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Come muoiono le maestre

coverdi Sergio Ciappina 

Schiaffi e pugni. Al volto e, soprattutto, alla testa. Pugni su pugni, fino a stordire l’insegnante. Fino a farla stramazzare al suolo senza forze e quasi priva di conoscenza. Fino a mandarla in ospedale dove è ancora ricoverata (al San Paolo) per un trauma cranico contusivo.

Una maestra descritta da tutti come una persona assolutamente mite, molto coscienziosa. Di lunga esperienza. Accusata dalla madre di un bambino di essere stata brusca con il piccolo, di averlo strattonato tirandolo per un braccio e lasciandogli un livido. L’ennesimo episodio di violenza ai danni di una insegnante. Violenza cieca, consumatasi davanti ai bambini che stavano per uscire da scuola.

Piccoli di scuola materna, ovviamente terrorizzati dall’accaduto. Di più, sotto choc, in lacrime per la loro maestra picchiata senza riguardo. Tre persone, un bidello e due assistenti, sono dovute intervenire per bloccare l’aggressore, una donna poco più che trentenne, ora denunciata a piede libero per lesioni personali.

L’ennesima violenza ai danni di una insegnante è avvenuta due giorni fa, nella scuola Leopardi di Fuorigrotta. Un tranquillo pomeriggio scolastico: i bambini della materna stavano per tornare a casa, i genitori li andavano a prendere in classe. Tutti già con i giubbini e gli ombrelli, stanchi ma sorridenti. Fino al sopraggiungere della signora che ha cominciato ad inveire violentemente contro la maestra del figlio, accusandola di essere violenta e intimandole, soprattutto, di non permettersi di «toccare mio figlio». L’insegnante, 50 anni, è riuscita a stento a dire qualche parola, voleva spiegare che quel bambino a volte le dava filo da torcere, che non era un granché rispettoso delle regole della vita scolastica [1].          

il-romanzo-dun-maestro-parte-ii-edmondo-de-amicis-treves-1914-324394859230Quello che abbiamo appena letto rappresenta uno dei più eclatanti e paradigmatici episodi di violenza animalesca perpetrati ai danni di una docente. Ma questa violenza non nasce dal nulla né tantomeno da deteriorate relazioni sociali: quell’allentarsi dei legami tra individui che scivolano inesorabilmente in un rancore sordo verso le istituzioni e in genere contro qualsiasi altra realtà che non sia l’immediato intorno; e spesso neanche quello.

Quanto sopra descritto rappresenta molto bene la cifra del nostro episteme, ma ciò che ha subìto la maestra della scuola “Leopardi” di Fuorigrotta in provincia di Napoli, anche se potenziato da questo degrado delle relazioni tra cittadini, ha origini storicamente attestate nella scarsa considerazione che, primariamente, l’istituzione scolastica italiana, e conseguentemente la stessa cittadinanza, nutre nei confronti dei e delle docenti alle dipendenze dello Stato.

Ricordate Edmondo De Amicis? Nel 1886 scrisse Il romanzo di un maestro, quasi coevo del più conosciuto libro Cuore, di cui costituisce una sorta di contraltare, fu pubblicato dalla casa editrice Treves solo quattro anni dopo, nel 1890, per non contrastare il “capolavoro” deamicisiano.  Il racconto è centrato sulla figura di un maestro di prima elementare, Emilio Ratti, un immaginario insegnante di scuola “elementare” di fine XIX secolo, formatosi alla Scuola normale di Pinerolo, destinato a scontrarsi con i raggiri e le meschinità di un mondo di provincia, qui ritratto con lucida oggettività.

