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We have a shared dream. Il giardino botanico in America, fra trasmigrazioni e radicamenti

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Fioriture a New York (ph. F. Schiavo)

di Flavia Schiavo

Quando, tra il 1845 e il 1849, a causa della “Great Famine, la carestia di patate che colpì l’Irlanda, numerose persone perirono e una consistente porzione di Irish salpò verso l’America, pochi, forse nessuno, sapevano che la terra che li avrebbe accolti era quella da cui la principale fonte di sostentamento alimentare, la patata appunto, aveva avuto origine, raggiungendo l’Europa solo dopo la scoperta dell’America, del Sud, in questo caso, essendo la patata originaria delle Ande.

Il 1492 fu, in tal senso – e anche per quanto attiene la complessità crescente del sistema ecologico e ambientale, e degli effetti collaterali e non, di tale complessità – una soglia storica fondamentale che inaugurò una “nuova era”, in cui lo spazio dei flussi si allargava e si intensificava, in termini dimensionali, qualitativi, politici, culturali, simbolici, biologici, anche per la frequenza e l’incremento degli spostamenti, in un tempo inizialmente dilatato che in breve diede vita ad un pianeta globalizzato e reticolare.

Dall’inizio del XIX secolo, la storia dei rapporti tra Nuovo e Vecchio Mondo, iniziata sul finire del XV secolo, subì una consistente accelerazione, quando le “migrazioni” diventarono un fenomeno macroscopico, non solo per piante, animali e malattie, ma per la moltitudine di persone che dall’Europa, dall’Asia e dall’Africa si spostarono (o furono spostate, per quanto attiene gli afroamericani) in America.

Lo start e poi l’aumento degli inter-scambi tra i due continenti prima separati dall’Oceano e ignoti l’uno all’altro, diede vita a una rivoluzione cognitiva, geopolitica, ma forse soprattutto biologica e ambientale, che ebbe effetti moltiplicatori sul piano culturale, sociale, economico, ecologico. Oltre alla patata, ai fagioli, ad alcune varietà di zucche, al cacao, al tabacco (e alle virtù attribuite inizialmente a questa pianta), alla consistente quantità di animali, micro organismi, o di prodotti eduli, come le solanacee tra cui il pomodoro, o come il mais [1], una graminacea addomesticata in Messico circa 10 mila anni fa, le migrazioni biologiche riguardarono un enorme numero di piante che, arricchendo il corpus delle specie native (su cui gli orti botanici americani conducono una notevole ricerca e una opera di catalogazione e conservazione), divennero parte non solo del paesaggio agrario e urbano o botanico ma delle collezioni, degli Erbari e dei Botanical gardens statunitensi.

In definitiva la scoperta delle Americhe inaugurò ciò che, nel 1972, Alfred W. Crosby in The Columbian Exchange: Biological and Cultural Consequences of 1492, definisce “scambio colombiano”. Tale chiave di lettura, che parte da una narrazione storica commutata, contaminata, rinvigorita da una prospettiva biologica ed ecologica, mostra come nel 1491 il pianeta fosse ancora costituito da due mondi non comunicanti: le Americhe da un lato, Eurasia e Africa dall’altro. Dopo l’integrazione colombiana e la caduta della frontiera tra tali “universi”, lo scambio reciproco di piante autoctone, animali e malattie aprì un processo di ibridazione ininterrotto. Ed è in tal senso che la storia economica, politica e sociale deve necessariamente considerare come focus il flusso degli organismi viventi, vegetali e animali, tra due mondi prima separati.

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Botanic garden al Bronx (ph. F. Schiavo)

Tale visione, che adesso sembra fondamentale oltre che ovvia, per molti anni non fu considerata nemmeno nei Corsi di storia che, organizzati ideologicamente e politicamente, avevano difficoltà a includere il pensiero ecologico nella narrazione relativa alle vicende planetarie, a grande e a piccola scala. In una certa misura, dunque, e sino a un certo punto contavano di più le idee politiche di Thomas Jefferson o George Washington, i padri fondatori, nella costruzione dell’identità americana, o di Carl Marx, Frederich Engels o David Ricardo nella costruzione dell’identità europea, di quanto non contassero i flussi bio-culturali su cui si stava ri-strutturando l’emisfero occidentale.

Ma una storia che potrebbe definirsi “storia culturale e ambientale” spinge a incrociare le fonti e le visioni e a cercare, nel corpus (in questo caso) dei politici americani, quelle idee in grado di trascendere il modello di interpretazione fondato su un approccio classico, sia dal punto di vista sociologico, sia economico. Thomas Jefferson, infatti, pensava e agiva all’incrocio tra “Ragione” e “Natura”, sia per ciò che attenne alla sua esperienza personale, sia per quanto riguardò il suo essere architetto, urbanista, landscaper, nonché ideatore di un progetto statuale e collettivo che riguardasse l’agricoltura e i parchi. Tale “progetto”, pur interfacciandosi con la cultura europea la trasformava, nell’edificazione della cultura americana.

I piani di Washington (1792) e di Jeffersonville (1805), Jackson e Missouri City, ispirati dalle idee di Jefferson si discostano dai modelli modelli europei, manifestando, come afferma John Reps (1961), una specifica utopia jeffersoniana. Il Presidente riconoscendo il valore pedagogico dell’architettura, rimandava al classicismo e al palladianesimo sottolineando quanto, nella sua visione, la “ragione” dell’Illuminismo potesse divenire una guida pratica per la costruzione della democrazia.

Anche in tal senso va considerata la sua politica, agraria e antiurbana, in cui egli rivelava la critica al sistema industriale nascente. Monticello stesso ne è il manifesto.

In che modo rendere americano il mito europeo del classicismo? Attraverso l’unificazione degli ideali divergenti insiti nella giovane, complessa e composita società americana e con la pratica, il classicismo sarebbe potuto diventare un valore accessibile.

Questioni che rimandano in termini generali, al rapporto tra natura e cultura, tra i più complessi, interessanti e fecondi delle elaborazioni umane. Tale relazione, ovviamente, non può essere sintetizzato attraverso ciò che emerge dall’interessantissimo e originale volume di Alfred W. Crosby; tuttavia, pur essendo parziale, la sua visione è funzionale per riflettere sui nodi culturali e ambientali e sui loro effetti di lungo termine sull’assetto complessivo, analizzando un macro fenomeno, quello degli scambi biotici tra America, Europa, Asia, a cui la nascita dei Botanical gardens in America è strettamente collegata.

L’arrivo degli europei e degli asiatici in America, sia del Nord che del Sud, generò, però, non unicamente una crescente quota di contaminazioni e ibridazioni, ma produsse un altissimo livello di erosione e cancellazione delle culture autoctone [2], nordamericane e sudamericane, che furono spazzate via [3], e con esse fu erosa, oltre ai paesaggi reali e percepiti, la “filosofia” e il sistema simbolico sotteso a quella cultura che aveva concepito quel paesaggio e costruito quel mondo.

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Botanic garden, Bronx, NY (ph. F. Schiavo)

Per meglio comprendere la stretta interdipendenza tra processi culturali e biologici appare opportuno sottolineare che gli indiani d’America, e i sudamericani, non furono decimati solo a causa di opportunistiche scelte politiche e grazie alla pianificazione del genocidio; bensì, tra gli altri, anche da agenti patogeni contro i quali i nativi stessi non erano immunizzati. Essi, infatti, si sostentavano con agricoltura (erano “raccoglitori”) e caccia. L’assenza di pratiche di allevamento, di contro diffuse in Europa, non aveva consentito l’immunizzazione nei confronti di numerose malattie zoonotiche che trasmigravano dagli animali all’uomo, come il vaiolo o la tubercolosi.

