di Silvia Paggi
Il mio interesse per l’antropologia visiva mi ha fatto conoscere assai presto Antonio Marazzi. Dal 1983, non ancora laureata in antropologia a Siena, già seguivo a Parigi l’annuale Bilan du film ethnographique, al Musée de l’Homme; è lì che l’ho più frequentemente incontrato per diversi anni. Poi nel tempo, soprattutto dopo la scomparsa di Jean Rouch, il Bilan è diventato meno interessante per gli antropologi e la frequentazione si è diradata.
Antonio Marazzi mi ha dato attenzione e fiducia agli inizi della mia professione di antropologa-cineasta [1], affidandomi dal 1988-1989 il mio primo insegnamento annuale nell’ambito del Perfezionamento in Antropologia Culturale e Sociale che aveva creato all’università di Padova.
Nel 1988, uno dei miei primi film eoliani è entrato a far parte del «Primo incontro internazionale di Antropologia visuale in Italia» che ha organizzato a Padova come sezione dell’International Union Anthropology-Ethnology di Zagabria, testimoniando del suo impegno a valorizzare l’antropologia visiva italiana anche nell’ambito delle commissioni internazionali, nelle quali, nel corso degli anni, ha assunto numerose responsabilità. In questo «Primo incontro» Antonio Marazzi ha presentato i suoi film del 1986: Il Santo e Anime abbandonate.
Nel 1995 è stato membro della giuria per la mia tesi di dottorato a Parigi con Jean Rouch e Claudine de France. Di quest’ultima, ho poi tradotto e pubblicato su «Ossimori» il testo L’antropologia filmica: una genesi difficile ma promettente (France C. de, 1997 [1994]), incrementato – su domanda di Pietro Clemente fondatore della rivista – dai commenti di A. de Bromhead, F. Faeta, A. Marazzi, S. Paggi e R. Putti. Le questioni sollevate partendo dal testo di Claudine de France sono spesso ancora d’attualità, ma è singolare che tutti, senza che ci fossimo in alcun modo concertati, esprimevamo la preoccupazione che la concezione di Claudine de France dell’antropologia filmica come una «disciplina a pieno titolo» (à part entière) sancisse una separazione dall’antropologia. Ora penso che fosse piuttosto un modo per rivendicarne un pieno riconoscimento e difatti nel suo commento Antonio Marazzi, pur avanzando alcune critiche e perplessità, ne evidenza l’aspetto positivo, cogliendo l’occasione per denunciare la miopia di molti riguardo alla cinematografia etnografica. Con lo stile elegante, discreto ma aperto, che lo contraddistingue, sostiene che:
«dobbiamo anzitutto ringraziare Claudine de France per la forza convincente della sua affermazione. [...] Ciò che dispiace non è tanto l’incomprensione di molti, quanto l’occasione inconsapevolmente perduta nel celebrare nel film etnografico la linea di resistenza più forte della ricerca sul campo – la cartina al tornasole di ogni indagine antropologica – di fronte a molte moderne défaillances. Una stanca battaglia di retroguardia condotta con gli arrugginiti armamentari del positivismo andava invece ripetendo che l’immagine era bugiarda e illudeva, tagliando e inquadrando deformava la realtà a piacere dell’autore. Addirittura, se le parole erano dette di fronte a un macchinario occorreva ‘scientificamente’ diffidare: se erano ‘tradizione orale’ allora era tutt’altra cosa, per non parlare dell’oracolare testo scritto. L’attenzione crescente rivolta all’autore nella letteratura antropologica ha indirettamente giovato al film etnografico, che più non deve giustificare di essere anch’esso, come qualunque monografia scritta, il risultato dell’osservazione: occhio e mente all’opera, nell’uno e nell’altro caso» (Marazzi, 1997: 99).
