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Un ricordo di Antonio Marazzi

Antonio Marazzi

Antonio Marazzi

di Pietro Clemente

 Provo a tirare

Un sasso nello stagno

Resta la pace

(Haiku di Antonio Marazzi)

 Un collega misterioso

Antonio Marazzi è stato per me un collega un po ’ misterioso, un po ’ appartato, incontrato solo a partire dagli anni ’90, dopo la nascita dell’AISEA (Associazione Italiana di Scienze Etno-Antropologiche). La sua storia di studioso era assai diversa da quella della nuova tradizione degli studi italiani in cui mi ero formato, quella che parte da Alberto Cirese ed Ernesto De Martino, in cui io e altri studiosi italiani siamo stati inclusi e siamo cresciuti.

Guardando le sue bibliografie, ci parevano davvero remoti i suoi incontri con gli esuli tibetani in Svizzera o le sue scritture giapponesi di Mi Rai, che a me sembravano vicine a quelle di Ruth Benedict de Il crisantemo e la spada. Questo libro – Mi Rai – entrò in casa per via di mia figlia che studiava psicologia a Padova, ma all’esame non incontrò Marazzi, bensì Palmieri, che era il suo collaboratore. Nei suoi studi non c’era traccia di Gramsci e del marxismo in antropologia. Nelle sue ricerche vi era una certa diversità rispetto agli studi italiani così come c’era un certo clima autocentrico nel mio e nel nostro approccio di quegli anni.

md31117708253Quando lo incontrai, mi fece subito un effetto particolare: era un uomo dotato di uno stile personale, di grande garbo, educazione, attenzione agli altri, anche quando non c’erano intersezioni di studi e metodi. Qualche anno fa lessi la sua autobiografia su La ricerca folklorica, e ne vidi il profilo, assai poco centrato sulla comunità accademica italiana ma invece orientato su quella internazionale, soprattutto in campi dove egli aveva interessi di studi e metodologici molto forti, come quello della antropologia filmica. Non ero a conoscenza che fosse membro e presidente di commissioni internazionali. Era forse più noto in quei contesti che tra noi. In Italia mi pare si sentisse in sintonia con Bernardo Bernardi, che, già sacerdote, formatosi in buona parte in Francia con Lévi Strauss, studioso di africanistica, apparteneva a un altro mondo scientifico.

Credo che fossero accomunati dall’essere isole dell’antropologia italiana, attorniate da tipi diversi di studiosi con diversi approcci. Bernardi simpaticissimo, Marazzi gradevolissimo nelle relazioni, ma non connessi a nessuna delle scuole italiane.

Ricordo che in un dibattito sulla rivista Argonauti, realizzata dall’AISEA, introdusse una volta il tema buddista, a me ignoto, della terza via, tema che mi fece molto pensare e ancora adesso mi serve per pensare diversamente da come sono abituato a fare. Fu quasi una sorta di lavaggio terapeutico con un liquido proveniente da altri mondi in tempi in cui la politica degli studi non ammetteva temi come questi. Dopo la morte di Italo Signorini espresse – erano i primi anni ’90 – il desiderio di trasferirsi a Roma, ma per me, che ero a Roma da poco e ancora non avevo imparato a navigare, era del tutto impossibile anche solo proporre la sua candidatura.

Era stato tra i fondatori del Festival Internazionale di Cinema Etnografico di Nuoro, prima che io entrassi a far parte del Comitato Scientifico dell’ISRE. Una volta lo incontrai e conversando, seppi che voleva praticare una sua Antropologia dell’arte e dell’artista tramite telecamera, lavorando sia sulla costruzione che sulla esposizione dell’opera. Un tema originale, che certo era anche una parte del suo grandissimo interesse per la visione come strumento di conoscenza.

9788843052769Cercai di aggiornarmi sui suoi studi attraverso il suo libro Antropologia dei sensi. Da Condillac alle neuroscienze (Edizione: Cartocci, 2010). Ma devo confessare che il suo spirito analitico che mi riportava alla filosofia di Locke da un lato e agli studi di Leroi-Gourhan dall’altro, non mi ha incoraggiato a proseguire. Dei suoi studi sulla cibernetica non sapevo nulla, di quelli sulla antropologia della visione poco. 

