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Clinica e testimonianza

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Christiane Spangsberg

 

dialoghi oltre virus

di Angelo Villa

Il disastro della pandemia ha, ovviamente, interessato in primo luogo la clinica propriamente medica, come è giusto e prevedibile che sia. Il termine clinica deriva dal greco e sta per “letto”. Di conseguenza, la clinica attiene quella prassi che riguarda chi giace in un letto, chi è ammalato, quindi. Ma, la clinica del disagio psichico mostra bene come la sintomatologia o, per ricorrere a un’espressione più ampia, il malessere individuale si palesano anche al di fuori del letto o, per rimanere in questa metafora, dopo il letto, dopo essere stati confinati in un letto. È il caso a cui qui mi riferisco di un’esperienza tutt’ora in corso in un’istituzione pubblica con operatori sociosanitari. Diciamo subito il luogo: Bergamo e la sua provincia.

Com’è noto, l’Italia è stato uno dei Paesi più devastati dal virus, la Lombardia è stata la regione più provata dell’Italia, Bergamo è stata la provincia più dolorosamente segnata della Lombardia. Una catastrofe inimmaginabile, mi raccontano amici e colleghi. Taluni di loro hanno dovuto fare l’esperienza drammatica dell’ospedalizzazione, altri sono rimasti letteralmente barricati in casa, terrorizzati, come altri abitanti delle valli bergamasche. Alcuni loro colleghi sono morti.

La ripresa degli incontri con loro, necessariamente via Skype, ha posto al centro la narrazione delle vicende traumatiche da loro vissute e, poi, successivamente, l’attenzione è andata sul lavoro clinico che in quel momento gli operatori stavano svolgendo tramite telefono, ad esempio, con delle persone che si rivolgevano a loro a seguito degli accadimenti dolorosi che avevano, sulla loro pelle, avuto modo di trovarsi a fronteggiare. Come fare, dunque? Come rispondere a queste domande? Una situazione anomala e di dimensioni catastrofiche si impattava con interlocutori anch’essi chiamati a farvi i conti secondo una modalità essa stessa anomala, quella cioè che doveva evitare un contatto fisico, non senza dimenticare che loro stessi avevano provato quel che gli “altri”, cioè qui i soggetti ponevano come una questione.

Quale clinica, se di questo si può parlare, è quindi possibile? E se no (come la si dovrebbe denominare altrimenti?) di clinica si tratta, quali considerazioni si possono sviluppare a riguardo, non foss’altro per fornirle un quadro orientativo che la contestualizzi?

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Christiane Spangsberg

Sull’emergenza

Una prima intuizione in proposito è stata quella di porre tale approccio sotto l’insegna generica e vaga di clinica dell’emergenza. Il problema non è chiaramente d’ordine formale, ma se le parole dicono pur qualcosa, e di questo è poi fatto il nostro mestiere, la designazione permette o, quantomeno, dovrebbe permettere di cogliere qualcosa della “sostanza”, cioè della specificità della posta in gioco.

È per questa ragione che ritengo che il termine ‘emergenza’ non sia il più appropriato per identificare un tale genere di clinica. L’emergenza implica la fretta e quella che, parafrasando Lacan, potremmo considerare la buona fretta o, aggiungiamo, la fretta necessaria, quella che è sollecitata in un ambito medico, in un Pronto Soccorso. Ma, trasportata in una clinica della parola, l’emergenza o, se vogliamo, l’urgenza rischia di introdurre un rischio o, comunque, un grossolano fraintendimento.

Ritenere una clinica della parola, come è quella propria alla psicoterapia a orientamento analitico, come legata all’emergenza comporta l’idea di associare la parola al bisogno (quale?) e, nel contempo, porre l’accento sull’oggetto, cioè su quella che possiamo ritenere l’analogo di uno strappo, di una lacerazione dei tessuti ai quali l’intervento psicoterapeutico pone un rimedio. O, una consolazione. Come se, in questo procedere le cose andassero da sé, subordinando il singolo a quello che si ritiene abbia subìto. La proiezione in campo psicologico di un evento oggettivamente traumatico costituirebbe qui il male da sanare, la ferita da ricomporre.

Di conseguenza, l’emergenza stessa è situata in relazione all’accadimento, di cui il soggetto è, di rimando, colui che ne è provato e che deve essere, quindi, a ragion veduta, sostenuto.  Quasi fosse un’appendice dell’evento doloroso in quanto tale. In questo senso, il soggetto medesimo è “qualcuno” che, nella sua sofferenza, è immaginato all’interno di una drammatica contingenza in cui l’operatore, foss’anche al prezzo (com’è capitato…) di invertire una domanda di cura, è chiamato a intervenire, sino a tentare di anticipare un’eventuale, ma non scontata, richiesta d’aiuto da parte del singolo.

