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Volontariato come stile di vita

volontariatodi Aldo Aledda 

Non posso parlare di solidarietà sotto il profilo esclusivamente teorico come ho fatto altre volte. Non ne avrei le competenze. Mi posso esprimere solo in chiave personale, avendo trascorso gran parte della mia esistenza nell’impegno gratuito e volontario a favore della comunità anche quando le vicende lavorative mi hanno visto dall’altra parte della barricata, ovvero di chi gestiva, finanziava e controllava associazioni e attività di volontari.

Partendo appunto dalla mia esperienza distinguerei tre fasi in cui si dispiega l’impegno quasi esistenziale di una donna e di un uomo e come esso finisca per permearne tutta l’esistenza, quasi si trattasse di una vocazione. Ciò soprattutto in relazione all’associazionismo, ossia a un momento dal profilo organizzativo elementare che, salvo l’impegno occasionale di chi libera le strade da una botta di acqua piovana o aiuta a estrarre chi sta sotto le macerie, comunque sta sempre a monte di queste esperienze.

Una prima fase – se penso anche a me totalmente immerso nell’attività religiosa, sportiva, artistica, culturale e politica – è quella per così dire “giovanile”, che si manifesta allo stato più puro perché caratterizzata dallo slancio generoso, dall’“amore per il prossimo” in senso non solo cristiano, dagli ideali genuini e dalla passione civile per alcuni temi tanto che l’unico scopo della propria vita sembra essere di salvare il mondo. L’energia e la freschezza dell’età consentono di onorare i conseguenti impegni con una gratuità e un’esclusività che va a scapito anche degli obblighi di stato come quelli familiari e scolastici.

Ne consegue un’esistenza in cui gli aspetti materiali appaiono assolutamente secondari, fatta quasi di mera sopravvivenza con paghette, lavoretti, piccoli rimborsi spesa, chi ce la fa con borse di studio, e così anche nella vita sociale si riesce a trovare quel minimo di ricreazione e di sano divertimento grazie alle classiche pizzate e alle cene di fine anno mentre i viaggi e le trasferte costituiscono, a seconda della natura dell’attività, un autentico lusso. La scarsa importanza attribuita alle forme caratterizza, infine, questa fase in cui la sostanza finisce per essere l’unica cosa dotata di senso. Da qui anche il relativo disinteresse, per esempio, se non da parte dei più ambiziosi, di raggiungere i vertici dell’organizzazione. E ciò perché si ritiene che la squadra, il gruppo costituisca la vera chiave del successo.

Così, mentre ci si chiede se un siffatto dispiegamento di energie e di tempo possa giovare a chi è impegnato, capita che l’esperienza comunque insegni che a una prima parte dell’esistenza spesa così intensamente in nome di questi ideali per quasi tutti incontra un limite, che è rappresentato dalla ricerca del proprio ruolo nella società soprattutto in termini di assunzione di responsabilità familiari ed esigenze di realizzazione professionale. Ed è qui che nasce una diversa visione del volontariato, nel senso che nel passaggio dal primo al secondo status esso può essere in qualche modo attenuato o vissuto diversamente. Penso soprattutto alla mia generazione fatta da chi, pur avendo grazie alla laurea la possibilità di scegliere tra una professione privata e una pubblica, decideva di optare per quest’ultima perché più che nella prima intravvedeva una continuità con l’impegno politico e sociale che aveva caratterizzato la fase precedente della vita.

Analogamente ho potuto constatare come una folta schiera di lavoratori del pubblico impiego provenga da codesta esperienza continuando a mantenere la mentalità del volontario. La molla è data soprattutto dalla convinzione che se la vocazione al servizio non anima più l’impegno quotidiano l’esito sarà solo un’azione guidata dagli aridi risvolti burocratici. Con questa nuova veste la mentalità volontaria e gratuita si dispiega principalmente in due direzioni. Una prima verso l’esterno, come ho accennato, quando l’operatore del servizio pubblico riesce a considerare l’utente non come il mero numero di una pratica o un cognome e nome cui applicare leggi e regolamenti immettendolo il più delle volte in un labirinto di trappole burocratiche e giri viziosi nei quali verosimilmente si perderà, ma preferisce vederlo come una persona, magari impegnata nella società, a maggior ragione quindi meritevole di essere sostenuta anche interpretando in modo a lui favorevole leggi e regolamenti e ricercando le vie più rapide per giungere al risultato.

