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A distanza di due secoli, esiste ancora la questione meridionale?

        

9788815266101_0_536_0_75di Piero Di Giorgi             

Alla domanda del titolo rispondo subito sì. La questione meridionale è ancora in campo per le ragioni passate e per quelle nuove. La pubblicistica è molto ricca, soprattutto in Italia ma anche a livello internazionale. Diverse e talora opposte sono le ipotesi e le interpretazioni degli studiosi sulle cause o concause del divario determinatosi tra Nord e Sud dell’Italia ma anche sulla periodizzazione o decorrenza dell’inizio della divaricazione tra le due Italie.

Una prima ipotesi è in qualche modo di tipo lombrosiano, che attribuisce la causa dei ritardi del Meridione a una diversità genetica dei meridionali, una tesi chiaramente razzista, sulla quale ritengo inutile argomentare, ma preferisco stendere un velo pietoso sui loro autori. Una variante si sofferma sulla grande diversità genetica, che comporterebbe una continua conflittualità. Anche questa tesi è in contrasto con la scienza, la quale ha sempre messo in luce che la diversità genetica è una ricchezza. Altre tesi si riferiscono a fattori caratteriali e storico-culturali come, ad esempio, la scarsa attitudine dei meridionali alla cooperazione e l’eccessivo familismo. Il che contrasta con la socialità e la rinomata accoglienza dei meridionali.

Oltre a queste tesi che fanno ricadere tutte le colpe dell’arretratezza del Sud sui meridionali stessi, esistono tesi contrapposte che attribuiscono la colpa all’unificazione, e dunque ai piemontesi che, servendosi di Garibaldi, hanno annesso il meridione all’Italia come una colonia. Il maggiore rappresentante di questa tesi è Pino Aprile, il quale sostiene che avevamo ferrovie e industrie, eravamo una terra felice e poi siamo precipitati nel disastro con la fine dell’esaltante Regno delle due Sicilie, guidato dai Borboni. Quest’ultima tesi mostra qualche addentellato con una matrice terzomondista, che sostiene che il Nord ha colonizzato il Sud e che l’origine dei mali va rintracciata negli scambi internazionali che portano i Paesi arretrati a specializzarsi in esportazioni di materie prime per sostenere lo sviluppo del Nord ed esportano anche persone, come manodopera da sfruttamento. In Italia questa ipotesi è stata impersonata da Antonio Gramsci, il quale scriveva che «la borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le Isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento».

Infine, c’è l’ipotesi geografica che però di volta in volta assume tratti diversi: o la geografia ci penalizza, lontani dai commerci, terra amara e poco fertile, oppure al contrario, la geografia ci aiuta, anzi, al Sud si vive meglio, tanto mare e sole, tanta lentezza, tempo e spazio per godersi la vita al riparo dalle nevrosi. Alcuni aspetti di questa tesi sono stati propugnati da Giuseppe Fortunato, il quale evidenziava uno svantaggio del Sud, determinato dalle condizioni geografiche del territorio, dalla povertà della natura e dalla mancanza di risorse, oltre che dalla distanza notevole dai mercati europei: lo studioso denunciava soprattutto la mancanza di infrastrutture ferroviarie e stradali, tutti fattori che condannavano il territorio meridionale a una condizione d’inferiorità.

Non è semplice individuare le concause che hanno determinato la nascita della questione meridionale né stabilire se le divaricazioni tra Sud e Centro-Nord erano già presenti al momento dell’Unità d’Italia, perché sul divario Nord-Sud prima dell’unificazione statale si sa ben poco. Proverò ad articolare un discorso che tenga conto della confluenza di fattori psicologici, storico-sociali e politici e dei dati di cui disponiamo. Per questi ultimi mi appoggio su un saggio di Emanuele Felice del 2020, Perché il Sud è rimasto indietro, dal quale ho tratto l’ispirazione per questo scritto. Infatti, in questi ultimi decenni, sono stati elaborati nuovi dati e indicatori economici, che tengono anche conto di procedure adottate in ambito internazionale. Emanuele Felice riassume quattro indicatori: a) disponibilità di strade e ferrovie; b) presenza di banche e quindi di un sistema creditizio; c) istruzione; d) reddito.