La Vita e il Dolore

Solo dopo molti anni conobbi la sua storia passata. La permanenza con la moglie negli Stati Uniti che fondò il suo profilo antropologico, la malattia di sua moglie, il ricovero in una clinica svizzera, la sua morte. Seppi tutto questo dal film di sua figlia Alina, Un ’ora sola ti vorrei, dedicato alla vicenda dolorosa di sua madre. Un film davvero forte, denso, emozionante. Lo ho visto due volte con emozione, ma non mi sono mai presentato ad Alina come collega di suo padre. Il film mostrava un altro punto di vista sulla persona, sul suo garbo, sul suo silenzio. Incontrato dopo il film su un treno diretto a Milano, non ebbi il coraggio di parlargliene, ma mi parve nelle pieghe del suo viso amichevole e sorridente di vedere un dolore profondo, anche se lontano.

locandinaHo conosciuto anche suo figlio Martino, docente di letteratura, ma solo nelle pagine di un libro sul pittore Martino Jasoni, Jasoni era emigrato negli USA ma poi era tornato a Berceto paese d’origine, dove ora c’è un museo-mostra a lui dedicato. Con Marazzi Jr. ed altri siamo autori di un libro dedicato a Jasoni finora non pubblicato per problemi editoriali.

Tornando a Marazzi senior, posso dire che è stato un collega che fu forse più internazionale che italiano nel suo spazio di azione. 

Un debito di conoscenza

Così mi trovo a condividere questo dialogo in memoria di un collega che ho sentito umanamente vicino, ma anche cognitivamente distante, con Riccardo, Rossella, Silvia, con cui ho avuto tante occasioni di collaborazione. E sono loro che mi prendono per mano in queste pagine, mostrandomi il Marazzi che mi era rimasto nascosto. Con sorpresa leggo le pagine di Riccardo, antropologo senese con cui spesso ho collaborato e che ha sempre avuto una grande passione per le tecnologie, sul ’robot’ come ’altro’ dell’antropologia attuale. Leggo il bel rapporto di amicizia e quasi di adozione a padre culturale da parte di Rossella, e il dialogo antropologico filmico con Silvia, con la quale ho avuto amichevole frequentazione di ricerche e di idee.

Ora ne so di più. In un certo senso il mio debito o deficit di conoscenza è stato riempito da studiosi di una generazione dopo la mia. Tramite loro mi riconnetto alla storia di Antonio, al suo dolore, alle sue curiosità, alla sua antropologia ’poco italiana’, alla sua famiglia altolocata in cui già un altro Antonio era stato diplomatico, ma anche viaggiatore e a suo modo etnologo. Antonio aveva ereditato il nome e rivissuto a modo suo, in un altro tempo, quel tracciato onomastico che si era iscritto nella sua vita. 

Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025 
Nota
[1] Il conte Antonio Marazzi, proveniente da una famiglia di antica nobiltà, era il figlio del conte Paolo Marazzi, avvocato e consigliere provinciale di Cremona. Partecipò alla battaglia di Bezzecca nel corpo volontari italiani durante la guerra del 1866. Successivamente, dopo aver intrapreso la carriera diplomatica, Marazzi diventò vice-console a Malta e a Tunisi. La sua vera vocazione, però, si manifestò durante il suo mandato come console a Buenos Aires, all’epoca il centro principale dell’emigrazione italiana transoceanica. Qui scrisse Emigranti studio e racconto, un’opera sociologica notevole per lo studio delle vicende dell’emigrazione italiana in quegli anni. Pubblicato nel 1880, il libro di Marazzi ebbe un grande successo grazie alla sua narrativa coinvolgente sulla vita dei connazionali emigrati. Fu soprattutto grazie a questa esperienza che Marazzi acquisì una conoscenza approfondita delle questioni etnologiche e sociologiche. Il suo lavoro divenne oggetto di studi e pubblicazioni, raccolti in Tra i selvaggi e tra i civilizzati, pubblicato nel 1927. Fu anche collaboratore della Rivista coloniale. Dopo una lunga carriera diplomatica, terminata nel 1910, Marazzi dedicò il suo tempo allo studio dei rapporti tra le società di diversa civiltà (da Wikipedia).
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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); I Musei della Dea, Patron edizioni Bologna 2023). Nel 2018 ha ricevuto il Premio Cocchiara e nel 2022 il Premio Nigra alla carriera.

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