Non è forse, in tal senso, un caso che talune proposte emergenziali d’aiuto non abbiano poi trovato un grande rispondenza presso un’utenza potenzialmente interessata ad essa, in quanto pesantemente segnata dagli accadimenti, proprio a partire dal rapporto fissato dall’esterno tra evento traumatico e domanda soggettiva, laddove l’emergenza o l’urgenza pareva andare da sé, saltando il soggetto, in virtù del fatto che erano quest’ultime (emergenza e urgenza, per l’appunto)  a stabilire il tempo stesso di quella che avrebbe dovuto essere una richiesta d’aiuto individuale.

È una semplificazione che misconosce quel che la clinica, nella fattispecie quella delle psicosi, non manca puntualmente di segnalare, quella cioè della non coincidenza tra una situazione di malessere, spesso ridondante, e una richiesta d’intervento. Lo scarto tra la prima e la seconda mette in chiara luce la differenza tra la clinica medica e quella psicoterapica, in particolare se la seconda non vuole essere una clinica della manipolazione, fosse anche nella migliore delle intenzioni. La clinica psicoanalitica è sempre e comunque una clinica dell’offerta e non della domanda da parte del terapeuta, pena il generarsi di un corto circuito gravido di ambigui malintesi. Si aggiunga, per altro, che la clinica psicoterapeutica stessa, a fronte della mancata urgenza in realtà al limite della civile convivenza, si trova spesso misurata con un’urgenza soggettiva del tutto “incomprensibile” o, a volte, apparentemente ingiustificata, quando una persona chiede con insistenza la possibilità di accedere rapidamente a un colloquio in relazione a un fatto di cui può colpire la natura risibile, ma che, evidentemente, tale non è per chi se ne lamenta. O, ancora, può ben succedere che un individuo si rivolga a un terapeuta per iniziare una cura molto tempo dopo, talvolta anni, un evento per lui disastroso. In buona sintesi, dunque tempo del soggetto, tempo dell’avanzamento di una richiesta per poter trattare il suo malessere, per farlo diventare soggettivamente un sintomo e tempo dell’accadimento traumatico non coincidono tra loro.

Aggiungo: qual è la prima evidente caratteristica che identifica il trauma? Essa è quella di far scomparire, se così possiamo dire, il soggetto o quel che ne resta nell’evento stesso, di comprimerlo, risucchiandolo al suo interno, nella sua china mortifera, come nelle situazioni estreme indicate da Bruno Bettelheim. Se, dunque, questa è la prospettiva cui il trauma confina come potervi far fronte con una clinica che preservi quello spazio del soggetto che il trauma tende a cancellare? E poi: la clinica psicoterapeutica, più ancora di quella medica, sa bene come un tema come quello della cosiddetta guarigione sia un tema complesso, non riconducibile a un semplicistico e fallace “restitutio ad integrum”, come uno sbrigativo “happy end” che tutto risolve, dimenticando o rimuovendo quel che non solo il sintomo, ma la vita stessa insegna, giorno dopo giorno, alla clinica.

Il dolore, la sofferenza, il montaliano male di vivere vi appartengono più di quanto un’incerta gioia o una smaniosa pretesa di felicità si arroghino il diritto di parteciparci. È, in definitiva quest’orizzonte, che in dispregio di tutti gli ottimisti forzati o di maniera spingeva il vecchio Freud a mantenere aperto il destino di una cura, ma, poi, dell’essere umano stesso, sullo sfondo di una dimensione tragica, cioè di un’irriducibilità strutturale delle ambizioni e dei voleri con la realtà. L’unica che ci permette, nella sua consapevolezza, di annodare in maniera indissolubile la clinica con quell’etica in assenza della quale nemmeno la clinica, quasi fosse il guarire per il guarire, assume un senso, umano e umanizzante.

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Christiane Spangsberg

Pierina

Chiamiamo Pierina la signora bergamasca, sessant’anni, separata, che interpella telefonicamente uno psicologo della struttura. Lei è stata ricoverata in ospedale per il Corona virus. È stata intubata, ha temuto di non farcela, di morire. Le sue compagne di stanza sono decedute in modo straziante. Lei le ha viste morire, ma lei è sopravvissuta. Perché si rivolge a un servizio pubblico? Cosa cerca? Cosa vuole?