L’attraversamento oceanico di Colombo aveva innescato dunque ambivalenze, svantaggi e vantaggi: nell’interscambio, infatti, sia gli europei che gli americani, beneficiarono di alcune tra le introduzioni botaniche e zoologiche, post scoperta dell’America; di contro, attivando le dinamiche di interazione tra i sistemi continentali, alcuni equilibri preesistenti cambiarono drasticamente.

Un esempio a proposito della “comunità delle piante”, riguarda le foreste americane, l’agricoltura intensiva sviluppatasi in America dal XVI secolo, e la “piccola glaciazione” mondiale (avvenuta tra il 1500 e i 250 anni successivi) attribuibile anche al declino dei nativi americani, alla conseguente riforestazione (gli autoctoni tramite incendi controllati creavano praterie, mutando la composizione dei sistemi forestali), alla diminuzione delle emissioni di CO2, ealla riduzione dell’effetto serra, con conseguente abbassamento delle temperature mondiali.

Un ulteriore esempio è relativo alla presenza dei giardini, nodale soprattutto in area mesoamericana. Mentre in Europa dominava l’hortus conclusus – il giardino di fiori e piante autoctone, o il giardino organizzato a fini terapeutici, in cui le piante erano catalogate in base ai princìpi medici; mentre, in fase iniziale, vigeva lo schema geometrico, come quello adottato a Padova (nel 1545, nel più antico Orto universitario del mondo), poi sostituito da un impianto “all’inglese” [4] e da schemi più strettamente aderenti all’ordinamento scientifico che a una specifica geometria, cioè gli assetti basati sul “sistema binomiale linneiano” – in specifici ed emblematici casi, in mesomerica invece la cultura dei giardini aveva forti relazioni con le risorse locali, a esempio quelle idriche, e soprattutto con il senso del sacro.

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Botanic garden, Chicago (ph. F. Schiavo)

Quando Cortez giunse in Mesomerica, nel 1519, scopri tra le altre una città Tenochtitlan, oggi Città del Messico, dove vivevano circa 200 mila persone. La popolosa città, come una fortezza, era circondata da un lago. Per il proprio sostentamento alimentare gli Aztechi avevano costruito i chinampas, giardini galleggianti, trasformando le paludi del lago Texcoco in terreni agricoli. I giardini galleggianti erano rettangolari (circa 9 m per 91 m), ed erano edificati su zattere costituite da bastoncini di legno intrecciati. Su questa base flottante veniva accumulato del fango sul quale era posto uno strato di terra alto circa un metro. I giardini erano ancorati grazie alle fronde flessibili di alcuni salici piangenti, avevano intorno una rete di canali per consentire il passaggio delle canoe, costituendo una rete di circa 9 mila HA. Erano piantati a mais, fagioli, zucche, pomodori, peperoni e fiori, comprendendo anche specie di riconosciute virtù terapeutiche in un’area geografica dove la scienza medica su base fitoterapica aveva già avuto un grande sviluppo, dando vita a un analogo del giardino botanico, che fu concepito dalla Scuola Medica Salernitana [5].

Nelle fonti è riportato che i giardini aztechi producessero sette raccolti l’anno, ma Cortez, che era interessato solo a depredare le ricchezze monetizzabili delle civiltà azteche e al loro dominio, ne ordinò la distruzione. Il mito nordamericano della “Great American wilderness”, allora, non restituisce l’intero e complesso ordito relativo alla relazione uomo/natura in America (Nord e Sud), relazione che riguarda sia la cultura dei nativi nordamericani sia quella delle civiltà precolombiane, e rivela comunque il differente effetto degli insediamenti urbani sull’ambiente e il diseguale rapporto delle popolazioni insediate con il territorio, soprattutto se visto in termini comparativi con quello europeo, dove dominava uno spazio costituito dalla compresenza di “ager” e “urbs” (agro e città materiale), l’agricoltura estensiva, le mastodontiche e permanenti cattedrali e le città di pietra. Ambienti che, ancor più se guardati comparativamente, potrebbero essere intesi come specchio della realtà locale e come espressione del feedback tra la struttura biologica co-evolutiva e la trasformazione culturale.

In gran parte fu la fase post colombiana e l’arrivo degli europei che innescò una macro metamorfosi ambientale e culturale, ma non fu la sola azione dei “soggetti” a mutare le condizioni del continente americano, quanto l’enorme quantità di concause e tra esse le contingenze bio-culturali interpretate come significativi elementi in interazione in un sistema complesso. Va rilevata, dunque, la stretta connessione esistente tra cultura e biologia, ed è anche attraverso tale legame che diventa interessante esplorare l’evoluzione dei giardini, della disciplina botanica e la nascita dei Giardini botanici in America, luoghi in cui scienza, cultura, economia e produttività, conservazione, biologia, società, agiscono insieme.

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foto storica del primo Botanic garden, Washinghton, D. C.

Sebbene in sintesi, è opportuno ricordare che la cultura dei giardini in America del Nord nacque contestualmente alla colonizzazione da parte degli europei i quali, in fase iniziale, riproposero i modelli dei loro paesi di origine. Alcuni esiti sono particolarmente indicativi, tra essi: il Bacon’s Castle, in Virginia, del 1665, può essere considerato il primo giardino americano con un disegno formale; il Bartram’s Garden, a Philadelphia, noto come America’s Garden Capital, è il più antico giardino botanico (del 1728) sopravvissuto negli States; il Magnolia Plantation, in South Carolina; Middelton Place, a Charleston, il più antico landscape garden in US; il Japanese Tera Garden, a San Francisco, il più antico giardino giapponese pubblico in America.

Mentre si sviluppava il cosiddetto “giardino coloniale”[6], nel XVI secolo alcuni testi di botanica pre linneiana videro la luce e alcuni giardini utilizzarono un linguaggio classico, proponendo tecniche come l’ars topiaria. Come già affermato un consistente avanzamento fu dovuto al corpus dei politici, tra essi Jefferson che non solo introdusse lo stile palladiano per la sua villa a Monticello, ma utilizzò pienamente lo stile “inglese” per il suo parco, adottando il Serpentine Style, sviluppato da Lancelot Brown. Lo stile paesaggistico diede vita in tutti gli States a parchi non formali, costituiti da ampi prati, dove si stagliavano gruppi irregolari di alberi o arbusti, da specchi d’acqua, spesso a serpentina, e dove cinture di alberi circondavano i vialetti perimetrali. Alcuni testi europei, come ad esempio il Miller’s Gardeners Dictionary (I ed. 1731, P. Miller era un importante botanico inglese) venivano, dallo stesso Jefferson, consultati anche per fini pratici: nell’estate del 1796, infatti, il Presidente trovò nel volume indicazioni relative alle rotazioni colturali. Un episodio niente affatto isolato, che sottolinea quanto gli stessi politici più importanti, come Jefferson o lo stesso Washington, attribuissero un alto valori al “giardino” e all’agricoltura e integrassero la pratica della coltivazione con le elaborazioni teoriche.

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Botanic garden, Chicago (ph. F. Schiavo)

 I Giardini botanici

Il giardino botanico negli States è fortemente radicato allo stesso atto di nascita della Confederazione: già i padri fondatori, alla fine del XVIII secolo, George Washington, Thomas Jefferson e James Madison, condivisero il sogno di un Giardino botanico nazionale. Nel 1816, grazie anche alla costituzione del Columbian Institute for the Promotion of Arts and Sciences di Washington, D.C., ne fu fondato uno, la cui esplicita missione era raccogliere, coltivare e distribuire piante autoctone e alloctone in grado di contribuire al benessere del popolo americano. Quel giardino, istituito dal Congresso nel 1820 e sito a Ovest del Campidoglio, operò sino al 1837.

