «dalla preoccupazione che la tolleranza per le altre culture degeneri in arrendevolezza e l’Occidente ceda sotto la pressione dei flussi migratori alla prepotenza di culture estranee. Il problema di Pera non è la difesa dell’assoluto ma la difesa dell’Occidente». Gli anti relativisti, dunque, estendono indebitamente il precetto nietzschiano, “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”, a tutto il pensiero moderno e contemporaneo. Usano, cioè, l’assoluto come una scure per difendere le loro posizioni identitarie. Tuttavia –  continua Eco – la morte di Dio non ha inaugurato un’era in cui tutto è permesso. Anzi, proprio i non credenti sono consapevoli che «se non ci sono inferno e paradiso, allora è indispensabile salvarci in Terra stabilendo benevolenza, comprensione e legge morale».

Se così stanno le cose, possiamo ancora servirci del concetto di assoluto? Eco chiosa con estrema ironia respingendo tanto gli allarmati moniti dei difensori dei valori universali quanto la deriva iper-decostruzionista di certa filosofia. Meglio dare spazio alle sue parole:

«[…] non esisterà forse un assoluto, o se esiste non sarà né pensabile né attingibile, ma esistono delle forze naturali che assecondano o sfidano le nostre interpretazioni. Se io interpreto una porta aperta dipinta in trompe l’oeil come una porta vera e vado dritto per attraversarla, quel fatto che è il muro impenetrabile delegittimerà la mia interpretazione. Ci deve essere un modo in cui le cose stanno o vanno – e la prova è non solo che tutti gli uomini sono mortali ma anche che, se tento di passare attraverso un muro, mi rompo il setto nasale. La morte e quel muro sono l’unica forma di assoluto di cui non possiamo dubitare. L’evidenza di quel muro, che ci dice “no” quando noi vogliamo interpretarlo come se non ci fosse, sarà forse criterio di verità assai modesto per i custodi dell’assoluto, ma, per parafrasare Keats, “questo è tutto ciò che voi sapete in terra e tutto ciò che vi occorre sapere”. Forse ci sono altre cose da dire sull’assoluto, ma per il momento non mi vengono in mente».

Che è come dire, tradotto in linguaggio antropologico (e mi rifaccio alla lezione di Silvana Miceli), che la conoscenza, se non può mai essere necessaria, cioè obbligata dal reale, non è mai gratuita rispetto ad esso. All’inizio e alla fine delle nostre interpretazioni c’è sempre il mondo, benché le nostre messe a fuoco siano sempre, e inevitabilmente, variabili e prospettiche.

Il secondo contributo, L’invisibile. Perché è falso che Anna Karenina abitasse in Baker Street, invece, è un testo del 2009, in cui Eco parla di storia e letteratura, oggetti semiotici e personaggi fluttuanti per riflettere sulle categorie di verità e finzione. Ciò che ci affascina dei protagonisti narrativi (Madame Bovary, Anna Karenina, Sherlock Holmes) è che «il loro destino non può essere cambiato». Tutte le proprietà diagnostiche utili al loro riconoscimento, diversamente da quanto accade per una persona reale, le ritroviamo all’interno del testo nel momento in cui, sottoscrivendo un tacito patto con lo scrittore, sospendiamo la nostra incredulità. «Leggere narrativa», pertanto, «significa sapere che alla sorte del personaggio non si può cambiare nulla. Se potessimo cambiare la sorte di Madame Bovary non avremmo più la consolante certezza che l’asserzione Madame Bovary si è suicidata è il modello di ogni verità indiscutibile». Ecco perché ci affezioniamo tanto agli eroi e alle eroine letterarie: perché attraverso le loro parabole possiamo sperimentare la certezza assoluta. Eco provoca: non potrò mai dire di aver conosciuto la storia e la persona di mio padre (o quella di una figura storica realmente esistita come Hitler) quanto la vicenda e la soggettività di un’invenzione letteraria come Anna Karenina. E ancora:

«Il papa e il Dalai Lama possono discutere per anni sulla verità di un asserto come Gesù Cristo è veramente figlio di Dio, ma se sono persone sensate (e informate dei fatti) non potranno non convenire sul fatto che Superman sia la stessa persona di Clark Kent. E dunque, per sapere se Hitler è morto in un bunker a Berlino sia indubitabilmente vero dobbiamo controllare se è indubitabilmente vero come Superman è Clark Kent. Così la funzione epistemologica degli asserti romanzeschi è che possono essere usati come cartina di tornasole per l’irrefutabilità di ogni altro asserto».
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René Magritte, La grande Table, 1965

Mentre leggevo con grande interesse queste pagine, ho ripensato al cosiddetto “interpretative turn” che inaugurò il dibattitto sulla poetica dell’etnografia e al “maledetto libro” (Writing Culture di James Clifford e George Marcus) che, negli anni Ottanta del XX secolo, portò alle estreme conseguenze la riflessione sul carattere fittizio di ogni monografia antropologica. Benché Clifford Geertz, il papà della “svolta”, fosse perfettamente conscio della finalità delle strategie retoriche impiegate dagli antropologi in fase di scrittura (convincere il pubblico di esser stati veramente sul campo e di aver realmente visto ciò che hanno descritto), la sua azione di disvelamento, col tempo, è scivolata verso la (quasi vergognosa) confessione del carattere meramente finzionale dell’etnografia (come se essa fosse del tutto indipendente dall’esperienza) per negarne, o comunque annacquarne, lo statuto scientifico (si veda, nel volume collettaneo curato da Clifford e Marcus, almeno il saggio di Stephen Tyler).

Forse mi sono fatto prendere troppo la mano dalla lettura di Eco, ma ho pensato che, sulla scia delle sue considerazioni, l’ultimo trentennio di storia dell’antropologia potrebbe essere riletto tornando al nucleo originario dell’argomentazione geertziana. Se, per Eco, «il mondo non è un parametro in funzione del quale giudicare gli universi narrativi; sono gli universi narrativi a essere il parametro che ci consente di giudicare le nostre interpretazioni del mondo», non potremmo allora vedere nell’accostamento dell’antropologia alla letteratura, più che la conferma della sua debolezza epistemologica, la volontà di rafforzare la veridicità degli asserti etnografici? Se la storia della relazione tra un trafficante ebreo, uno sceicco berbero e un soldato francese nel Marocco del 1912 è strutturalmente affine alla storia del rapporto tra una borghese adultera e il suo inetto amante nella Francia dell’Ottocento, non potrebbe darsi che, proprio mirando alla forza evocativa della narrativa, la descrizione antropologica abbia cercato, e cerchi, di giungere il più vicino possibile all’oggettività? Eco, a questo punto, potrebbe essere un interlocutore ideale per discutere di esperienza, etnografia e (nuove forme di) scrittura. Sto pensando, per restare in Italia, agli esperimenti di antropo-fiction di Matteo Meschiari (Artico Nero e Neghentopia) in cui l’autore fonde struttura narrativa, attitudine antropologica e presa di posizione politica. Sto pensando, inoltre, a un lavoro (Antropologia e letteratura), anch’esso postumo purtroppo, in cui Antonino Buttitta si confronta con il disagio antropologico rispetto alla straordinaria potenza che certe rappresentazioni letterarie dimostrano di avere nel restituire vividamente culture e società.

Com’è evidente, l’importanza del testo di Eco sta nella sua capacità di sparigliare le carte, di confondere e spronare alla ricerca. L’eredità più grande che il filosofo piemontese potesse lasciarci.

Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018
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Dario Inglese,  ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System.
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