Carlo Levi, Lucania, 1961

Carlo Levi, Lucania 1961

La ferrovia era già nei primi anni dell’Ottocento il motore del progresso e stava rivoluzionando il commercio: i prezzi su rotaia erano più competitivi di quelli via mare. È vero che i Borboni avevano costruito la prima linea, Napoli-Portici (1839), lunga 7 chilometri e poi prolungata negli anni seguenti fino a Castellamare e Pompei. Ma era stata pro domo sua, cioè costruita perché la famiglia reale si potesse spostare verso il mare con il loro seguito di aristocratici. E tuttavia, nel 1859 la rete ferroviaria del Regno delle due Sicilie era di 99 chilometri, mentre quella del Piemonte e Liguria era di 850 Km, di 522 km il Lombardo-Veneto, di 257 km la Toscana. Perfino il papato superava i Borboni con 101 km di ferrovie.  Sulle strade ci sono dati che si riferiscono al 1863, dai quali si evince che Piemonte e Liguria avevano 16.500 Km di strade contro i 13.787 del Regno delle due Sicilie.

Anche per le strutture creditizie la disparità era forte. Al tempo dell’Unità, nel Regno delle due Sicilie esistevano due banche pubbliche, il Banco di Napoli (con una sola filiale, quella di Bari) e il Banco di Sicilia (due sedi, a Palermo e a Messina). C’erano poi 1200 Monti frumentari ma esercitavano credito in natura, cioè sementi per la raccolta. Nel Centro-Nord, invece, la situazione creditizia era ampiamente diversificata e in piena evoluzione: c’erano molti istituti genovesi, torinesi e lombardi e quindi moneta metallica e cartacea che poteva essere investita. Nel Sud, inoltre, non vi erano Casse di risparmio, fondamentali per il credito alle piccole e medie imprese: su 13 operanti nel territorio nazionale, soltanto una operava nel Regno delle due Sicilie.

I dati sull’istruzione sono ancora più eclatanti. I Borboni avevano lasciato in eredità all’Italia unita l’86% di analfabeti (dato 1861). Mentre fra gli uomini erano alfabetizzati solo preti, aristocratici e qualche borghese, le donne alfabetizzate erano una rarità. il Piemonte e la Lombardia stavano sul 50% e la Liguria al 35%. Sul reddito non ci sono stime certe. Alcuni dati riportano una sostanziale equità, altri, come quelli di Emanuele Felice, forniscono risultati diversi: fatto 100 l’Italia, il Meridione presentava un PIL per abitante di 90, mentre il Centro-Nord di 106.

Le prime inchieste di Leopoldo Franchetti sono del 1873 e, per la prima volta, il divario Nord-Sud veniva considerato una questione nazionale. E tuttavia, al momento dell’Unità d’Italia, anche se vi erano divari regionali, non erano così pronunciati come lo sono diventati in seguito. Nella prima fase, in età liberale (1861-1913) il divario era stato modesto, nel ventennio fascista si è espanso. Di industria nel Meridione non si è più parlato e il regime non è riuscito nemmeno a limitare il potere dei grandi proprietari terrieri né a scalfire minimamente il latifondo.

Carlo Levi, Lucania, 1961

Carlo Levi, Lucania 1961

Nella seconda fase (1913-1951), che comprende le due guerre e il fascismo, si verifica il periodo di massimo gap tra il Meridione e il Centro-Nord e il primo non è riuscito a generare un qualche tentativo di sviluppo industriale autonomo tranne il caso, pressoché isolato della imprenditoria dei Florio in Sicilia e in qualche altra zona del Sud. Nel 1950 è stata creata la Cassa per il Mezzogiorno e così ha preso il via l’intervento straordinario, attraverso due canali di intervento, quello diretto (costruzione di strade, infrastrutture, opere di bonifica) e quello indiretto (finanziamento di imprese industriali).