Nel 1842 l’idea di un Giardino botanico nazionale fu ripresa quando, dopo la “Exploring Expedition to the South Sea” (la cosiddetta Wilkes Expedition), fu portata in patria, a Washinton, D. C., una vastissima collezione di piante prelevate in varie parti del pianeta. Inizialmente collocate in una serra appositamente costruita nel 1850, le piante furono trasferite in una nuova struttura sul sito precedentemente occupato dal giardino dell’Istituto colombiano. Il giardino Botanico, denominato United States Botanic Garden, fu spostato nella sua posizione attuale nel 1933, in un vasto complesso che comprende: il Botanical Conservatory, rinnovato tra il 1997 e il 2001; il National Garden, aperto nel 2006; e Bartholdi Park, creato nel 1932.

Fortemente voluta dal Congresso, la Wilkes Expedition, che prese il nome dal suo comandante, durante quattro anni, esplorò le terre esterne all’America che si affacciano sull’Oceano Pacifico, in quel periodo noto come Mar del Sud. Navi della Marina militare degli Stati Uniti, tra il 1838 e il 1842, salparono per esplorare nuovi territori, redigere carte topografiche, con l’ausilio di alcuni studiosi, naturalisti, un mineralogista, un tassidermista, un filologo e un pittore che aveva il compito di rappresentare i luoghi visitati. Esito della spedizione furono sia le consistenti pubblicazioni scientifiche editate in 19 volumi, sia un corpus di campioni di specie vegetali, di animali e di semi. I semi, oltre a essere utilizzati per propagare nuove specie vegetali commercializzabili, insieme ai campioni che furono essiccati, divennero parte consistente del patrimonio dello Smithsonian Institution. Oltre ai rilievi cartografici la spedizione elaborò la catalogazione di oltre 6 mila specie tra vegetali e uccelli e portò in patria più di 250 specie vegetali vive che furono piantate nella serra prima citata, diventate in seguito uno dei nuclei dell’United States Botanic Garden.

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The conservatory nel Botanic garden, Bronx (ph. F. Schiavo)

È utile evidenziare che gli Orti botanici americani istituzionalizzati e accreditati nacquero durante una fase di stabilità economica, e quando le città americane, soprattutto Chicago e New York, avevano assunto un ruolo di primo piano nel sistema occidentale: inoltre gli stessi Giardini botanici che possono essere considerati come parte di una infrastruttura culturale che vide sorgere a NYC istituzioni importanti – come l’American Museum of Natural History (1869), il Metropolitan Museum of Art (1870), the Metropolitan Opera Company (1883), il New York Zoological Society (1895), e la New York Public Library (1895) – si svilupparono durante la fase successiva alla pubblicazione dell’opera di Linneo (la classificazione scientifica degli organismi viventi, dal 1730, la nomenclatura binomiale del 1735, il suo Systema Naturæ, del 1758) [7] e alla introduzione del “giardino all’inglese”. Come già cennato, la “rivoluzione linneiana”, insieme alla rinnovata cultura del progetto dei giardini, ebbe una notevole influenza sulle geometrie degli impianti, e sull’organizzazione degli ordinamenti scientifici. Inoltre, in misura maggiore che in Europa, negli States i giardini botanici manifestarono, ab origine, una duplice missione, che eccedeva la tassonomia e la collezione: da un lato la promozione degli aspetti produttivi (collezionare e incrementare la conoscenza per lo sviluppo economico e per il benessere della popolazione), dall’altro favorire le matrici ideali che erano state alla base della Costituzione. Nelle idee espresse, tutt’altro che sublimate, era compresente la “jeffersoniana purezza” e la “visione utopica” resa vitale e operativa dalla rilevante concretezza alla quale essa era indissolubilmente legata.

In tal senso, più chiaramente forse delle “città”, il giardino botanico americano è una tra le rappresentazioni visibili della Costituzione.

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Ritratto di Thomas Jefferson, di Rembrandt Peale, 1800

Thomas Jefferson, in particolare, fu uno dei grandi promoter della botanica statunitense; ebbe uno spiccato interesse per la natura, per le piante e i giardini, tanto da realizzare un proprio giardino a Monticello. Botanico, che è riduttivo definire dilettante, incrementò lo scambio tra piante con collezionisti oltre oceano, anche per essere stato ambasciatore della Confederazione in Francia. Oltre a essere Presidente della American Philosophical Society, promosse l’agricoltura come settore produttivo, esaltandone il valore morale, nonché l’esplorazione delle risorse naturali americane, possedette un erbario e sponsorizzò, tra l’altro, un’altra tra le spedizioni americane, quella di Lewis e Clark.

Negli anni successivi alla Dichiarazione dei diritti di Indipendenza (1776) il territorio enorme della Confederazione era, per ovvie ragioni, poco noto e abitato dalle tribù degli indigeni. La colonizzazione di un vastissimo ambito geografico spinse la Confederazione, oramai indipendente, ad esplorare gli ampi territori per conoscere, confinare, definire e attingere a risorse reputate significative per lo sviluppo. Si trattò di una continuativa campagna di viaggi, spedizioni e perlustrazioni che trasformò in “pionieri” i coloni insediati e impegnati nella “invenzione” di una patria e nel superamento della “frontiera”.

Jefferson, consapevole delle potenzialità statunitensi e proiettato verso il mito del progresso, fu una figura determinante; egli organizzò inizialmente una sottoscrizione per il finanziamento di una spedizione esplorativa che non fu, per ragioni politiche, portata a compimento. Nel 1804, invece, la spedizione capitanata da Lewis e Clark, fu varata. Pressoché coeva a una altra spedizione, la Pike Expedition (1806-1807, nei territori della Louisiana) [8], fu la prima a raggiungere l’Oceano Pacifico via terra con un tragitto che attraversò la porzione Nord Ovest del territorio dell’America del Nord, non ancora unificato. La spedizione diede un grande contributo alla conoscenza del territorio, alla redazione delle cartografie, alla conoscenza sia delle popolazioni dei nativi, sia della flora originaria e della fauna autoctona.

È possibile dire che l’evoluzione e l’arricchimento del patrimonio botanico fu compiuto con determinazione sia a grande che a piccola scala, attraverso numerosi livelli:

  • le esplorazioni esterne e quelle condotte all’interno dell’America del Nord [9];
  • le consistenti acquisizioni di collezioni, da istituti o college, finalizzate alla costruzione degli erbari;
  • i viaggi conoscitivi in Europa, per acquisire il patrimonio di specie botaniche autoctone in Europa (in aggiunta va detto che i neonati States, sebbene si stesse delineando un percorso più autonomo, erano ancora legati alla cultura europea, vista come matrice significativa);
  • le ampie e minute, ma spesso assai innovative e significative azioni compiute degli studiosi accademici attivi “sul campo”, o degli amateur, tra essi il terzo Presidente degli States, Thomas Jefferson.

Un capitolo rilevante nella storia dei giardini botanici e dei Botanic gardens americani è legato alla costruzione degli erbari. Raccolte di grande interesse essi uniscono più aspetti, come la rappresentazione (a partire dalle miniature antiche), i sistemi di catalogazione, i paradigmi vigenti, le scienze interconnesse alla botanica (es. la farmacopea). Da una specifica tipologia di libri si sono evoluti in una collezione di piante e di porzioni di esse, essiccate e classificate scientificamente; attualmente esiste un macro catalogo, l’index Herbariorium, che contiene un elenco di 273 mln di esemplari.