Discute anche la preferenza espressa da Claudine de France per ‘antropologia filmica’ al posto di ‘antropologia visiva’. Questioni terminologiche che spesso sottendono concezioni differenti. Non penso che questo sia il caso per l’uso che si fa in Italia di visiva o visuale [2], mentre filmica implica una differenza fondamentale, in quanto concerne esclusivamente la parte cinematografica [3] dell’antropologia visiva. Ben diversamente, e tutta la sua opera lo dimostra, Antonio Marazzi prende in considerazione un campo di studi molto ampio, inglobando ogni forma di rappresentazione visiva.
«il campo di studi rivolto alle rappresentazioni visive culturalmente determinate e alla loro percezione, ai modi di comunicazione per immagini, all’uso sociale che ne viene fatto così come a espressioni idiosincratiche, attraverso metodi d’indagine originali che comprendono la produzione e l’analisi di immagini riprodotte, fisse e in movimento» (Marazzi, 1997: 99).
Nel suo libro Antropologia della visione sviluppa «una riflessione sulla percezione socio-culturale della visione» (Marazzi, 2002: 12), un testo che non risente dei più di vent’anni trascorsi e in cui, tra le molte che affronta, non sono poche le questioni che possono collegarsi a dibattiti recenti. Le sue riflessioni sono sempre state per me un riferimento. Ci accomunano molti aspetti dell’analisi, che per parte mia sviluppo nel vasto campo di una “antropologia delle rappresentazioni audio-visive”. Concordo quindi nell’uso del termine rappresentazione, pur conscia delle critiche di chi lo trova, per la sua polivalenza, a rischio d’ambiguità. Se diversi autori di riferimento sono gli stessi, nell’imprescindibile interdisciplinarità dell’analisi delle rappresentazioni visive – antropologia, arte, teorie della percezione, estetica, semiologia –, Antonio Marazzi porta però maggior attenzione alle scienze ‘dure’, alle scienze cognitive e alle neuroscienze.
Ma qual che sia l’ambito che prende in considerazione, quello che importa sottolineare è la postura sempre vigile e critica nell’analizzare i vari punti di vista. Associando le sue esperienze di alterità, soprattutto di stampo orientale (culture tibetane, India, Giappone), il quadro d’insieme risulta al di fuori di qualsiasi schema. Esprime critiche di fondo verso posizioni di stampo arretratamente positivista e verso un’interpretazione cartesiana della percezione che tiene rigidamente separati corpo e mente. Critica anche, a più riprese, la diffusa tendenza a un procedere scientifico schematico e sistematicamente strutturante, individuandolo sia nelle scienze che della percezione analizzano gli aspetti socioculturali, che in quelle che ne ricercano i processi fisiologici.
«Questa necessità avvertita costantemente dal ragionamento di ingabbiarsi entro schemi per afferrare i fenomeni e i problemi in osservazione [...] è presente anche nel campo della vista. Nell’analisi del processo della visione si possono distinguere due orientamenti di analisi, che chiamerei l’uno fenomenologico [volto verso l’esterno] e l’altro biologico [volto verso l’interno]. In ambedue i casi si è andati alla ricerca di strutture, cioè di costanti: per organizzare l’attività percettiva in un caso, neurologica nell’altro. Come avviene in qualsiasi sistema strutturale, tutto si risolve in un gioco di parti all’interno di un sistema, con corrispondenze tra l’attività di una e quella di altre, che si “spiegano” reciprocamente in termini funzionali alle singole parti e all’insieme in generale. Nello studio della visione, il caso più elegante è stato quello della Gestalt, o psicologia della forma» (Marazzi, 2002: 37-38).
Ritiene che il problema non risieda tanto nella teoria quanto nel metodo; anche per la Gestalt, cui peraltro riconosce il merito di aver superato i precedenti meccanicismi interpretativi, definendo la percezione visiva come atto mentale, d’intelligenza. Basandosi su dati astrattamente costruiti in laboratorio si finisce spesso – dice – per trovare ciò che ci si aspettava di trovare. Pertanto, fin dal primo capitolo, sottolinea il suo approccio antropologico per cui «Nell’uomo anche la percezione sensoriale diventa, nel momento stesso in cui avviene, un’operazione culturale, ottica come uditiva, olfattiva, tattile e gustativa» (Marazzi, 2002: 14), anticipando peraltro sulla sua futura Antropologia dei sensi (Marazzi, 2010).