La donna fa subito una precisazione. Cerca un professionista. Potrebbe raccontare quanto le è accaduto alle sue amiche, ai suoi conoscenti ma dice di temere la loro morbosità, il fatto cioè che vogliano sapere, animati da quella curiosità al bordo della perversione con cui i mass media elargiscono copiosamente notizie e dettagli sugli ospedali e i malati, i numeri e gli aspetti più inquietanti. Non vuole entrare in quel circo della sofferenza esibita dietro la scusa dell’informazione. Pierina vuole parlare con un professionista, afferma che avrebbe voluto parlare con un professionista privato, ma sostiene che non avrebbe avuto sufficiente denaro per poterlo pagare. Affermazione, per la verità, piuttosto discutibile, poiché la donna, oltre a non vivere nell’indigenza, non ha telefonato a nessun terapeuta privato per informarsi e dunque per avere eventualmente un’idea del prezzo. Si rivolge a un servizio pubblico e questo, credo, abbia un suo senso.

Soffermiamoci su questo momento poiché ci permette di isolare alcune questioni, a mio parere, essenziali. La prima: la signora vuole dire “qualcosa” dell’esperienza che ha vissuto a “qualcuno”, non a uno qualsiasi, che non conosce, ma che è uno psicoterapeuta di un servizio pubblico, via telefono. Lo fa di sua spontanea volontà, sulla base di una sua decisione. Ciò fa della sua richiesta non l’espressione di un bisogno (quale?), settimane dopo il suo ricovero, ma il palesarsi di un’azione simbolica, cioè un atto, che non risponde di un’emergenza o di un’urgenza legata a un fatto. Se di emergenza o di urgenza si tratta, essa riguarda un’emergenza o un’urgenza che attiene il singolo, la sua disposizione soggettiva.

È per questa ragione che lasceremmo volentieri cadere il riferimento alla cosiddetta clinica dell’emergenza preferendo parlare di una clinica della testimonianza. Poiché è di questo che, alla fin fine, si tratta. Ora, cosa porta la signora Pierina a dire, a raccontare all’Altro? La donna non testimonia, come potrebbe accadere all’inizio di una cura di quella che si è soliti indicare come una divisione soggettiva, ma dell’effetto lacerante che l’impatto con il reale del male ha prodotto in lei. Uno strappo, violento, devastante, inatteso, del soggetto da sé, del soggetto dagli altri. La realtà del reale ha bucato il simbolico e fatto carta straccia dell’immaginario. Ecco il punto: la testimonianza è testimonianza di questa separazione che l’ha condotta lì, lungo un crinale prossimo alla morte.

La seconda: la signora non vuole semplicemente parlare o, come si suole dire, sfogarsi. Cerca un “qualcuno” che raccolga o accolga le sue parole, cioè, più radicalmente, il suo dire. Che genere di “qualcuno”? Un altro, per l’appunto, istituzionalmente connotato. Credo occorra prestare attenzione a questo dettaglio a prima vista insignificante, ma che, a mio avviso, rinvia a quella “dritte Person”, terza persona di cui parla Freud nel suo saggio del 1905 dedicato al motto di spirito. Come si ricorderà, in quello scritto il maestro viennese distingue e separa il comico dall’umoristico. Il primo suppone una logica a due e, a conti fatti, non abbisogna nemmeno del ricorso alla parola. Il secondo non esiste senza il linguaggio e presuppone una struttura triangolare e questo terzo diventa l’emblema del discorso medesimo. Ciò circoscrive l’ambito di ricezione dell’arguzia. Il terzo allude a un estraneo, a un non simile, cioè a qualcuno la cui presenza spezzi il dualismo dell’Io-tu, paventando un lui/lei che, tuttavia, mantenga un rapporto di distanza, altrimenti saremmo nel comico, con l’allocutore del motto di spirito, ma che non ne sia emotivamente o intellettualmente così distante da non essere nella disposizione d’animo d’accogliere una battuta o da non “capirne” il senso.

Ora, aldilà dei contenuti, la differenza sostanziale tra il motto di spirito e la testimonianza passa attraverso il fatto che la riuscita del motto di spirito presuppone una cerchia o, meglio, una comunità di persone che ne colga lo spirito. La testimonianza, al contrario, non la suppone, ma mira a crearla. O, a rifondarla civilmente nella misura in cui la testimonianza vi trova spazio nel costituirne la trama simbolica, nel far in modo cioè che la testimonianza di chi ha vissuto una separazione nel senso che si è detto diventi parte costituente del suo essere civile, e non solo banalmente o genericamente culturale. Tratto che non eliminerebbe ambiguità alcuna.