Istituzioni mondiali, come il Museum National d’Histoire Naturelle (1635), a Parigi; il Komarov Botanical Institute, a San Pietroburgo (1823); il Royal Botanic Gardens, a Kew (1841); il Natural History Museum, a Londra (1753) e il Garden’s Herbarium del Botanic garden nel Bronx, possiedono i cinque erbari più grandi al mondo. Quest’ultimo, fondato nel 1891, divenne subito deposito di grandi collezioni e lasciti e ha una storia emblematica utile a comprendere non solo il valore della raccolta, ma la modalità tramite cui essa fu e continua ad essere incrementata.

L’attuale collezione, 5 mln e 800 mila esemplari, si è costruita attorno al nucleo del Columbia College (ora Columbia University) un herbarium di 600.000 esemplari, che comprendeva anche l’erbario privato di John Torrey (citato più avanti), depositato nel 1895. Oltre questo consistente lascito la collezione si è via via costituita con l’aggiunta di varie raccolte tra cui quelle degli erbari del College of Pharmacy del Columbia College, dell’Università di Princeton e del Hunter College.

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La serra grande del Botanic garden al Bronx (ph. F. Schiavo)

Aspetto ulteriore è dato dall’imponente programma di esplorazioni promosso fin dalla fondazione del primo Botanic garden del Bronx, dal primo direttore Nathaniel Lord Britton. Ciò ha consentito al giardino di dotarsi, sia di molte specie dell’emisfero occidentale, sia di “native” americane. Fin dal 1897 quando Axel Rydberg guidò la prima spedizione, nel Montana, gli scienziati del giardino intrapresero numerosissime spedizioni in aree sconosciute, soprattutto nelle Indie occidentali, negli Stati Uniti (la parte orientale in una prima fase; la parte occidentale in una fase più tarda) e il Sud America (Brasile, Venezuela, Guaina e Ande). Ad esse ne vanno aggiunte alcune precedenti, condotte in una fase compresa circa tra il 1840 e il 1853: la spedizione dal Mississippi all’Oceano Pacifico; quella del Great Salt Lake; quella del Red River in Louisiana; o quella del Pacifico Nordoccidentale.

Il Giardino aumentò notevolmente il proprio patrimonio anche con l’acquisto di alcune raccolte di collezionisti statunitensi che, dal 1858 al 1888, avevano condotto un’attività senza pari nella conoscenza delle piante negli Stati Uniti occidentali. Furono poi i notevoli scambi tra collezionisti americani ed europei che resero ancora più consistente la collezione, mentre alcuni contributi finanziari, es. quello di Andrew Carnegie, furono determinati nell’acquisizione di erbari privati, come quello di Otto Kuntze [10], nel 1907.

È, inoltre, legittimo affermare che la realizzazione dei Botanic gardens, insieme a numerosi altri processi e fenomeni, che possono essere riassunti nel “viaggio” e nella “conoscenza” delle piante, furono determinanti nella formazione del “paesaggio” americano. Anche in relazione agli esiti prodotti, i report delle spedizioni, e i volumi pubblicati, la diffusione dei risultati influenzò in modo sostanziale le migrazioni interne dei coloni, giunti dal resto del mondo.

Jefferson, in contatto con “riformatori” (attivi, ad esempio, nel campo dell’abolizione dello schiavismo), botanici e naturalisti – come Benjamin Rush, Benjamin Smith Barton, docente presso l’Università della Pennsylvania o Charles Willson Peale [11] – che alla fine del XVIII secolo, tenevano i rapporti con l’Europa, non fu unicamente promotore di grandi iniziative ma fu, in primo luogo, naturalista, botanico autodidatta e giardiniere appassionato, nonché “nodo” di una rete di intercomunicazione che stava iniziando a svilupparsi, i cui esiti furono la rete stessa e il flusso botanico, lo scambio di piante, destinati a trasformare il paesaggio e i patrimoni botanici, sia in America che in Europa.

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Garden book di Jefferson

Durante i suoi viaggi Jefferson, inoltre, acquistò varie piante, tra esse un fico a Marsiglia, che fu funzionale alla propagazione della specie negli States, per talea. Il rimando a tale pianta in alcune delle sue lettere o nel suo taccuino, il Garden book (1766-1824), non è casuale. In entrambi i casi da Jefferson viene magnificato il sapore del frutto, come se fosse stato il più buono del mondo. Si coglie, attraverso questo dettaglio, una passione non solo per il giardinaggio e per l’agricoltura, ma per il Mito dell’Altrove che ancora la cultura Europea rappresentava; potrebbe dirsi che attraverso le sue personali spedizioni in Europa Jefferson avesse vissuto un incantamento simile a quello esperito da autori come Johann Wolfgang von Goethe durante il Grand Tour, ma su esso avesse operato una sorta di raddrizzamento, facendo virare come già detto la cultura europea verso “l’America”.

Il Presidente compì numerose sperimentazioni, in ambito vitivinicolo, incoraggiò la coltura del sesamo per la produzione familiare di olio ed elaborò il progetto, come è noto non fu l’unico progetto di architettura di Jefferson, della sua casa a Monticello, vicino Charlottesville, in Virginia (dove impiantò una delle prime vigne produttive). L’opera mastodontica iniziò nel 1768 con l’edificazione di una casa in stile palladiano e dal coevo giardino i cui progressi erano puntualmente registrati sul suo Garden Book [12], il quaderno prima citato dove egli annotava tutto quanto riguardasse il suo amato impegno come giardiniere, gli intenti, le semine, le acquisizioni botaniche, o gli esperimenti condotti. Un “testo” privo di emozione solo in apparenza.

Monticello, concepito come un aulico parco paesaggistico e agricolo, in cui estetica e utilitas avevano lo stesso valore, era ricco di frutteti, vigneti, e di un orto produttivo dove numerose specie eduli europee trovarono dimora. Durante il suo soggiorno in Europa, Jefferson visitò non solo la Francia, ma anche la Gran Bretagna, l’Italia, il Belgio e i Paesi Bassi. Egli, intrecciando numerose relazioni interpersonali, rimase profondamente colpito dallo stile dei giardini storici italiani, e di quelli all’inglese che superavano e prescindevano dallo sfarzo dei giardini nobiliari seicenteschi e presentavano un requisito innovativo, assai vicino alle idee jeffersoniane: erano ville per tutti [13].

Tra le sue numerose relazioni di ordine culturale una, con Madame de Tessé, zia di Lafayette e appassionata di giardini, favorì nettamente l’incremento degli scambi di specie vegetali, anche per il contatto diretto che il Presidente aveva con i botanici statunitensi che si stavano occupando di istituire le accademie e le cattedre di botanica o di fondare i Giardini botanici e i Musei naturalistici. Dalle storie personali a quelle collettive, nasceva, dunque, un fiume che trasformò i primi contatti in un insieme di rivoli che contribuirono alla costruzione del paesaggio statunitense e alla trasformazione del paesaggio europeo.

Così, tra Parigi, dove Madame de Tessé viveva, e Monticello, iniziò uno scambio di esemplari autoctoni. Dall’America, giungevano nella capitale francese specie come la Callicarpa americana, il Diospyros virginiana, la Calycanthus floridus, mentre nell’eden jeffersoniano, a Monticello, arrivavano semi di alcune piante europee, come l’Helitropium arborescens, i ranuncoli, i cavolfiori, i piselli, i broccoli o i bulbi di tulipani.

La tenuta di Monticello fu venduta dopo la morte di Jefferson (4 luglio 1826), e in seguito donata al popolo americano perché fosse usata come scuola agraria. Il Congresso rifiutò il lascito e per lungo tempo la tenuta fu abbandonata, sin quando il nipote del Presidente ne iniziò il restauro, poi proseguito dalla Thomas Jefferson Foundation, nata nel 1923.