L’autore lo pubblicò con l’evidente intenzione di denunciare l’arretratezza culturale dell’Italia da poco unificata e le deplorevoli condizioni della classe magistrale. Leggiamone insieme qualche passaggio:

«Entrando per la prima volta, in qualità di maestro, in una società signorile e non priva d’una certa cultura, egli aveva creduto che la sua professione vi fosse tenuta in un grado di stima corrispondente alla sua reale importanza. [ ... ] E fu invece molto stupito al riconoscere che quel nome di maestro sonava agli orecchi dei più assai diverso da quello che aveva immaginato, che alla sua professione pareva legata l’idea di non so che di meschino e di trito, e quasi un’ombra di ridicolo. [...] E soprattutto lo umiliava il contegno ossequioso d’una maestrina di Torino, che una bella e grossa signora, moglie d’un ricco negoziante d’olii, aveva condotta in campagna a fare ripetizione ai bambini: egli si sentiva ferito di rimbalzo, quando, senza mostrare il minimo senso della sconvenienza dell’atto, la signora le diceva: “Maestra, mi tenga lo scialle. Signorina, mi vada a prendere il ventaglio” come a una cameriera. [...] Perdio, un maestro era così poca cosa? e, ancora ingenuo, se ne domandava il perché. Egli trovava una contraddizione assurda fra quel gran dire e scrivere che si faceva da anni, della nobiltà della professione d’educatore, dell’importanza capitale dell’istruzione primaria, dei diritti disconosciuti e delle sante benemerenze di maestri verso la società, e la maniera con cui questa società li trattava, a quattrocchi. Come mai? diceva tra sé. Ci affidano i loro figliuoli, ci dicono:  “ingentilite i cuori, preparate una generazione migliore, rifate il mondo …” e poi: [...] “Maestra, mi vada a prendere il ventaglio”. Qui c’è un’ingiustizia e un’ipocrisia» [2].

“Perdio, una maestra era così poca cosa?” Al di là della doverosa correzione del genere, anche a distanza di più di centoquarant’anni di vita unitaria, si può trovare più di un’analogia nei comportamenti della bella e grossa signora e quelli della violenta “poco più che trentenne” napoletana che ha quasi ammazzato di botte la maestra dei giorni nostri: prima tra tutte quel sentimento di sprezzante superiorità nei confronti di un docente della scuola dell’obbligo, in questo caso di una docente, che autorizza entrambe le gentili signore a pretendere da quest’ultima comportamenti servili e allineati ai propri insindacabili voleri, pena le percosse.

41xwgotxzl-_uf10001000_ql80_È un sentimento che ha radici profonde nella società italiana, qualcosa che ha a che vedere con un’arretratezza culturale endemica; una società che non riconosce alle donne la possibilità di crescere e svilupparsi secondo i propri desideri e aspirazioni, obbligate, e perciò destinate fin dalla nascita, dalla struttura patriarcale della nostra società al “naturale” ruolo di mezzi di ri-produzione e, in quanto mezzi e non persone, oggetto e non soggetto di diritto.

Utili alla nostra dissertazione le parole di Elena Gianini Belotti che, nel raccontare la vicenda di Italia Donati, maestra dell’Italia (un destino nel nome) post unitaria morta suicida in seguito alle accuse di comportamenti immorali sollevati dall’opinione pubblica del tempo, descrive puntualmente quell’appiccicosa miscela d’invidia e riprovazione che si spandeva addosso a chi, come quella maestra, perseguiva con tutte le sue forze l’unica via di emancipazione concessa a quel tempo alle donne, in alternativa al silenzio di una clausura: domestica o ecclesiastica non faceva differenza.

«Li sentiva e li vedeva, i paesani e i vicini delle Case Bini, sogghignare malevoli della sua sconfitta, che del resto avevano predetto e annunciato con un livore che l’aveva ferita: bisogna contentarsi di quello che si ha e del posto dove si sta, quello che Dio ci ha assegnato, non si deve fare il passo più lungo della gamba. A tutti piacerebbe smettere di zappare il campo dal mattino fino a notte e sedersi dietro a una cattedra a non far niente, e guadagnarci pure dei bei soldi. S’è mai vista da che mondo è mondo una figliola di contadini istruita come una figliola di signori? Molti vanno a studio vitelli e tornano a casa buoi. Vedrai tu che la superbia andò a cavallo e tornò a piedi. E principalmente, a che serve l’istruzione a una ragazza? Solo a mettersi grilli nel capo. Meglio che sappia poco, prenda marito e metta al mondo figlioli, che è quello che devono fare le ragazze» [3]. 