La terza fase (1951-1973) va dall’inizio del boom alla crisi petrolifera. Il divario tra Nord e Sud si è ampliato fino alla vigilia del cosiddetto miracolo economico. Nel 1951, allorché la nuova classe dirigente della Repubblica, sospinta dal meridionalismo della Svimez, l’associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno, rese prioritario il tema dello sviluppo del Sud, si sono ridotte le disuguaglianze, almeno fino agli anni ’70. È stata considerata la più consistente politica di sviluppo realizzata in tutto l’Occidente per la mole di infrastrutture, strade, reti idrogeologiche e per la quantità di risorse mobilitate. Dal 1951 al 1971 è crollato il numero degli addetti all’agricoltura nel Mezzogiorno dal 59% al 33% ed è aumentato il numero degli addetti all’industria dal 16% al 25%. Tuttavia, questa massiccia politica di investimenti si scontrava con i poteri locali mafiosi e non. Ma su questo mi soffermerò dopo.

Malgrado venisse per la prima volta ridotto il divario tra Sud e Centro-Nord, l’assorbimento della mano d’opera è stato inferiore alle aspettative, perché mancavano le piccole e medie industrie dell’indotto. È da sottolineare che, in questa fase, un fattore molto importante che ha contribuito a restringere la forbice Nord-Sud è stato l’istruzione. Se nel 1911 gli analfabeti al Sud rappresentavano ancora il 59% della popolazione mentre al Nord-Ovest erano il 13% e al Nord-Est e Centro il 34%, nel 1971 gli analfabeti erano al 5% al Nord, mentre al Sud erano scesi all’11%. E ciò non è stato casuale ma è avvenuto perché sono subentrate leggi importanti sull’istruzione, come la legge Daneo-Credaro del 1911, che ha sottratto la scuola elementare ai Comuni che non potevano sostenerne i costi, ha aumentato gli stanziamenti e affidato allo Stato l’onere di pagare i maestri. Ma la vera svolta è avvenuta con la legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 che istituiva la scuola media unificata e attuava l’articolo 34 della Costituzione che recita in modo esplicito: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita» e di fatto poneva anche un freno a una selezione precoce.

Da sottolineare, all’inizio degli anni ‘70 un dato a favore del Sud: riguardo alle aspettative di vita, il Sud superava il Nord: 74,2 gli anni di vita attesi alla nascita, contro i 74 del Centro Nord. Ciò è stato dovuto probabilmente al fatto che l’incremento dell’industrializzazione del Nord non aveva portato vantaggi alla salute, anzi aveva peggiorato le condizioni di vita, sia per i turni massacranti, sia per le pessime condizioni sanitarie dei centri urbani.

Carlo Levi, Lucania, 1961

Carlo Levi, Lucania 1961

Con la crisi petrolifera del 1973, gli impianti del Sud hanno subìto grandi contraccolpi, essendo meno radicati di quelli del Centro-nord e le grandi fabbriche sono fallite, lasciando rovinosamente incompiuta la industrializzazione del Sud. Sciolta la Cassa del Mezzogiorno, è stata istituita l’Agenzia per il Sud ma i soldi si disperdevano in mille rivoli, finivano su impieghi improduttivi oppure per ingrassare la pubblica amministrazione clientelare. La classe dirigente locale utilizzava i finanziamenti pubblici per rafforzare le sue posizioni di potere e conservare i privilegi o incrementare le cosche criminali, le quali erano infiltrate nei partiti.