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Tulipani a NYC (ph. F. Schiavo)

Il Network

Come notano Groom, O’Reilly e Humphrey (2014), gli esemplari botanici di un erbario contengono informazioni sulla pianta raccolta, ma anche sul botanico. Dati utili per comprendere i transiti, le attività scientifiche, ma anche per accedere e studiare quanto il sistema di scambi, il network, fu fondamentale nella costituzione dei patrimoni botanici dei Giardini botanici e del paesaggio, dal XV secolo in avanti.

In ogni ambito si organizzava spontaneamente un sistema di reti “locali”, ma esse iniziarono, dalla seconda metà dell’Ottocento, ad avere un respiro globale, quando si incrementarono i contatti tra collezionisti e tra gli Orti e quando, soprattutto in America, iniziarono a fondarsi i Botanic gardens (il primo istituzionale è, come giò affermato, del 1850) e iniziò l’epoca delle grandi navi e delle migrazioni: persone, oggetti, specie vegetali, animali, malattie, si spostavano dal Vecchio al Nuovo mondo.

Le reti, ad esempio quelle afferenti ai numerosi club botanici, erano notevolmente interconnesse, pur in presenza di rivalità interne, e vedevano tra i protagonisti differenti categorie di attori, privati collezionisti, botanici dilettanti, amateur, Direttori di Giardini, società e club di botanica, di cui spesso facevano parte anche accademici e scienziati del settore. Quella fase fu, inoltre, caratterizzata da uno sviluppo, forse è più corretto definirlo “giro di boa”, degli studi di storia naturale, nel 1859, infatti, Darwin pubblicò Origine delle specie opera dirimente che, insieme a ulteriori concause, impresse un segno forte sul sistema scientifico. In quella fase nacquero molti club e società di scienze naturali e botanica, mentre la raccolta, anche amatoriale di campioni, fu incoraggiata dalle novità tecnologiche e dallo sviluppo della rete ferroviaria che consentiva un più facile accesso agli ambiti extraurbani.

Se molti botanici dilettanti erano membri del clero, anche le donne dell’alta borghesia potevano dedicarsi alla disciplina, che era socialmente accettata. All’interno delle società e dei club i collezionisti, con un background sociale abbastanza ampio, scambiavano l’un l’altro i campioni di piante, e cercavano corrispondenti esteri, per attivare scambi bilaterali, che potessero inviare campioni essiccati di specie vegetali non autoctone, comunicando per posta. Spesso tali reti, come dimostrato da varie ricerche, erano caratterizzate da alcuni soggetti che agivano da “nodi” che, come accadde per Thomas Jefferson, contribuivano in modo sostanziale ai flussi delle specie vegetali da un paese all’altro. A questi soggetti, tra essi alcune piccole società [14], si interconnetteva un consistente numero di collezionisti, tra cui alcune donne. Lo scambio dei campioni rivela una rete complessa ma non esaustiva riguardo al macro fenomeno dei Giardini botanici e agli avanzamenti disciplinari; pur restituendo una visione parziale la rete, però, testimonia la vivacità e l’interesse che, destato in quegli anni,  rende chiaro come lo scambio botanico fosse un importante metodo di comunicazione tra scienziati e appassionati: non limitandosi al flusso degli “oggetti”, infatti, i membri del network scambiavano idee, ragionavano sulle attribuzioni, sulla nomenclatura, sulla diffusione e la presenza delle specie sul territorio, costruivano paesaggio.

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Elgin Botanic Garden, NYC

Un aspetto dominante della cultura americana, aspetto che ha numerose ricadute anche oggi, è il dominio dell’empirismo sulla teoria. Affermazione apodittica che andrebbe spiegata, dettagliando le sfumature dei rapporti tra teoria ed esperienza. Ma in questo caso appare funzionale, soprattutto, a mettere in evidenza quanto l’agire sul territorio, spesso a fini produttivi, condusse gli scienziati pionieri protagonisti in America a privilegiare enormemente il sistema delle interrelazioni tra i fenomeni: azione e osservazione coniugate rendevano imprescindibile la lettura dei feedback. In tal senso le collezioni non erano solo elenchi botanici, trascendendo il limite dell’“oggetto” e della tassonomia o della nomenclatura, i semi e le piante erano esseri viventi, “soggetti”. Essi, inclusi nella filiera del capitalismo nascente, dovevano rapportarsi con la vasta geografia, con i differenti climi, con le fertilità dei pedos, con il regime idrico o con le differenti comunità insediate. Fitogeografia, clima e microclima, culture locali, tutto contribuiva a fare anche dei Giardini botanici americani dei laboratori in progress di sperimentazione.

Alcuni di questi giardini, ormai scomparsi, vanno citati per mettere in luce la qualità mutevole delle azioni compiute negli ambiti urbani ed extraurbani della Confederazione e la natura degli intenti degli orti botanici. Tra essi il newyorchese Elgin Botanic Garden, fondato nel 1801 e tra i primi giardini botanici degli States, a Manhattan, NYC, era nel sito oggi occupato dal Rockefeller Center, dove sorse il principale edificio dell’ampio complesso completato durante gli anni ‘30 del Novecento.

Nato per iniziativa di David Hosack, il Botanic garden non riuscì a sopravvivere e venne smantellato, dopo una lunga fase di abbandono. Lo scopo principale del giardino era raccogliere e coltivare piante autoctone, in una prima fase provenienti dagli Stati Uniti, che avessero proprietà medicinali o che fossero altrimenti utili. Nel 1805 il giardino, però, ospitava più di 1.500 specie di piante che venivano da tutto il mondo, alcuni esemplari rari furono forniti da Jefferson. Nel 1806 Hosack pubblicò un catalogo che intendeva essere anche una guida per i visitatori, chiamato A Catalogueof Plants Indigenous and Exotic, cultivated in the Elgin Botanic Garden, in the vicinity of the city of New-York, New York. Il volume conteneva una prefazione e un regesto di piante, corredato da un indice in cui le specie erano catalogate in ordine alfabetico secondo il nome comune, e non attraverso il binomio linneaino, utilizzato nella prima parte del libro. Il parco era recintato da un muro di pietra alto e imponente, all’interno oltre alle due serre, un insieme di alberi, piante e arbusti.

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Una grande serra al Botanic garden, Bronx (ph. F. Schiavo)

Se gli Orti botanici in tutto il mondo “rispondono” anche al clima locale, da questo punto di vista un esempio significativo è Palermo dove anche alcune specie tropicali possono essere coltivate a cielo aperto, è utile sottolineare che l’Ottocento fu caratterizzato dalla costruzione di serre che, tra l’altro, consentivano di coltivare piante tropicali, proteggendole dal rigore invernale. Un esempio significativo è la serra che Paxton costruì nel 1837 per il duca del Devonshire, un modello per la costruzione di numerose altre serre.

Le finanze del fondatore, David Hosack, non erano sufficienti a mantenere l’Elgin Botanic Garden, così questi ne propose l’acquisto allo Stato di NY in modo che si potesse mantenere il ruolo originario. Il giardino fu acquisito dall’Ente statale, e rimase in possesso del NY State sin quando fu posto sotto la direzione del College of Physicians and Surgeons, che poi si fuse con la Columbia University.