Vi è poi un volontariato rivolto all’interno della struttura che si esercita nel quotidiano. Che è quello più controverso. Se ci riferiamo al lavoro pubblico, si sa, esso è caratterizzato da una notevole rigidità di ruoli e di competenze frutto di esigenze garantiste, di accordi sindacali e di sfiducia del legislatore nei confronti del potere politico e dirigenziale che vi domina. Allora, poiché è difficile stabilire esattamente in ogni momento quali sono i confini tra i compiti stabiliti dalle norme e i contenuti effettivi, non di rado si viene a creare un’area grigia che rischia di compromettere tutta l’attività, cui si può ovviare solo con un supplementare impegno volontario. Che non a caso varia a seconda del background di ciascuno.

Foto di John Hain (da Pixabay)

Foto di John Hain (da Pixabay)

L’esperienza mi insegna, per esempio, che chi viene precipitato nel lavoro direttamente dalla vita scolastica o da un’esistenza trascorsa esclusivamente nella cerchia familiare e per il quale il tempo libero ha sempre significato solo attività ludiche, verosimilmente andrà ad alimentare la schiera di chi sul posto di lavoro è spinto a trincerarsi prevalentemente dietro le procedure e vede l’utente come un fastidio da sopportare fino all’agognato ventisette oppure come uno stress test indispensabile per avanzare nella carriera affinandosi nell’esercizio del sadismo amministrativo. Viceversa, chi proviene dalle file del volontariato è più probabile che non solo rientri in quella tipologia di public servant anglosassone che si prodiga a andare incontro all’utente rendendogli più agevole il rapporto con il servizio pubblico – cosa che in Italia non si riesce mai a attuare –, ma si adopera anche a costituire un quadro che all’interno della struttura si darà da fare in tutti i modi per farla funzionare adeguatamente, migliorandone il clima, coprendo buchi e carenze, sostituendo e supportando colleghi e prestandosi a svolgere mansioni e funzioni non strettamente legate alla sua figura professionale ma per le quali non si trova in quel momento chi possa volgerli.

Naturalmente ciò vale anche per il lavoro privato, soprattutto nella misura in cui le aziende di grandi dimensioni non si discostano in fatto di procedure e norme di funzionamento da quelle pubbliche, ma che a differenza delle ultime hanno il vantaggio di poter chiedere ai propri dipendenti di prestarsi a svolgere svariati ruoli. Credo che su quest’ultimo aspetto nel settore pubblico la riflessione politica e sindacale sia ancora troppo ancorata a esigenze di retribuzione di straordinari o di attività che travalichino le mansioni di base del lavoratore, ignorando l’esempio giapponese in cui la realizzazione sul lavoro in funzione dell’avanzamento della collettività costituisce una gratificazione maggiore della contropartita economica.

Vi è poi una terza fase che potremmo definire di natura più politica. Questa compare quando, per i ruoli ricoperti nella società e nel mondo del lavoro e in nome magari di antiche passioni, a un individuo si offre di assumere incarichi prevalentemente dirigenziali in organizzazioni di volontariato che si ritiene saranno più valorizzati dal poter contare su soggetti con specifiche competenze amministrative e relazionali. Ciò – a parte il fatto che ai massimi livelli qualsiasi organizzazione necessita sociologicamente di tratti professionali – spiega perché presidenti o amministratori di codesti sodalizi siano scelti in larga misura tra coloro che provengono dall’attività politica o dall’alta amministrazione pubblica, sia pure con precedenti esperienze di volontariato. Non a caso il fenomeno lo si osserva di meno in quelle organizzazioni ai cui vertici ci si avvicenda per progressioni interne, come accade laddove la prestazione volontaria convive con tratti di semiprofessionalità o addirittura di totale professionalità ai massimi livelli (che si cerca di compensare in quelli inferiori con altri vantaggi, per esempio i distacchi sindacali) come nel caso delle Ong e di quelle di derivazione sindacale e confessionale in cui è più facile fare “carriera”. Ed è forse qui che il quadro si complica maggiormente. Ma anche per tutta un’altra serie di ragioni.