La quarta fase è quella attuale degli aiuti europei (c. d. fondi strutturali) alle regioni in ritardo nello sviluppo e che richiedono un supporto attivo da parte della P. A. locale. Questi fondi, che hanno arricchito e prodotto grande sviluppo in Paesi come la Polonia e l’Ungheria, in Sicilia invece vengono fatti scadere senza essere utilizzati, forse anche perché mancano le competenze per il loro investimento. L’ultimo sussulto della politica meridionalistica è stato il “Programma per lo sviluppo del Mezzogiorno” dal 2002 al 2006, inteso a favorire l’imprenditorialità locale. Ma spesso manca l’imprenditoria o essa è espressione delle organizzazioni criminali. Per l’incapacità delle imprese locali o per la paura delle infiltrazioni mafiose o di essere da queste taglieggiate, le uniche attività industriali sono state delocalizzazioni di imprese nazionali come la FIAT, oppure multinazionali come, per esempio, l’Etna Valley.

In buona sostanza, si può dire che con tutti i soldi arrivati al Sud dalla Cassa del Mezzogiorno, dall’Agenzia per il Sud, dal Programma per lo sviluppo del Mezzogiorno e per ultimo dell’Unione Europa per le aree depresse, il Meridione dovrebbe avere le migliori infrastrutture del mondo e invece ci sono ancora ferrovie e strade da far west e ci vogliono tempi biblici in certe zone per spostarsi da un luogo all’altro. La mia idea è che un elemento di primo piano del ritardo del Sud, già presente prima dell’Unità d’Italia, è quello delle classi dominanti, una minoranza privilegiata arroccata sulla rendita piuttosto che sul fattore produttivo, come già rilevato da Gaetano Salvemini e da Antonio Gramsci i quali accusavano i latifondisti meridionali e anche le classi dominanti politiche. Ed è proprio da questo fattore che nasce la criminalità organizzata, ormai il fattore più devastante che condiziona tutta la vita economica, politica e sociale, non solo del Sud ma anche dell’intera Italia.

Carlo Levi, Lucania, 1961

Carlo Levi, Lucania 1961

In verità, oggi è più corretto parlare al plurale di mafie, che sono presenti in quasi tutto il mondo. Sebbene il termine “mafia” sia entrato nel linguaggio e nel dibattito politico nazionale a partire dall’Unità d’Italia, tuttavia la sua nascita si deve collocare nella prima metà dell’Ottocento, durante il Regno delle due Sicilie, principalmente nella Sicilia occidentale, per poi estendersi in tutto il Regno del Sud, a causa della condizione di profonde disuguaglianze, di quasi assenza dello Stato e di pieno dominio della nobiltà. Essa nasce a opera dei grandi proprietari terrieri, che assoldavano giovinastri, chiamati campieri. Nella Sicilia preunitaria queste bande extra legem andavano aumentando man mano che l’aristocrazia ex feudataria delegava l’amministrazione dei beni ad una classe di intermediari, noti come gabellotti, che cercavano di raccoglierne l’eredità e avevano il compito di controllare la criminalità comune. Mano a mano, il loro potere è aumentato a dismisura con l’Unità d’Italia e hanno finito con l’esercitare un ruolo decisivo nella rivolta antiborbonica e nella vittoria di Garibaldi.

Con l’unificazione, nel 1861, è arrivato lo Stato forte che ha imposto, tra l’altro, anche tre anni di leva obbligatoria. Ciò ha scatenato la protesta e la diserzione di migliaia di giovani siciliani che sono andati a ingrassare le fila dei mafiosi. Analogo discorso vale per la ‘ndrangheta. Differente è la camorra, la quale era un fenomeno conosciuto già all’epoca dei Borboni e si distingueva dalla mafia e dalla ‘ndrangheta anche perché la sua sede era nella capitale del Regno e aveva una collocazione prevalentemente urbana. La forza della mafia è stata sempre legata ai rapporti con la politica ma anche allo scarso senso di legalità, derivante dall’humus di una subcultura mafiosa presente in Sicilia, così come avviene in Calabria con la ‘ndrangheta e in Campania con la camorra.