Terza questione: cos’è questo “qualcosa” di cui la signora Pierina vuole parlare, anzi più esattamente dire. Si tratta di elemento cruciale, per nulla scontato, che assicura alla testimonianza un carattere ontologico e solo accidentalmente occasionale. L’esperienza drammatica di separazione per come l’abbiamo indicata ripropone al soggetto (e, lo si voglia o meno, alla comunità) il nodo essenziale ed esistenziale dell’intreccio tra vita e morte, come se fosse una sorta di riproposizione alterata di quella che Lacan denomina fase dello specchio [1], cioè quel momento fondativo dell’identità del bambino che si riconosce nella propria immagine riflessa nello specchio. “Rieccomi”, dice Pierina, allo psicologo, come un Orfeo che torna dal regno dei morti. È un’affermazione di parola, ma, insieme, d’esistenza che rivolge agli altri o, per estensione, all’Altro. L’opposto dell’“Eccomi” di Abramo  e Mosè con cui i profeti  rispondono alla chiamata divina. Qui, il discorso si rovescia e, di conseguenza, si complica, poiché non è l’Altro a domandare, sollevando così il singolo di una responsabilità che non sia quella dell’obbedienza e della fedeltà. Qui, le parti si invertono ed è il soggetto che si pone o impone all’Altro. Lacan, quando parla del bambino che ride compiaciuto all’incontro con la sua immagine riflessa, ne sottolinea l’“assunzione giubilatoria”. Può essere, osservando il piccolo dell’uomo…  Ora, però, per la signora Pierina è diverso, il suo “rieccomi” è un riaffacciarsi, un autorizzarsi, un “io posso tornare a vivere”, “io posso parlarne”…

È, in questa scansione, che dietro l’euforia dello scampato pericolo si fa strada l’angoscia e dietro l’angoscia lo stato d’animo che connota la testimonianza, quando si concede il tempo e l’occasione per palesarsi. L’angoscia, Lacan docet, non mente.

Provo a sintetizzare: la testimonianza rimette simbolicamente in scena un trauma della nascita, per citare Otto Rank, in differita e, insieme, trasposta nel tempo e nel luogo, poiché si delinea non sullo sfondo di prima che era dell’ordine dell’assenza, ma di un riapparire nella vita, dopo aver incontrato qualcosa di quanto più prossimo alla morte. Il testimone è un sopravvissuto. Non a caso, anche per quel che riguarda le malattie, si attinge a metafore belliche, quali vincere, resistere, combattere come fosse una prova di forza che il malato ingaggia con il male e ne esce, come dipendesse dalla sua volontà, dopo averlo battuto. Il sopravvissuto è, quindi, colui che non ha ceduto alla morte, non è morto, il che pare quasi voler dire che non si è lasciato morire. Se, dunque, la testimonianza rileva di un atto è perché inerisce un’affermazione o, meglio, un affermarsi che, dietro l’angoscia, lascia intravedere il fantasma che la abita, quello della colpa.

La signora Pierina ne parla espressamente come di un oscuro sentimento che la logora e di cui non sa farsene una ragione, come insomma se dovesse scusarsi d’essere sopravvissuta. La letteratura della deportazione, Primo Levi solo per fare un nome, ne racconta ampiamente. Colpa per gli altri, che non sono più, colpa per sé stessi, per essere vivi. Come si supera una colpa? Con un’altra colpa, passando da una colpa all’altra. La signora Pierina, nella telefonata, dice di temere di risultare lagnosa, si scusa esplicitamente con l’operatore. Si rammenta che sua madre l’accusava d’essere una bambina lamentosa, e ora, transferalmente, ha paura che anche lo psicologo la percepisca in quel modo. L’Altro senza volto del virus prende ora il volto più familiare nella memoria, quello della madre. Essere un peso, un peso per gli altri. È il destino dei sopravvissuti: certo, che raccontino la loro testimonianza! Una volta, non di più… Già alla seconda, se non solleticano quella perversa curiosità che la signora Pierina vuole evitare, annoiano… Abbiamo capito, come la fai lunga, borbottano i potenziali uditori!

Pierina stessa, d’altronde, vacilla nel momento del suo dire. O, meglio, ne coglie il limite, intuisce il pericolo di depotenziarlo, di farlo scadere nella lagnanza, nella domanda accorata all’interlocutore, nella regressione infantile…È lì che Pierina, questa volta sì, resiste e la scelta di un professionista pubblico fa parte della posta in gioco per far in modo che la sua parola, non senza titubanza, mantenga la dignità di un atto.