Alzi la mano chi, oggigiorno, non ha mai sentito dire che le docenti e i docenti stanno nove mesi seduti dietro una cattedra a non far niente, il ventisette del mese prendono lo stipendio (pensate: ben tredici volte in un anno) e hanno tre mesi di ferie pagate senza contare festività natalizie o pasquali; che la scuola per colpa loro e, di conseguenza, mai dell’utenza composta da studenti e famiglie, non insegna niente; che, nel caso delle docenti, una donna che intraprende la strada dell’insegnamento è in buona sostanza una scriteriata con degli insetti della famiglia dei “Grillidi” che nidificano tra i suoi capelli e che non ne vuol sapere di sottomettersi, come stabilito da una divinità guarda caso sempre declinata al maschile, a “colui che porta i pantaloni” assicurandogli così, col proprio corpo, una degna “discendenza”.

Per molte giovani donne come Italia Donati, diplomarsi maestra non era solo un traguardo, ma l’unica porta verso una timida autonomia. Era la loro occasione per emergere, seppur con fatica, da un destino spesso già scritto. Ma la strada non era certo in discesa. Nonostante l’entusiasmo, queste pioniere si trovavano a fare i conti con un sistema scolastico a dir poco frustrante. L’istruzione elementare era gestita dai comuni, non dallo Stato, lasciando le maestre in balia dei “notabili” del luogo che potevano abusare del loro potere, mentre le autorità scolastiche si voltavano dall’altra parte.

tl07-1911-208x300In definitiva, queste malcapitate si trovavano a dovere subire un controllo asfissiante e una solitudine incolmabile. Il vero ostacolo, però, erano i costumi radicati. Persino quando, nel 1911, l’istruzione elementare passò sotto il controllo statale in virtù della legge Daneo-Credaro che, presentata una prima volta nel 1910 dal ministro della pubblica istruzione Edoardo Daneo, fu portata all’approvazione l’anno successivo dal nuovo ministro Luigi Credaro. La legge suddivideva le scuole in due categorie: scuole dei capoluoghi di provincia, ancora in gestione diretta ai Comuni; scuole di tutti gli altri Comuni, poste alle dipendenze dei Provveditorati agli studi, fossili burocratici sopravvissuti fino a qualche decennio fa. Lo Stato era dunque direttamente impegnato nell’organizzazione e gestione dell’istruzione elementare nei territori economicamente e socialmente più deboli [4].

Anche allora però la vita delle maestre nei paesini sperduti non migliorò affatto. Una giovane donna, soprattutto se bella e “forestiera”, veniva accolta con diffidenza, alimentando gelosie, invidie e pettegolezzi. La sua sola presenza, e il suo ruolo di autorità, sconvolgeva l’ordine arcaico di borghi immobili nel tempo. La maestra nubile era costantemente sotto la lente d’ingrandimento del villaggio o della cittadina di un’Italia, allora come oggi, per la maggior parte chiusa e senza una ipotesi di futuro.  Ogni suo gesto, parola, sorriso, persino il colore dell’abito o l’acconciatura, venivano sezionati e giudicati, spesso con malizia. La sua moralità era messa in discussione, la sua partecipazione alle funzioni religiose scrutinata, le sue amicizie spiate. Le relazioni sentimentali? Erano un vero e proprio scandalo, inconcepibili per una donna con un ruolo educativo così delicato. Neanche fosse un prete, sacerdote maschio a cui generalmente si perdonava e si perdona ancor oggi qualche cedimento, perché si sa: l’omo è omo …

Vivere in una solitudine soffocante era la norma. Circondata da preti, perpetue, suore e vecchie bigotte, senza contare gli uomini, tutti ugualmente pettegoli e misogini, la maestra non poteva fidarsi di nessuno né sfogarsi con anima viva. Era sottoposta a una vera e propria inquisizione da parte di persone spesso più rozze e ignoranti di lei, che per giunta vedevano nell’obbligo scolastico dei figli una sottrazione di braccia al lavoro dei campi e nella maestra la “gendarme” incaricata di imporre questa sgradita costrizione.