La domanda è: È possibile cambiare? Ritengo che non ci possa essere alcun cambiamento se non si estirpano le mafie e il clientelismo. Come scriveva Pietro Calamandrei, «in Sicilia la mafia non scomparirà mai finché ci saranno sindaci, deputati e magari ministri che debbono la loro elezione alla mafia e che contano sulla mafia per la loro rielezione». Per fare ciò, occorre un cambiamento radicale della politica, il decisore più importante per riconvertire le istituzioni del Mezzogiorno. Ma perché cambi la politica, occorre anche trasformare la mentalità e la subcultura che ne è alla base e ciò può avvenire attraverso una rifondazione profonda della scuola, a partire da quella dell’infanzia.

Carlo Levi, Lucania, 1961

Carlo Levi, Lucania 1961

Emanuele Felice usa, sulla scia di Luciano Carfagna e altri studiosi, la espressione modernizzazione passiva e cioè subìta, per spiegare il perché, nonostante alcuni miglioramenti, il Sud sia rimasto indietro. A essa contrappone la necessità di una modernizzazione attiva, e cioè, riprendendo il concetto gramsciano di “blocco storico”, quella fatta di persone consapevoli, una nuova classe dirigente che eserciti un ruolo guida e un’egemonia culturale e di progettazione di nuove istituzioni. Penso che una modernizzazione attiva, oltre a garantire alcune precondizioni di sviluppo, cioè una serie di infrastrutture (reti ferroviarie e stradali, crediti a imprese), deve mirare alla diffusione di asili-nido e scuole dell’infanzia e una riforma radicale della scuola che educhi al cambiamento e alla cittadinanza attiva. Ciò può avvenire tramite la partecipazione attiva dei cittadini. Qualsiasi cambiamento dall’alto non ha determinato alcun cambiamento vero e profondo. E invece i siciliani e i meridionali in genere manifestano disagio e disaffezione per la politica, disinteresse e sfiducia che si possono sintetizzare in frasi del tipo “sono tutti gli stessi, non cambia nulla”, cui si potrebbe rispondere con la nota poesia del poeta dialettale siciliano Ignazio Buttitta il quale recitava: 

Parru cu tia
to è la curpa,
cu tia, mmenzu sta fudda
chi fai l’indifferenti ntra na fumata e n’autra di pipa
chi pari ciminera
sutta di sta pampera
di la coppula vecchia e cinnirusa.
 Parru cu tia,
to è la curpa..
Guardatilu chi facci!
ci la sucau lu vermi di la fami;
e la mammana
ci addutau ddu jornu
chi lu scippò di mmenzu a li muddami:
pani e cipudda.

Parru cu tia,
to è la curpa
si porti lu sidduni
e un ti lamenti;
si lu patruni, strincennu li denti
cu lu marruggiu mmanu e la capizza
t’arrimodda li corna e ti l’aggrizza…

È del tutto evidente che se tutti coloro che ripetono questo “mantra” riflettessero sul fatto che la qualità della vita dipende dalle scelte della politica e s’impegnassero nello spazio pubblico, le cose certamente cambierebbero. In tanti diciamo che c’è bisogno di un riscatto civile. Ma poi passa il tempo e ci rincontriamo sulla strada e ci tornano in mente le parole di Carlo Levi: «Cosa speri? Niente. Cosa si può fare? Niente e gli occhi si alzano, nel gesto della negazione, verso il cielo».

Carlo Levi, Lucania 1961

Carlo Levi, Lucania 1961

Una società può cambiare se ciascuno di noi porta il proprio contributo di idee, prende in mano il proprio destino, è consapevole che una comunità può progredire con la partecipazione di tutti. Soltanto così si può sconfiggere una classe dirigente che pensa soltanto ai propri interessi privati e alle proprie clientele e che spesso è connivente con la mafia. In Sicilia c’è stata l’esperienza di Un’altra storia, animata in primo luogo da Rita Borsellino, con la collaborazione di Alfio Foti e da molti di noi, attraverso l’esperienza dei cantieri, esaltando l’esercizio della cittadinanza attiva attraverso una partecipazione diffusa dal basso. Si tratta di cancellare la rassegnazione e la sfiducia e cambiare pagina.