D’altronde la colpa è un mostro che non dà tregua e al quale non è facile sottrarsi. È come un dio maligno al quale occorre concedere ogni volta un sacrificio. C’è la colpa nel dire, nell’assumersene il peso, anche a costo d’essere di peso, ma c’è colpa anche nel tacere, nel far finta di niente. Gli ignavi, di cui canta Dante nel terzo canto dell’Inferno: «Questi sciagurati, che mai non fur vivi…» (III, 63).  La sopravvivenza lo riporta all’origine e risveglia il fantasma dell’indesiderabilità presso l’altro e gli altri, non meno che presso sé stesso nel rapporto più intimo col proprio essere. La gioia è passeggera, ben più tenace e logorante è la colpa.

Nelle sue Tesi di filosofia della storia, Walter Benjamin scrive: «Noi siamo stati attesi sulla terra»[2]. Frase tra le più sovversive che ho avuto modo di leggere, ma, forse, il fatto che sia stata scritta ricorda bene quanto risulti tutt’altro che ovvio il rammentarlo. Come esserne, del resto, certi, o perlomeno averne la speranzosa illusione? È in questo riaffacciarsi alla vita che il soggetto, più o meno inconsciamente, è costretto a saggiare la veridicità personale dell’assunto benjaminiano. Bettelheim lo dice in altro modo, ma l’interrogativo rimane identico: «Trovare un senso alla propria vita è dunque l’unico sicuro antidoto alla ricerca intenzionale della morte. Ma, al tempo stesso, per uno strano rapporto dialettico, è la morte che conferisce alla vita il suo più profondo, unico e irripetibile significato»[3]. Sostituiamo al verbo trovare la reiterazione che la sopravvivenza introduce, cioè il verbo ritrovare, e siamo di fronte alla scommessa che il “dopo” l’evento traumatico impone nella forzatura della auto ri-nascita, quella cioè tra vita e morte, sicuramente, ma assieme e congiunta con essa, quella che plasma narcisisticamente il cuore dell’essere di ciascuno nella tensione che promuove tra l’essere per  l’altro o per gli altri e l’essere con gli altri, la solitudine winniccottiana, ma anche la base del legame sociale.

E non è forse nel tentativo di raggiungere un’articolazione umanamente sostenibile a questa amletica divisione che risuona inquietante il monito pavesiano che percorre “Il mestiere di vivere”: quello che fa del giustificarsi il grande compito della vita.  Giustificarsi è celebrare un rito, scriveva l’autore de La luna e i falò. Sempre! E dunque, quasi una nota a margine, viene da commentare: giustificarsi di essere al mondo?

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Christiane Spangsberg

 Intermezzo

Il dialogo con Pierina avviene tramite un telefono.  Freud sosteneva che, in psicoanalisi, le questioni tecniche sono questioni teoriche. Parafrasando il padre della psicoanalisi si potrebbe, per estensione, dire che i mezzi tecnici sono questioni teoriche. Non si tratta, qui, di appellarsi a un purismo del setting che finirebbe per rimuovere le origini spurie della psicoanalisi stessa. Certo, un incontro tra uno psicoterapeuta e un paziente è, come si usa sentenziare, un incontro di corpi. Verissimo, ma nell’attesa? O, meglio, nella necessità, termine che non di rado Freud evoca nella sua dizione originaria greca, cioè “Ananke”, vale a dire, per l’appunto, necessità o fato, perché no? Il medium è il messaggio, come teorizzava McLuhan?

Oppure, perché non pensare quale rapporto il mezzo intrattiene con l’oggetto, nell’accezione psicoanalitica del termine, che porta in scena? Si potrebbe così sostenere, coniugando Freud con McLuhan che se i mezzi tecnici sono (o pongono) questioni teoriche, e quindi se il mezzo è il messaggio, questo messaggio è l’oggetto. E quale oggetto, in questo caso? La voce.

Esce dal corpo, poco definibile e connotabile, se non con una sparuta manciata di aggettivi, precede il contenuto dell’enunciato, lo modula, regalandosi una carne che è, al tempo stesso, matrice di un’identità. Dopo la seconda telefonata, Pierina e lo psicologo che non si conoscono, che non si sono mai visti, si riconoscono, attraverso le rispettive voci.

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Christiane Spangsberg

Tempo e atto

La clinica della testimonianza ha un tempo, o meglio ne implica due. Il primo tempo, lo si è accennato, è quello proprio al soggetto. Ciò significa che comporta un non subito, un non immediatamente che non lascerebbe spazio che al grido. La testimonianza comporta una decisione individuale, e quindi comporta un tempo successivo, un tempo dopo di cui nessuno, se non il soggetto stesso, può misurarne la durata.  Il tempo “dopo” è il tempo che separa, disgiunge l’accadimento dalla risposta personale del singolo, il fatto dall’essere.