Una istituzione permanente, invece, è il New York Botanical Garden (non l’unico giardino botanico a NYC, un altro è a Brooklyn), sito nel Bronx, (101 HA) fu fondato nel 1891, in gran parte grazie agli sforzi di Nathaniel Lord Britton professore di botanica alla Columbia University e della moglie, Elizabeth Gertrude Knight, una importante botanica, pioniera nella ricerca. L’impulso alla fondazione fu dato anche dalle profonde suggestioni indotte dai Kew Royal Botanic Gardens di Londra, il magnifico Orto botanico visitato dai coniugi durante la luna di miele. La ricchezza della collezione, la qualità scientifica delle ricerche portate avanti e l’interesse per quella “rete” di scambi tra istituzioni e accademie botaniche (Europa/America)[15], che già caratterizzava il panorama disciplinare spinse Nathaniel ed Elizabeth ad attivare una campagna di finanziamenti per il primo grande Botanic garden a NYC, chiedendo supporto a magnati come Andrew Carnegie, John Pierpont Morgan, e Cornelius Vanderbilt II.

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Botanic garden al Bronx di NY (ph. F. Schiavo)

È interessante riflettere, anche se solo in poche battute, sulle dinamiche che portarono alla localizzazione del Giardino botanico al Bronx. Tra il 1870 e il 1880 molte città americane, dopo il Central Park (a Manhattan) e il Prospect Park (a Brooklyn), si stavano dotando di giardini pubblici la cui costruzione era caldeggiata dai pochi riformatori sociali, da alcuni urbanisti e dai paesaggisti americani. Nel 1887 J. Mullay, un giornalista del «New York Herald» aveva pubblicato un libro: The New Parks Beyond the Harlem: Nearly 4,000 Acres of Free Playground for the People in cui, analizzando la domanda di parchi in città, mostrava come si sarebbero potuti costruire parchi pubblici, in quelle aree periferiche, oramai incorporate alla Great City of New York, ed esponeva la sua visione per il Bronx, in una sorta di “piano”. Il Bronx, borough assai meno ambito e con una rendita di posizione più bassa di quanto non fosse a Manhattan, era caratterizzato anche da ampie proprietà di influenti famiglie, tra cui i Lorillard e i Bronck rispettivamente (i siti attuali del Giardino botanico e del Bronx Zoo). Nel 1884 in New York State adottò il “piano” di Mullay così, quando Nathaniel Lord Britton ed Elizabeth Gertrude Knight cercarono un sito dove allocare il Giardino, i funzionari della amministrazione locale offrirono i 250 acri di ciò che era ormai diventato il “Bronx Park System”. F. L. Olmsted e C. Vaux realizzarono il primo disegno schematico, ma la morte di Vaux, nel 1895, interruppe il lavoro di progettazione, poi ripreso dallo stesso Britton, assistito da Samuel B. Parsons Jr e John Brinley. Gli Olmsted, successivamente, completarono il tracciato dei percorsi nei primi anni 1920.

Aperto al pubblico nel 1900, il New York Botanical Garden nel Bronx, fu caratterizzato dalla politica del suo primo Direttore, Britton appunto, che promosse un programma di esplorazione botanica ancor oggi attivo, con studi condotti inizialmente in Sud America, con specifica attenzione alle foreste pluviali della costa atlantica del Brasile e ai piedi delle Ande), e in altri continenti.

Attualmente è uno dei principali poli di ricerca botanica e floristica negli Stati Uniti. Possiede una collezione di piante composta da circa 12 mila specie provenienti da quasi ogni parte del mondo; alcuni esemplari sono esposti durante tutto l’anno in un giardino d’inverno che copre quasi mezzo ettaro. Nel giardino si trova anche una delle più grandi biblioteche botaniche del Paese e un erbario di 5.700 mila esemplari essiccati. Vari programmi educativi, alcuni che prevedono l’uso di queste strutture, sono offerti al pubblico.

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Serre al Giardino botanico del Bronx (ph. F. Schiavo)

 I Giardini botanici e la città

Gli States sono ricchi di Giardini botanici e spesso le piante presenti e diffuse anche in ambito urbano, come i ciliegi, sono testimonianza di passaggi, selezioni o di crescenti legami politici, come quelli tra America e Giappone (il dono dei semi di ciliegio risale al 1912), per lunghi anni in stretto rapporto. Esempio di tale relazione la grande quantità di alberi di ciliegio presenti in alcuni Giardini botanici e utilizzati come alberatura stradale in grandi città, come New York City o Washington, D.C. Tra i numerosi giardini giapponesi, un esempio è rappresentato dal Portland Japanese Garden, costruito alla fine degli anni ‘50 per fornire ai cittadini un luogo di bellezza e serenità, e per rinvigorire il legame con il Giappone, dopo la seconda Guerra mondiale. Fu in quel periodo che, nella storia degli Stati Uniti, fu incrementata la fondazione dei giardini giapponesi quale modo per edificare stabilmente interscambi culturali, con alcune eccezioni e un antesignano: il Japanese Hill and Pond Garden, progettato nel 1915 dal landscape designer Takeo Shiota, tale sezione del Giardino botanico di Brooklyn fu il primo giardino giapponese pubblico degli States.

Trascendendo la barriera linguistica ogni visitatore può sperimentare estetica, ideali e valori giapponesi, comunicati semplicemente attraverso la bellezza della natura e l’integrazione tra piante autoctone, quelle naturalizzate e quelle alloctone e incluse nel patrimonio botanico.

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Ciliegio a NYC (ph. F. Schiavo)

Anche a New York City, sia in alcune specifiche aree urbane, sia come alberatura stradale, il ciliegio indica l’arrivo della primavera. In particolare L’urban Brooklyn Botanic Garden organizza a fine aprile il Sakura Matsuri Cherry Blossom Festival, che consente, quando fioriscono i ciliegi, di immergersi nella singolare atmosfera del giardino giapponese, il cui primo nucleo risale al 1915. Anche il Giardino botanico di Brooklyn vanta una storia fatta di quella determinazione che contraddistinse la rapidità nella trasformazione del territorio statunitense. L’area del giardino botanico era, prima della decisione di farne un Orto, una discarica. Nel 1897, un anno prima che il sistema disaggregato degli ambiti urbani, diventasse The Great New York (nel 1898, con l’unificazione dei Five Boroughs)[16], venne varata la decisione di realizzare un altro giardino botanico a NYC, che fu ufficialmente aperto nel 1911. Un ampio spazio (21 HA) e una vastissima collezione costruita nel tempo.

Come sempre accade ai Giardini botanici, soprattutto quelli intra-urbani, anche il Brooklyn Botanic Garden ha avuto un ruolo forte, limitando il consumo di suolo. L’area del giardino, infatti, prossima a Prospect Park, un importante parco urbano progettato da F. Olmsted e C. Vaux (progettisti di Central Park), sarebbe diventata una area densa, sia dal punto di vista residenziale che produttivo. Il primo Direttore dell’Orto di Brooklyn fu Charles Stuart Gager[17], progettista anche del primo impianto[18]. L’originario intento del giardino fu quello di conservare piante native in una iniziale collezione via via arricchita, sostenuta da un nuovo “disegno” nato dalla mano di un architetto paesaggista, Harold Caparn. Questi, tra l’altro, insegnò “Landscape architecture” alla Columbia University, dove insieme a Ferruccio Vitale e Charles Wellford Leavitt, istituì un “Deegree program” per quella branca disciplinare. Nel 1912 Caparn, divenne consulente del Brooklyn Botanical Garden, come architetto paesaggista. Primo, tra i numerosi progetti elaborati in più di trenta anni, egli elaborò il secondo Piano generale di assetto per il giardino (basandosi sul layout iniziale progettato da Olmsted).