In Sicilia e in tutto il Meridione occorre fare un lavoro profondo che stimoli e risvegli il sonno della ragione e produca cambiamenti profondi nei valori e nella coscienza, che è una precondizione per una partecipazione crescente e diffusa alla vita della propria comunità. Soltanto attraverso la partecipazione diffusa si può fare emergere una nuova classe dirigente informata all’etica e alla giustizia. Occorre una nuova proposta culturale e una nuova elaborazione progettuale che liberi la Sicilia dall’intreccio tra mafia e politica, tra borghesia mafiosa e apparati burocratici. Soltanto se si incide nel corpo profondo della società meridionale, se si riesce a ricostruire la fiducia nelle persone deluse, facendole diventare protagoniste, è possibile giungere alla costruzione di un fronte di soggetti che credono nel cambiamento, a partire da quelli che avvertono maggiormente il disagio e il malessere della società meridionale, in particolare i giovani senza prospettiva e costretti a migrare, con grave danno per l’economia e la cultura meridionale. Si tratta di fuga delle persone più preparate, un drenaggio di intelligenze. E se restano i peggiori, saranno loro a mettere un’ipoteca seria sul futuro.

Carlo Levi, Lucania, 1961

Carlo Levi, Lucania 1961

Bisogna istituire luoghi d’incontro, di confronto, di ascolto e di dibattito sulla scuola, sulla famiglia, sulla legalità, sull’ambiente, sul fisco, sulla qualità della vita, cioè sulle questioni che le persone vivono direttamente, coinvolgendo tutte le associazioni culturali e di volontariato presenti nel territorio. Soltanto in questo modo è possibile rompere la rete e la mentalità clientelare e i ricatti che si perpetuano e fanno breccia nella disgregazione sociale e nella ricerca individuale di soluzione dei propri problemi. Bisogna penetrare e trasformare quel senso d’impotenza, di delusione e rassegnazione, depositato nell’inconscio collettivo dei meridionali e che proviene da secoli di oppressione e di sfruttamento, e trasformarlo in energia per il cambiamento.

La Sicilia e tutto il Meridione dovrebbero progettare il loro sviluppo avendo un orizzonte euro-mediterraneo con un ruolo di pace e di cooperazione internazionale in direzione della costruzione di un’area di libero scambio. Tutti i flussi mercantili, soprattutto quelli cinesi, passano per il canale di Suez e per il canale di Sicilia. La Sicilia può assumere un ruolo centrale e trainante di tutto il Meridione. Dipende da noi. Occorre cominciare a costruire un’idea forte e ambiziosa per la Sicilia e tutto il Meridione, quella di fare da ponte, come avamposto dell’Europa attraverso il Mediterraneo, tra l’Europa e l’Africa. Ciò comporta ovviamente la costruzione di una serie di infrastrutture ferroviarie e stradali, portuali e aeree. Un’Europa che non progetta il proprio ruolo nel Mediterraneo non può essere protagonista nelle relazioni internazionali e resta subalterna dell’Atlantico e invece potrebbe costruire un Mediterraneo di cooperazione, d’integrazione e di pace.

Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022

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Piero Di Giorgi, già docente presso la Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza” e di Palermo, psicologo e avvocato, già redattore del Manifesto, fondatore dell’Agenzia di stampa Adista, ha diretto diverse riviste e scritto molti saggi. Tra i più recenti: Persona, globalizzazione e democrazia partecipativa (F. Angeli, Milano 2004); Dalle oligarchie alla democrazia partecipata (Sellerio, Palermo 2009); Il ’68 dei cristiani: Il Vaticano II e le due Chiese (Luiss University, Roma 2008), Il codice del cosmo e la sfinge della mente (2014); Siamo tutti politici (2018).

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