Occorre supporre questo tempo come un tempo di solitudine e, quasi inevitabilmente, di silenzio. Dunque, un silenzio che precede la parola e offre alla parola la forza di cui ha bisogno. Il secondo tempo, in continuità con il primo, riguarda il tempo della testimonianza, il suo orizzonte logico; tempo che fa sì che la sua durata sia circoscritta. La testimonianza non è una terapia. Ha un limite temporale che salvaguardia il suo valore di atto, poi si chiude.

Quella di Pierina si conclude dopo poche telefonate. Finisce lì. Chiamerà ancora oppure no? Se richiamerà sarà per dar vita a un’altra processualità, quella di una cura, ma, in questo caso, ciò comporterebbe una sequenza differente, ambirebbe a un’altra prospettiva. È, ad esempio, quel che accade, sempre a partire da una telefonata, con un’altra persona, legittimamente la si potrebbe definire una paziente, il cui approccio imbocca un’altra strada. Quest’altra donna, chiamiamola Maria, si rivolge al servizio angosciata dopo l’esperienza ospedaliera. Spontaneamente nel suo tentativo di fornire una cornice al trauma che possa ricondurlo a qualcosa di “familiare” lo associa a un’esperienza da lei vissuta in altri contesti, come se il virus passasse immediatamente dall’anonimato e dall’invisibilità che lo affliggono a un fantasma che generosamente gli presta una maschera e da qui procede sino al prendere forma di un sintomo, come se Maria si lasciasse alle spalle quella che freudianamente si potrebbe indicare come una nevrosi attuale: così il padre della psicoanalisi indicava quelle legate al tempo e alla contingenza [4], per entrare rapidamente nell’ambito delle più classiche psiconevrosi o  nevrosi familiari.

Ma, quella di Maria è una vicenda diversa che ci riconduce pian piano a una prassi consolidata. Restiamo ancora alla signora Pierina e alla testimonianza. O, più esattamente, all’“in sé” della testimonianza, in senso stretto. Faccio un paio di osservazioni. La prima: si dirà, transitando per Lacan ma non solo, che il reale di quella realtà così drammatica è indicibile, inesprimibile. E, a suo modo, la signora Pierina lo dimostra. Ma, una simile annotazione, ci porta dritto dritto alla domanda delle domande e al rischio di una repentina condanna al tacere. Sì, il reale è indicibile, ma, a essere sinceri, qualsiasi realtà, la realtà stessa lo è. In definitiva, la realtà è indicibile nella misura in cui è riassorbita dalla parola che non fa altro che rappresentarla. Dunque, è proprio in quanto le parole hanno la capacità di rappresentare la realtà che la stessa diventa dicibile. In questo senso come sostiene Meschonnic, occorre fare del dicibile un compito infinito. La testimonianza è parte di questo compito, un atto per dare voce, per «cavare dal chiuso delle nostre anime» (Leopardi) una parola necessaria, ma non nel senso del mero bisogno. Dire la morte per dare respiro, nel senso ebraico del “ruah”, alla vita che ne è uscita trasformata.

Seconda osservazione. Una testimonianza non è una teoria, non è una forma di enunciazione che punta a istituire un sapere pieno e soddisfacente, nel tentativo maldestro di assicurare un padroneggiamento di quel reale che le è sfuggito e a cui, per l’appunto, la teoria ambisce a offrire un’organizzazione sistematica. In un certo senso, la testimonianza è per sua natura un’anti teoria, poiché fa obiezione alla teoria stessa con la lucidità di una parola che si impone di per sé e che tende, di fatto, a rimanere lì, presa nell’atto in cui si manifesta. Se genera un ascolto è solo perché scava un silenzio nella comunicazione che intrattiene con il suo interlocutore, un piccolo abisso che circonda la testimonianza come una corona e lascia che la stessa parli da sola, come un dichiararsi senza soluzioni, come un dichiararsi che si riassume nel dichiararsi stesso e nell’eco che lascia in chi lo recepisce, perché la testimonianza riguarda qualcosa che è già accaduto e che nessuno, quindi, può più cambiare. Sì, ovviamente, chi ascolta può insieme a chi dice farne tesoro per far in modo che quel che è capitato non si ripeta, ma quel che si presenta nella testimonianza è già irrimediabilmente perso, irrecuperabile. La testimonianza celebra, come fosse un rito, il reiterarsi di questa continua messa alla prova con l’impossibile.