Tenendo ferma la definizione di cultura di Tylor, sottolinea come sia rimasto quasi inascoltato, fatta eccezione per ambiti imprescindibili come la danza o la prossemica, l’appello di Marcel Mauss all’analisi delle ‘tecniche del corpo’. Insiste sull’importanza del ‘linguaggio del corpo’ e sul ruolo della visione in quanto ‘corpo guardato’.
«È lo sguardo, elaborazione mentale della vista, ad avere il compito di assegnare l’imprimatur sociale sul corpo, confermando il primato della cultura sulla natura. [...] L’attività simbolica, l’elaborazione estetica, la comunicazione sono dominate dalla dimensione visiva» (Marazzi, 2002: 18).
Con esplicito riferimento a Erwin Panofsky, nell’ultimo capitolo sviluppa una «Iconografia e iconologia culturale», anche per contrastare l’ereditata opzione a favore della parola come unica fonte attendibile dei valori centrali della società, con conseguente limitazione dei contenuti stessi degli studi a ciò che può essere comunicato con il mezzo considerato più adatto: la scrittura.
«Con “iconografia culturale” intendo riferirmi all’individuazione e descrizione di immagini e forme di rappresentazione visiva in artefatti, segni, espressioni corporali, che siano culturalmente significative, nei luoghi e nei tempi in cui si presentano e nei modi della loro realizzazione. Con “icnologia culturale” intendo l’analisi di quelle espressioni visive nel loro aspetto formale e nei significati culturalmente specifici, della loro efficacia simbolica, del potere emotivo, della rappresentatività ideologica, degli stili, e delle regole espressive, delle funzioni e dei relativi codici comunicativi espliciti o criptici, delle relazioni con il contesto sociale allargato o ristretto a cui si rivolgano e delle eventuali regole sociali applicate, contestate o infrante» (Marazzi, 2002: 151).
Fa presente, seguendo Leroi-Gourhan, che parallelamente alla simbolizzazione grafica dei segni linguistici si sviluppa la rappresentazione visiva, luogo della dimensione estetica, qualità culturale per eccellenza, pervasiva nelle culture complesse e non riducibile all’arte. Ricordandone il significato di ‘riguardante la percezione dei sensi’ nel greco antico, sottolinea quanto sia limitante, nonché etnocentrico, considerare l’estetica come categoria del ‘bello’, e propone di aprire un campo di riflessione che esplori la dimensione estetica in una prospettiva antropologica.
«Adotteremo un approccio fenomenologico, volto a individuare se e come nel vissuto gli uomini isolino aspetti ai quali assegnano uno statuto particolare – che appunto chiamiamo estetico –, quali siano i caratteri di tale attribuzione, in che modo ciò avvenga e a chi o cosa sia dovuto» (Marazzi, 2002: 97).
Parlando di estetica, Marazzi non può non affrontare argomenti chiave dell’antropologia dell’arte e il dibattito sull’arte detta primitiva. Riguardo al dilemma tra l’atteggiamento relativista, che vede ogni cultura chiusa su sé stessa, necessitando per capirla di una difficile mediazione, e quello universalista, per cui l’arte è senza barriere sociali o culturali, Marazzi considera che:
«Dopo tanta arroganza etnocentrica dell’Occidente, questi scrupoli sono certo benvenuti. Ma sarebbe un vero peccato, potremmo forse dire persino un tradimento di quella che veramente è una vocazione universale dell’arte – suscitare emozioni – se il risultato di queste forme di attenzione fosse una inibizione al coinvolgimento estetico» (Marazzi, 2002: 99).