È in questo contesto che la celebre scrittrice Matilde Serao alza la voce, scrivendo un articolo sconvolgente per il “Corriere di Roma” il 25 giugno 1886. Il titolo? “Come muoiono le maestre”. Serao non si limita a denunciare le condizioni miserevoli in cui versavano queste pioniere dell’istruzione; stila una vera e propria lista delle vittime, storie strazianti che si susseguono dai piccoli borghi del nord a quelli del sud Italia. Leggendo le sue parole, ci troviamo di fronte a un quadro desolante: troviamo la disperazione estrema della giovane insegnante che, sopraffatta dalla disperazione, decide di gettarsi dal campanile della chiesa, un’altra si avvelena con i vescicanti, un atto estremo per sfuggire a una realtà insostenibile.

Matilde Serao

Matilde Serao

Ci sono poi alcune che, dopo la chiusura della scuola per mancanza di fondi, sono costrette a camminare per decine di chilometri a digiuno pur di tornare a casa, stremate dalla fatica e dalla fame, fino a morirne. La scrittrice ricorda un’insegnante che viene uccisa dal tifo, ritrovata morta solo dopo una settimana perché nessuno si era preoccupato di lei. E ancora, quella che si ammala e muore di tisi dopo una lunga agonia, logorata dagli anni di accanimento e ostilità da parte dell’intero paese.

Queste non sono solo storie, ma veri e propri martirii. Giovani donne, coraggiose e determinate, che sono cadute sul campo, vittime di una società che ostacolava la loro sete di emancipazione con pregiudizi, indifferenza e un’atroce solitudine [5]. Dietro le tragiche storie che abbiamo letto si nascondeva spesso un lato oscuro e disgustoso: quello delle odiose calunnie. Ma chi le ordiva? Spesso si trattava di pretendenti respinti, uomini che, sentendosi superiori, interpretavano l’apparente libertà e autonomia di queste maestre come disponibilità o, peggio, come una licenza per trasformarle in prede. Questi individui si arrogavano il diritto di molestare e perseguitare, convinti che il loro status o la posizione sociale gli conferissero una sorta di “diritto di caccia”. La loro incapacità di accettare un rifiuto si traduceva in vendetta, macchiando la reputazione e distruggendo la vita di donne già vulnerabili.

Anche l’articolo di Matilde Serao prende le mosse dalla vicenda paradigmatica della maestra: Italia Donati. Vediamo perché la storia di questa maestra, nativa della provincia di Pistoia, finisce per diventare lo specchio di tante altre storie di sopraffazione che, ancora oggi, costellano la società patriarcale italiana.

Itala Donati

Itala Donati

Nel cuore dell’Italia postunitaria, la giovane maestra fu vittima di un sistema educativo gestito a livello comunale, soggetto agli umori di amministratori locali spesso autoritari e moralmente discutibili. Siamo a Porciano, in Toscana, dove Italia, appena nominata, fu costretta a presentarsi al sindaco Raffaello Torrigiani, un possidente con reputazione di donnaiolo e grande influenza sulle assunzioni scolastiche. Il sindaco, approfittando del suo ruolo, le impose di alloggiare nella dependance della sua villa, dove conviveva con la moglie, l’amante e le rispettive figlie, con il pretesto di farle risparmiare denaro. La giovane, seppur riluttante, accettò per non compromettere l’incarico e per sostenere economicamente la sua famiglia, pur chiedendo invano di essere affiancata da una nipote come protezione.

Il caso di un’altra maestra, Vittoria Lastrucci, colpevole di non aver accettato la corte e di non avere ceduto alle richieste del sindaco e licenziata dopo essersi ribellata, chiarì a Italia i rischi a cui andava incontro. Nonostante i suoi costanti rifiuti alle avances, la maestra fu coinvolta in pettegolezzi velenosi. Torrigiani stesso contribuì a gettare ombre sulla sua reputazione, vantandosi con amici di relazioni mai avvenute. In paese, Italia venne ingiustamente soprannominata “la terza donna del sindaco”.

Quando, nel 1884, la comunità fu colpita da un’epidemia di tifo, Italia rispose con generosità e competenza, visitando i bambini malati casa per casa e istruendo le famiglie sull’igiene. Ma la sua dedizione non bastò a proteggerla: una denuncia anonima la accusò di aver abortito con la complicità del sindaco. L’uomo fu costretto a dimettersi, mentre Italia venne indagata dalla Magistratura di Pistoia. Con grande dignità, chiese accertamenti medici per provare la propria innocenza, ma senza esito. Solo allora la sua famiglia acconsentì a farle compagnia con una nipote, e la giovane poté trasferirsi in una casa autonoma. Ottenne infine il trasferimento nella scuola di Cecina, dove però la precedette una fama infamante. La nuova comunità l’accolse con allusioni, lettere anonime e nuovi sospetti: si parlò di un’altra relazione e persino di una gravidanza.