La poesia è, forse, il linguaggio che più si approssima a quello della testimonianza, non perché la testimonianza sia o debba essere poetica, ciò la sottoporrebbe al pericolo di cedere a un estetismo che la consumerebbe dal di dentro, invalidandola, ma perché, per altre vie, ne condivide la sfida, quella cioè di portare la parola all’altezza di quella realtà del reale che cerca di porla fuori gioco. Dico poesia, ma mi riferisco a come nella testimonianza sia coinvolta una sobria ma non per questo meno incisiva e penetrante poeticità, umana, inconfessabilmente umana, per quel che il vivere (e la fatica di accettarlo) e il dire (e la responsabilità di assumerselo) comportano. Cito Jakobson: «Ma in cosa si manifesta la poeticità? – Nel fatto che la parola è sentita come parola e non come semplice sostituto dell’oggetto nominato, né come scoppio d’emozione, E ancora nel fatto che le parole e la loro sintassi, il loro significato, non sono un indifferente rimando alla realtà, ma acquistano peso e valore propri»[5].

In questo preciso senso ritengo che la testimonianza possieda la forza che deriva dal farsi prova di un nuovo sguardo sulle cose, da una nuova e più veridica messa a fuoco di quelle cose stesse che altro non sono che le tessere scombinate del mosaico in cui si abbozza un’esistenza.

Pierina termina il suo dire nell’ultimo colloquio telefonico sostenendo, più pacificata, di voler ritornare alle “piccole cose”, quelle, dice, d’ogni giorno, la cui importanza sembrava aver dimenticato, trascinata lontano da un affaccendarsi che, col senno di poi, gli appare piuttosto insulso, inutile. Spicchi di ordinaria saggezza, persino banali, ovvi, ancor più dopo quello che le è successo. Le “piccole cose” conducono ai piaceri, obbligatoriamente piccoli, nella loro effettiva materialità, rispetto a un qualcosa di più grande, di più che, con tutta probabilità, nemmeno lei sa ben definire, ma rispetto al quale il “piccolo piacere” pare poca cosa, un accontentarsi, un vacuo premio di consolazione. Le “piccole cose” (una cena con la figlia, una chiacchierata con un’amica, una camminata in montagna…) le risultavano quasi certamente come delle piccole morti o, se vogliamo, mortificazioni, come lo è il piacere se misurato all’idea di un godimento superiore, più alto, ma soprattutto più grande, alla cima della vetta dove brucia il sacro fuoco dell’ambizione. L’aver fatto i conti con la morte, quella vera, la sospinge a capovolgere le sue prospettive: le “piccole cose”, cioè la piccola morte, del piacere la riporta a rileggere in questo un segno di vita.

È Freud stesso a porre il tema della mortificazione nella definizione stessa di principio del piacere, la nozione di principio la contiene al suo interno, ingloba il limite e, quindi, la perdita.  Dopo gli anni ’20 scriverà della pulsione di morte e quindi, riecheggiando Nietzsche, di un aldilà del principio del piacere che è, in primo luogo, un aldilà del principio, di quel che un principio circoscrive.

Nella storia di Piera il “piccolo” si contrappone a una voragine che si era spalancata nella sua vita, come manifestazione di un troppo che avrebbe potuto inghiottirla, come altri nella sua zona. I dati dei mesi appena passati sono sconvolgenti: il 568% nella bergamasca di decessi in più rispetto ai due anni precedenti, laddove in altre zone del Paese era il 2%. Anche qui, un troppo.

Il “piccolo” si oppone al troppo come Davide a Golia e anche la testimonianza, del resto, sembra inserirsi nel registro del poco. Cosa sono alcune telefonate a fronte di quel che le è successo? Cosa sono, si domanda lo psicologo, alcune chiamate in relazione a una cura? Lo stesso terapeuta è rinviato a questa apparente pochezza che intorno all’enormità del dramma, o di quel che avrebbe potuto essere una cura protratta nel tempo, disegna una solidarietà del poco, che non è il niente, ma è il filo rosso dove, come un’ossessione, la vita insiste.

In un bellissimo e breve scritto del ’15, attraversato da parte a parte dalla carneficina della prima guerra mondiale, Freud si interroga sul rapporto tra la bellezza e il tempo, a partire dall’umana aspirazione a considerare la prima solo in rapporto all’eternità. Ma, scrive il maestro viennese, se un fiore fiorisce una notte sola, «non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida»[6].  Anzi, potrebbe essere che la sua caducità lo renda ancor più bello ai nostri occhi (ciechi?). Indubbiamente, per farlo, occorre rinunciare, impresa non facile, all’idea di una persistenza dell’altro, cioè alla supposizione che non sia sfiorato dalla castrazione (e che quindi, di conseguenza, non ne siamo toccati nemmeno noi), e quindi alla brama di possesso, quella che spesso confondiamo con l’amore, ben sapendo che è tutt’altro.