Questioni complesse per le quali il dibattito rimane aperto e, certo, neanche Antonio Marazzi le scioglie. Tuttavia, una sua frase, con cui concludo, mi sembra un contributo particolarmente proficuo:
«L’entropia culturale è una grave malattia del mondo contemporaneo e già la semplice conoscenza della diversità delle espressioni umane può rappresentare un antidoto importante» (Marazzi, 2002: 104).
Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025
Note
[1] Nel 1986 avevo ottenuto a Parigi il DEA (Diplôme d’études approfondies) in cinema, Pratique et réalisation, diploma che J. Rouch e C. de France hanno creato come formazione specifica in cinema etnografico all’università di Paris X-Nanterre.
[2] A riguardo, così si esprime Antonio Marazzi «[...] antropologia visuale (o “visiva”? Nell’accingermi alla traduzione, sono consapevole di irrompere con distratta disinvoltura in una questione di casa nostra, tanto futile quanto capace di innescare suscettibilità di qua e di là da una ‘linea gotica’, con orgogliosi difensori del primo modo da una parte, del secondo dall’altra. Pari son, per quanto mi riguarda)» (Marazzi 1997: 99).
[3] Uso questo termine generale per le immagini in movimento, prescindendo da differenti tecniche e supporti (pellicola, videografia, ecc.). Analogamente, Marazzi intitola un capitolo: «Nascita e sviluppo di un genere: il film (video) etnografico» (Marazzi, 2002: 113).
Testi e film citati
France C. de, 1997 [1994], L’antropologia filmica: una genesi difficile ma promettente, «Ossimori, periodico di antropologia e scienze umane», 8: 83-95.
Marazzi A., Il Santo, (regia di Bebetta Campeti), 1986, 16 mm., 57’, (coproduzione della sede veneta di RAI 3 – Università di Padova).
Marazzi A., Anime abbandonate, (soggetto di Marino Niola), 1986, video U-matic, 18’.
Marazzi A., 1997, Commenti (al testo di Claudine de France L’antropologia filmica: una genesi difficile ma promettente), «Ossimori, periodico di antropologia e scienze umane», 8: 99-100.
Marazzi A., 2002, Antropologia della visione, Carocci. (Nuova edizione 2008).
Marazzi A., 2010, Antropologia dei sensi. Da Condillac alle neuroscienze, Carocci.
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Silvia Paggi, antropologa-cineasta, professore emerito di antropologia filmica e comunicazione visiva, Université Côte d’Azur, Laboratoire Interdisciplinaire Récits, Cultures Et Sociétés (LIRCES). Tra le pubblicazioni: L’antropologo-cineasta, 1987; A propos de l’interview filmée dans la recherche anthropologique, 1993; Sulla mediazione del patrimonio etnologico, 2003; Premières approches filmiques de l’espace domestique à Samoa, 2004; Antropología visual y nuevas tecnologías, 2010; Voix-off et commentaire dans le cinéma documentaire et ethnographique, 2011; (éd.) Terrains en anthropologie visuelle, 2013; Antropologia filmica dello spazio domestico, 2014; Considerazioni sulla mediazione della parola in antropologia filmica, 2015; Le corps dans l’espace domestique à Samoa, 2018; Contracultura y música de los años 60 y 70 en Milán: testimonio y reflexiones, 2020; Musiche e rituali a Saintes-Maries-de-la-Mer, 2021; L’Inde fantôme de Louis Malle, 2021. Tra i film: «Civitella 1944-1994», 1994; «Fils de jambe tordue. La vinification traditionnelle aux îles Éoliennes», 1994 e 1996; «Observation filmée d’une activité quotidienne féminine chez les Bété», 1993 e 2001; «Pèlerinage, musiques et danses aux Saintes-Maries-de-la-Mer», 2005 e 2006; (serie di 7 film) «Housing conditions of Roma people in Europe», 2014; «Le Souffle de la vie», 2017.
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