Sola, abbandonata a se stessa e alle calunnie, Italia vide nel suicidio una promessa di riscatto, anche se postumo, fermamente convinta com’era che soltanto l’autopsia avrebbe fugato ogni dubbio circa le sue presunte gravidanze e il suo tanto vociferato aborto. Scrive al fratello nella sua ultima missiva del maggio 1886 prima di uccidersi:

«Mio adorato fratello.
Perdonami anche tu del dolore che vi reco facendo questo passo, ma la vita è troppo triste per me e nella morte sola trovo la pace, l’onore. Tranquillizzati… io sono innocentissima di tutte le accuse fattemi e la prova l’avrai, come l’avranno tutti, dopo la mia morte. A te, mio unico fratello, a te mi raccomando con tutto il cuore, e a mani giunte, di fare quello che occorrerà per far risorgere l’onore mio. Non ti spaventi la mia morte, ma ti tranquillizzi pensando che con quella ritorna l’onore della nostra famiglia. […]. Prendi il mio corpo cadavere, e dietro sezione e visita medico-sanitaria fai luce a questo mistero. Sia la mia innocenza giustificata […] Se vi fosse modo di far portare il mio corpo, dopo giustificato [6] nel Campo Santo del Cintolese [7], senza sacrifizi, portacelo […] Chiedo questo perché le ragazze che mi hanno odiata e biasimata in vita non vengano a burlarsi ancora di me per la via del sepolcro» [8]. 

Isolata, calunniata e oggetto di violenza morale e psicologica, la Donati è il simbolo di una generazione di maestre coraggiose, lasciate sole in un Paese, l’Italia, che non sapeva tutelarle. Non sapeva? A leggere le cronache odierne, sembrerebbe che ancora oggi, a quasi centoquarant’anni, lo Stato italiano stenti a fornire qualunque tipo di tutela umana ed economica, considerato che gli stipendi dei docenti italiani, soprattutto quelli con più esperienza, risultano inferiori rispetto alla media europea e alla media OCSE [9].

img_4225Vittorio Lodolo D’Oria, medico specializzato nelle patologie da stress da lavoro, che da anni lavora sul burnout degli insegnanti, ha condotto, pubblicandone i risultati su LabParlamento – progetto editoriale gestito da un gruppo di professionisti che si occupano di comunicazione politica – uno studio scientifico rigoroso su un “male di vivere” ancora poco conosciuto e riconosciuto, anche per gli stereotipi sociali legati alla figura del docente. Che, ancora oggi, per la maggioranza dell’opinione pubblica italiana è un dipendente pubblico che «lavora quattro ore al giorno e ha tre mesi di vacanza». La realtà, come documenta il lavoro pluridecennale di Lodolo D’Oria, è tutt’altra e racconta una storia sconosciuta ai più [10].

Tra il 2014 e il 2024, ben 110 insegnanti italiani si sono tolti la vita. Una media inquietante di circa un suicidio al mese, che però resta fuori dai riflettori dell’opinione pubblica e delle istituzioni. A eccezione dei mesi estivi (luglio e agosto), questo drammatico bilancio si ripete con regolarità spaventosa. Eppure, se ne parla pochissimo.

Un’anomalia emerge nel 2017, anno in cui si registra quasi un quarto dei suicidi totali del decennio, senza che vi sia una spiegazione ufficiale. In termini geografici, il fenomeno colpisce maggiormente il Sud e le Isole (58%), seguiti da Nord (23%) e Centro (19%).  È da considerare in proposito che non tutti i suicidi vengono alla luce perché spesso la famiglia del defunto vuole evitare di divulgare il fatto alla comunità.

professoreAnche il genere è un fattore da considerare: su 110 casi, 65 sono donne e 45 uomini. Tenendo presente che oltre l’80% del personale docente in Italia è femminile, il dato conferma una tendenza coerente, ma comunque preoccupante. L’età media delle vittime è di 51 anni, che scende a 48 quando si considerano solo gli insegnanti ancora in servizio. I suicidi non sono circoscritti a un ordine scolastico: riguardano tutte le fasce, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado. Eppure, questo allarme non sembra destare la giusta attenzione.