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Botanic garden, NYC (ph. F. Schiavo)

L’attuale mission del Giardino botanico di Brooklyn, ma comune agli altri orti nazionali, e concepita in piena integrazione con il compito primario di arricchire le “collezioni”, è «connects people to the world of plants», un intento che orienta l’opera di sensibilizzazione, partecipazione e intervento, in linea con la cultura americana più progressista.

La cultura americana, compreso ciò che attiene l’ambito botanico, per una serie di circostanze e concause è caratterizzata fortemente dalle cosiddette azioni “dal basso”. Tale modalità, non l’unica ovviamente, che interessa pressoché ogni forma di sviluppo e di trasformazione, riguardò anche la sfera botanica. Oltre alla fondazione degli orti, all’istituzione delle cattedre, agli scambi di piante, alle spedizioni coloniali e conoscitive, anche le società private ebbero un ruolo significativo. Tra esse la Torrey Botanical Society fondata, sotto l’egida di John Torrey del Columbia College, nel 1860 da un gruppo di scienziati e appassionati del settore. La più antica tra le società botaniche delle Americhe, la Torrey promosse l’esplorazione e lo studio della vita delle piante, con particolare attenzione alla flora delle regioni circostanti New York City. Tra i membri del gruppo vi furono Nathaniel Lord Britton e sua moglie Elizabeth Gertrude Britton, come già detto fondatori del New York Botanical Garden.

L’attuale scopo dei giardini botanici americani, comune in ogni parte del pianeta – l’essere un museo vivente che interagisca con le città, informando i residenti e i visitatori sull’importanza insostituibile delle piante – trova una sostanziale radice nella vision che già, più di due secoli fa, gli stessi Thomas Jefferson e George Washington avevano concepita, orientata verso il mito del progresso americano, costituito da un uso del  “classicismo” europeo, dall’integrazione tra produzione e benessere, tra estetica, cultura, appropriazione, colonialismo, migrazioni esterne e interne, definizione di identità, e definizione di identità paesaggistica, economia, promozione, conservazione del patrimonio vegetale, oggi inteso in chiave ecologica. L’agire sul territorio, pur conservando la missione fondativa, ha assunto finalmente un ruolo di primo piano nella promozione di “best practices” in forte legame con abitanti e visitatori, in altre parole con la città socialmente e culturalmente intesa.

Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
Note
[1] È utile fornire alcune informazioni sugli scambi biologici tra Nuovo e Vecchio mondo. Dal Vecchio Mondo al Nuovo Mondo, alcuni animali domestici: asino, fagiano, gatto, pollo, mucca, oca, maiale, baco da seta, ape da miele, lombrico; dal Nuovo Mondo al vecchio Mondo: alpaca, lama, tacchino. Alcune piante, dal Vecchio Mondo al Nuovo Mondo: mandorla, mela, albicocca, carciofo, orzo, pepe nero, agrumi, canapa, aglio, cipolla, riso, canna da zucchero, grano, avena; dal Nuovo Mondo al vecchio Mondo: amaranto (grano), avocado, fagiolo, peperoncino, anacardio, coca, peperone, cotone, cacao, mais, manioca, patata, ananas, zucca, patata americana, tabacco, girasole, vaniglia, pomodoro, gomma. Alcune malattie: dal Vecchio Mondo al Nuovo Mondo: peste bubbonica, varicella, colera, influenza, lebbra, malaria, morbillo, scarlattina, vaiolo, tifo; dal Nuovo Mondo al vecchio Mondo: sifilide, peronospera, filossera.
[2] Nello specifico si veda il lavoro di Jared Diamond; sia in Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, che in Collasso, lo studioso offre numerosi spunti di riflessione e apre interessanti e originali prospettive.
[3] In tal senso diventa interessante evidenziare come la storiografia si sia interrogata, in parziale assenza di fonti, sulla quantità di persone che, dall’arrivo degli europei, siano state cancellate: una prima stima, dovuta all’antropologo J. Money (nel 1910) quantificò in circa un mln di persone; stima successivamente riveduta e corretta dalla ricerca di un etnografo, H. Dobyns (nel 1966) che portò la quota a circa 12 mln in una prima fase e 18 mln, in una fase successiva della ricerca.
[4] L’“impianto all’inglese” contraddistingue un giardino paesaggistico, non organizzato secondo quelle geometrie regolari che avevano dominato in precedenza e che avevano dato vita a grandi parchi privati e a imponenti giardini formali. Va sottolineato, inoltre, che l’introduzione, un fenomeno strutturato e complesso in questo saggio solo ripreso in estrema sintesi, del giardino paesaggistico coincise, grosso modo, con l’istituzione del giardino pubblico, cioè un parco anche di grandi dimensioni o un giardino urbano di area più ridotta che veniva progettato e pensato per la popolazione. Si trattò di una “rivoluzione” coeva alle grandi trasformazioni urbane della Rivoluzione industriale, perché sino a quel momento i giardini erano stati appannaggio della aristocrazia oppure erano frutto di interventi privati. Gli Orti botanici, nati in precedenza in Italia (come già detto a Padova, nel 1545) erano inizialmente frequentati e voluti solo da studiosi e da botanici, ma con il tempo l’Orto acquisì un ruolo differente, aprendosi al territorio e aprendo le porte ai visitatori che potevano così compiere una significativa esperienza: conoscenza e bellezza (la conoscenza delle piante e la bellezza della natura). Gli Orti, peraltro, rappresentano appieno il tema delle migrazioni o di quanto le migrazioni potrebbero essere: ogni giardino botanico, infatti, è un universo ibrido che accoglie, secondo la democrazia della natura, piante, fiori, frutti, micro organismi.
[5] La maggiore e prima, in termini cronologici, istituzione medica in Europa. Fondata in epoca medievale, la Scuola integrava vari apporti culturali, istituendo per la prima volta la profilassi e avvalendosi anche di un consistente corpo docente femminile, tra esse una chirurga fondatrice dell’ostetricia ginecologica. L’approccio della Scuola era fondato sulla pratica sperimentale e sull’esperienza; pur avvalendosi di una base teorica e di un lungo apprendistato didattico, privilegiava i principi fototerapici. Il Giardino della Minerva, oggi Orto botanico di Salerno, fu una sorta di antesignano dell’Orto botanico scientifico accademico. Il giardino della Scuola, detto “giardino dei semplici”, fu istituito nel primo ventennio del 1330 da Matteo Silvatico. Egli mostrava agli allievi le specie illustrando le caratteristiche fitoterapiche. Era ovviamente organizzato secondo una classificazione pre linneiana.
[6] I giardini coloniali, sviluppatesi in circa tre secoli, racchiudono un’ampia varietà di stili, declinati in base alla cultura di origine e alle condizioni climatiche dei luoghi dove essi sorsero: un giardino coloniale spagnolo a San Antonio era, infatti, diverso da un suo analogo nel New England. Ciononostante è possibile rilevare alcune somiglianze: piccoli spazi verdi con bordi definiti che separano il giardino dai marciapiedi; integrazione tra bellezza e praticità. Organici e vernacolari non erano organizzati su schemi geometrici rigidi o simmetrici e, in fase iniziale soprattutto, utilizzavano piante autoctone.
[7] Con Linneo si accentua la funzione didattica, utilizzando il metodo da questi predisposto: ad Uppsala e in molti altri Orti botanici europei (tra essi quello di Palermo), ad esempio, le piante sono raggruppate in base al numero degli stami.
[8] Il report di Zebulon Pike (comandante della spedizione) relativo al viaggio fu pubblicato nel 1810. Esso fornì informazioni di base su una regione, ancora inesplorata dai coloni, che stava diventando interessante in relazione all’espansione nel Paese. Le descrizioni delle pianure e delle praterie a Ovest del Mississippi però, piuttosto che favorire le migrazioni interne, generarono una sorta di barriera mentale al successivo insediamento americano in quelle regioni descritte come aride.
[9] La formazione dei grandi imperi coloniali e l’insediamento dei coloni in America, Sudafrica ed Australia mosse interesse per le flore esotiche, soprattutto tropicali. Tale interesse per le spedizioni si sviluppò anche in altri contesti geografici, e furono istituiti grandi giardini botanici, a Calcutta, Colombo, Singapore, Honolulu, Melbourne, Sydney, Rio de Janeiro, Capetown-Kirstenbosch. Si trattò di grandi centri di raccolta, e di nuclei propulsori per la scoperta di una flora non conosciuta. Come ci ricorda Sandro Pignatti, un esempio significativo è rappresentato dal Reale Orto Botanico di Melbourne. «Fondato nel 1846, ben presto qui inizia l’attività di Ferdinand Müller, da poco immigrato dalla Germania, che dal 1857 ne diviene direttore (Kynaston, 1981); infaticabile esploratore delle risorse botaniche del continente ancora quasi sconosciuto, raccoglie le piante, le coltiva nell’Orto, le studia, descrive centinaia di specie nuove, in continuo contatto con i botanici londinesi, soprattutto George Bentham (…), pubblica i primi fondamentali contributi sulla flora australiana.»
[10] Impegnato, tra l’altro, sul tema della nomenclatura botanica, Otto Kuntze, fu un importante botanico tedesco.
[11] In una lettera scritta da Thomas Jefferson, il 20 agosto, 1811, a Charles Willson Peale, il Presidente afferma: «no occupation is so delightful to me as the culture of the Earth, and no culture comparable to that of the garden.» (nessuna occupazione è cosi deliziosa per me quanto la coltivazione della terra, e nessuna coltura è comparabile con quella del giardino). Charles Willson Peale fu un pittore, uno scienziato, un politico, servì le forze armate americane, e fu un naturalista. A lui si deve l’istituzione di uno dei primi musei del Paese, a Philadelphia (il museo conteneva collezioni botaniche, naturali, archeologiche e una collezione di uccelli impagliati, personalmente acquistati dal naturalista). Benjamin Rush fu uno dei founders degli States, fu politico e medico e, tra l’altro, curò, per conto di T. Jefferson la formazione di Meriwether Lewis, uno degli esploratori che capitanò la spedizione di Lewis e Clark; Benjamin Smith Barton, invece, fu un rinomato botanico, naturalista e fu il primo professore di scienze naturali degli States, presso l’Università della Pennsylvania (è utile ricordare che nel 1807 venne inaugurata, con alcune lectures di Barton, la nuova Philadelphia Linnean Society, istituita l’anno precedente a imitazione della Linnean Society di Londra, fondata nel 1788; nel 1814 la istituzione fu fondata a Boston prendendo il nome di Linnaean Society del New England). Discepolo di B. Rush, e vicino a T. Jefferson, fin da giovane Barton, che fu un indiscusso innovatore (la sua opera è basata sulle relazioni tra i fenomeni, fu uno dei primi scienziati a trattare gli habitat vegetali in termini che oggi sono definiti “fitogeografici”; partecipò ad alcune esplorazioni e all’organizzazione di quelle spedizioni conoscitive che caratterizzavano il panorama culturale in quel periodo. Tra gli interessi di B. S. Barton quello per i nativi americani, la cui cultura veniva interpretata ponendo in evidenza le interrelazioni con l’ambiente o con le variazioni climatiche; inoltre egli spese parte della sua carriera accademica ad Edimburgo e a Göttingen, in contatto con la cultura botanica europea. Nel 1803, Barton pubblicò gli Elements of botany, or Outlines of the natural history of vegetables, il primo manuale americano di botanica. A questi protagonisti dovrebbe essere aggiunto un lungo elenco di uomini e donne che portarono avanti la ricerca e la pratica sul campo, tra essi: Addison Brown e John Hendley Barnhart che, oltre a essere un botanico, fu biografo di numerosi colleghi. Barnhart dal 1907 (e per i successivi trenta anni) fu nominato bibliotecario del NYBG (il giardino botanico del Bronx), vd. J. H. Barnhart, “Some american botanists of former days”, in Torreya, vol. 9, No 12, December, 1909.
[12]Vd. “A Record of Thomas Jefferson’s Garden” (1766-1824), testo disponibile al sito: https://www.masshist.org/piselli, object-of-the-month/objects/a-record-of-thomas-jefferson-s-garden-2011-05-01.
[13] Va detto, purtroppo, che per la coltivazione e cura delle sue terre Jefferson si avvaleva di schiavi, gli afroamericani, resi liberi in tutta la Confederazione nel 1865. Va da sé che occorrerebbe interrogarsi sul significato di “per tutti”.
[14] Tali società erano a propria volta interconnesse con le Biblioteche, le Università, le Scuole, strutture come i  Fellows of the Linnean Society, il Royal College of Physicians, il Royal College of Science, i Riksmuseets Botaniska Avdeling di Stoccolma, la  Societe´ Royale de Botanique de Belgique, l’Accademia di Philadelphia of Natural Sciences, il Museo Bergens in Norvegia, l’Università Friedrich Schiller di Jena, il Natural History Museum di Vienna e, o il New York Botanical Garden al Bronx.
[15] Esempio di tale scambio scientifico fu il rapporto tra Joseph Hooker, forse il più importante botanico dell’Inghilterra vittoriana, e Asa Grey, professore di storia naturale ad Harvard, tra le autorità in ambito botanico nell’America del XIX secolo. Accessibile attraverso la lettura della fitta corrispondenza che i due botanici si inviarono, lo scambio tra tali pilastri della disciplina consente di cogliere sia le affascinanti intuizioni relative allo stato di avanzamento degli studi di storia naturale, sia di accedere ad alcuni paradigmi di ricerca sulla distribuzione globale della flora, sulla analisi della stessa anche in base all’interpretazione e alla ricezione degli scritti di Darwin.
[16] Vd. F. Schiavo (2017), Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City, Roma, Castelvecchi editore, 2017.
[17] Anche Charles Stuart Gager va citato tra le persone che contribuirono allo sviluppo non solo degli Orti americani, ma dell’insegnamento della botanica negli States. Egli studiò a Syracuse, spese la sua vita insegnando presso la Rutgers University, la New York University, e dirigendo il New York Botanical Garden di Brooklyn, dove restò per oltre trenta anni. Pubblicò, oltre ad alcune opere sistematiche, anche i risultati relativi agli effetti del radio sulle piante. In contatto con numerosi altri colleghi tra cui tra cui Nathaniel Lord Britton e sua moglie Elizabeth Gertrude Britton, Gager contribuì al radicamento della disciplina e alla diffusione delle “best practices” che hanno visto, sempre più, l’affermazione degli Orti botanici quali attori urbani della partecipazione e della cultura della sostenibilità.
[18] Vd. https://www.bbg.org/about/history.
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Flavia Schiavo, architetto, paesaggista, urbanista, insegna Fondamenti di urbanistica e della pianificazione territoriale presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato monografie (Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004; Tutti i nomi di Barcellona, 2005), numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali e contributi in atti di congressi e convegni. Docente e Visiting professor presso altre sedi universitarie, ha condotto periodi di ricerca, oltre che in Italia (come allo Iuav di Venezia), alla Sorbona di Parigi, alla Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e alla Columbia University di New York. La sua ultima pubblicazione, Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City (Castelvecchi, 2017), è dedicata all’analisi dei parchi e dei giardini storici e contemporanei della Mega City.

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