La clinica della testimonianza ci mette in contatto con le scorie ancora fumanti del troppo che si lascia alle spalle, ci espone all’interno di una scomposta dialettica tra la memoria di un troppo che odora di morte e quel piccolo che cerca di salvare la vita, prima ancora delle sue ragioni. E che fa, in non ultima analisi, della clinica della testimonianza una clinica che si avvicina, sino a far uno con essa, con una prassi d’ordine essenzialmente etico. La logica del “poco” o del “piccolo” restituisce a ciascuno il senso della caducità “freudiana”, in quel che di bello e doloroso contiene, come segno della precarietà con cui, ci piaccia o meno, siamo costretti a convivere. Riferendosi ai piaceri trascurati, alle “piccole cose” che parevano solo l’anticamera della rassegnazione, perché sembravano (sempre col senno di poi) solo mestamente custodire l’ordinario ordito del suo abitudinario stare al mondo, la signora Pierina affermava di essersi sovente dedicata in maniera distratta ad esse, quasi svogliatamente,  come se non fossero degne d’attenzione o partecipassero dell’illusione, qui però del tutto deprezzata,  denunciata da Freud,  dell’intima e inespressa convinzione che se ne stessero sempre lì, docili e pazienti, pronte e sollecite al suo richiamo, mentre lei era indaffarata altrove.

La certezza, del tutto magica, che le piccole cose fossero sempre al loro posto, pensiero che le confinava nel registro della prevedibilità, due passi appena distante da quello della noia. Ciò faceva sì che quel che Pierina inseguiva come degno di un valore, cui votare più l’insoddisfazione che un’effettiva ricerca nella sua esistenza, fosse depositato chissà dove, nell’ imperscrutabile cassaforte che il rigetto della castrazione costruiva, anche a costo di condannarla all’evanescenza, a fare sì che l’altrove si traducesse in un essere sempre lei altrove, e raramente dove effettivamente il suo corpo la faceva essere. L’esperienza, ma soprattutto la testimonianza, la riporta a una cura che, per usare le parole di Simone Weil, assomiglia a una strategia dell’attenzione, verso di sé e verso gli altri. Come quella del funambolo che cammina in equilibrio sulla corda tesa. Scrive Philippe Petit nel suo bellissimo trattato: «La caduta sul cavo, l’incidente lassù, l’esercizio mancato, il passo falso; tutto ciò deriva da una perdita di concentrazione, da un piede mal appoggiato, da una fiducia esagerata in se stessi. Non dovete perdonarvelo. Il funambolo è spettatore della sua stessa caduta, Con gli occhi spalancati volteggia attorno al filo per ritrovarsi aggrappato con un braccio o appeso con le gambe. Senza mai abbandonare il bilanciere, deve trovare lo slancio per rialzarsi e riprendere al più presto e con impeto maggiore, il movimento interrotto. Il più delle volte scrosciano applausi nessuno ha capito. L’errore è partire senza speranza, lanciarsi senza fierezza nella figura che si è certi di mancare»[7].

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
 Note   
[1]  Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Scritti, volume I, Einaudi, Torino, 1974: 87-94
[2] Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 1962: 76
[3] Bruno Bettelheim, Il limite ultimo, in Sopravvivere, Feltrinelli, Milano, 1988: 19
[4] Vedasi in proposito la voce “Nevrosi attuali” in J. Laplanche e J.B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Bari, 1974, vol, II: 340-342
[5] Roman Jakobson, Che cos’è la poesia?, in Poetica  e poesia, Einaudi, Torino, 1985: 53
[6] Sigmund Freud, Caducità, in Freud, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976: 174
[7] Philippe Petit, Trattato di funambolismo, Ponte alle Grazie, Milano, 1999: 100.

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Angelo Villa, psicanalista, docente presso la Scuola di specializzazione in psicoterapia di Milano. Ha lavorato come psicologo clinico per istituzioni pubbliche e, in particolare, per il trattamento clinico dei pazienti di fede musulmana, nonché come consulente di progetti in ambito sociale. È autore di numerosi testi specialistici. La sua ultima pubblicazione è L’origine negata. La soggettività e il Corano, edita da Mimesis.

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