In Italia, manco a dirlo, manca un monitoraggio ufficiale. L’argomento è spesso rimosso, sminuito o ridotto a notizia di cronaca, mentre lo stress professionale, il burnout, la precarietà e la mancanza di supporto psicologico diventano macigni silenziosi sulle spalle di migliaia di docenti. Non è solo una questione statistica: è una questione umana e sociale, che coinvolge la salute mentale, la dignità del lavoro e il futuro della scuola. E il silenzio che circonda questi numeri è un’ulteriore forma di abbandono.

Italia Donati fu la prima di cui si ebbe notizia, diventando un fatto mediatico ante-litteram: oggi casi simili si mischiano ad altri fatti di cronaca nera, scivolando nell’oblio di una Italia, nazione, che avendo poca o nulla memoria di sé, non riesce a immaginarsi un futuro migliore. Da Matilde Serao, 1886 a Vittorio Lodolo D’Oria, 2025, sappiamo “come muoiono le maestre”, ma non sappiamo, o forse non vogliamo, prevenire questo fallimento sociale e culturale. 

Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025 
Note
[1] dal quotidiano «La Repubblica» del 18 maggio 2018
[2] Edmondo De Amicis, Il romanzo di un maestro, a cura di Anna Ascenzi, De Ferrari, Genova, 2007: 79
[3] Elena Gianini Belotti, Prima della quiete - Storia di Italia Donati, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2005: 26
[4] Si può consultare integralmente sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, 17 giugno 1911 al link: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/1911/06/17/142/sg/pdf (07/25)
[5] Matilde Serao, Come muoiono le maestre, sul Corriere di Roma del 25 giugno 1886
[6] Ossia ricomposto dopo l’autopsia
[7] Il paese natale di Italia Donati in provincia di Pistoia
[8] Carlo Paladini, Le sventure di Italia Donati, in Corriere della Sera, 10-11 giugno 1886
[9] fonte: Orizzonte Scuola all’indirizzo https://www.orizzontescuola.it/stipendi-netti-docenti-italiani-confronto-con-paesi-ue-impietoso-a-fine-carriera-2-000-euro-contro-3-000-in-francia-e-piu-di-5-000-in-germania-anief-ai-precari-ancora-meno-subito-interventi-str/ (08/25)
[10] Vittorio Lodolo D’Oria, Il suicidio tra gli insegnanti italiani (2014-2024): un fenomeno internazionale ignorato, su LabParlamento, quotidiano di analisi e scenari politici: https://www.labparlamento.it/il-suicidio-tra-gli-insegnanti-italiani-2014-2024-un-fenomeno-internazionale-ignorato/ (08/25). 

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Sergio Ciappina, siciliano di nascita, toscano d’adozione; si occupa di ingegneria dei sistemi informatici e networking strutturale e fornisce consulenza su revisione dei processi decisionali, tecniche della contrattazione e gestione dei conflitti. Ha ottenuto il diploma di laurea in Storia presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi sulle «Radici e evoluzione del pregiudizio antiebraico: un’analisi storico-semantica» pubblicata dall’Osservatorio antisemitismo della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea CDEC ETS; successivamente ha proseguito gli studi e la ricerca conseguendo il diploma di laurea magistrale in Scienze Storiche con una tesi sulla «Repressione del dissenso intellettuale sotto il fascismo: Giuseppe Rensi e Ernesto Rossi nelle carte della polizia». Nel 2024 ha conseguito il diploma di laurea magistrale in Intermediazione Culturale e Religiosa con la tesi «Il controllo della Chiesa Cattolica sul corpo e sulle libertà delle donne come strumento per la rigenerazione del patriarcato: Venere e Imene al tribunale della penitenza» e concluso il percorso di Perfezionamento in Didattica della Shoah su un progetto dal titolo: «Quello che i libri non dicono e che è importante conoscere». Fa parte della redazione del progetto di ricerca gestito dalla Firenze University Press ‘Intellettuali in fuga dall’Italia fascista’.

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