Intanto perché può accadere che nel transito all’attività lavorativa retribuita i volontari di un tempo si siano trovati a maturare una mentalità prevalentemente burocratica e orientata a un rispetto acritico delle regole che mal si concilia con quella più aperta che presentavano il tempo in cui erano giovani volontari e che ancora continua a caratterizzare la base delle organizzazioni che sono chiamati a rappresentare e dirigere. Ne consegue un distacco o quanto meno una congenita incomprensione tra il vertice e la base giovanile che aderisce per puro spirito di servizio e che non mostra altrettanta passione per la redazione di bilanci, documenti, direttive, partecipazioni a gare, richieste di contributi, ecc., adempimenti peraltro necessari per la sopravvivenza delle stesse organizzazioni e sembrano appassionare soprattutto i “vecchi”. Che quest’ultimo aspetto della mentalità strida, e sia destinata ad avere conseguenze, con quelle che manifesta chi, sul versante dell’amministrazione che controlla, gestisce e finanzia, lo si vede osservando attentamente la nuova legge sul volontariato in Italia (per inciso, talmente fatta bene che non riesce mai a decollare). Infatti, a meno che non si creda che questa sia il parto di solitari burocrati e loro consulenti all’interno di qualche saletta ministeriale, ma piuttosto che segua l’iter di quasi tutte le leggi dietro la cui redazione si cela sempre l’azione di lobby, gruppi di pressione, ordini professionali, anche in questo caso non è difficile scorgere in filigrana l’opera dei suggeritori che hanno l’obiettivo conscio o inconscio di complicare l’esistenza di un sistema associativo, cui magari solo pochi (“preparati”) devono sopravvivere, e che anche il codice civile era riuscito a trattare in modo più comprensivo. Se così fosse è chiara la minaccia alla funzione del volontariato. Che peraltro appare complicata da fenomeni più vasti.

campo-a-rixensart-belgioIl problema che presenta oggi il mondo dell’associazionismo e del volontariato, oltre all’azione di disturbo e di disequilibrio dell’improprio intrecciarsi e convivere di elementi di professionalità con altri di volontariato cui accennavo sopra, è il disamoramento dei giovani che, a meno non siano cooptati tra i più ambiziosi o tra i sodali, mostrano una minore affezione per queste organizzazioni per il fatto che all’interno di esse trovano sempre meno ideali da coltivare mentre crescenti tratti di carrierismo e di burocrazia sembrano rendere più accidentato il percorso. E allora, se a un giovane va bene lavorare per un’organizzazione di ambulanze fintanto che si tratta di arrecare un primo soccorso, per il resto coltiva l’idea, per esempio, che è meglio stare alla larga dai vertici amministrativi. Ma se un’organizzazione di volontariato non è alimentata a livello di vertice dalla stessa componente volontaria che ne costituisce la base e la qualifica, quali sviluppi potrà avere? E anche, quale credibilità? Qualche anno fa fece scandalo in Gran Bretagna la notizia che alcuni direttori generali di importanti Ong erano andati in pensione con liquidazioni da direttori di banca.

Questi problemi sono accentuati dalle oggettive condizioni della vita moderna che condizionano la disponibilità delle giovani generazioni. Per prima cosa l’impegno in questo campo, aldilà della fase giovanile, è favorito in una certa misura dalla scissione tra lavoro e tempo libero tipico della società moderna anche in momenti distinti tra mattina e pomeriggio, per esempio, laddove i proventi dal primo sono stati quasi sempre sufficienti a garantire la solidità esistenziale della persona per cui la seconda parte della giornata poteva essere dedicata volentieri all’aiuto degli altri o ai diversi ambiti dell’attività associazionistiche. La moderna evoluzione che vede soprattutto le giovani generazioni impegnate senza limiti o schemi temporali in qualsiasi attività o a svolgerne più di una per mettere insieme una retribuzione decente per vivere, favorisce il formarsi di una mentalità utilitaristica che rappresenta un serio ostacolo a dedicarsi all’attività di volontariato in modo serio e continuativo, soprattutto se non si hanno forti motivazioni interiori.

Un altro fenomeno è la crescente professionalizzazione di questo tipo di impegno. Una ragazza di mia conoscenza ebbe ad accettare un impiego volontario nella Croce Rossa solo perché era sicura che dopo un certo periodo sarebbe stato retribuito. E così pure avvenne. In realtà non pochi giovani sono interessati a farsi coinvolgere nelle attività di volontariato a condizione che esista un possibile sbocco lavorativo, soprattutto se si opera in associazioni semiprofessionali. In subordine pensano di avere la possibilità di coltivare un ventaglio di relazioni in funzione di una futura attività retribuita. Non a caso queste opportunità spesso deprimono o limitano la dedizione di tipo volontaristico e determinano la contrazione del numero di associazioni impegnate in questi campi.

Personalmente ho partecipato e studiato il fenomeno dell’associazionismo sportivo, che è il più imponente al mondo; questo mi ha dimostrato con quali modalità possa esercitarsi la capacità di attrazione dei modelli superiori rispetto a quelli sottostanti. Oggigiorno, infatti, le società sportive cosiddette dilettantistiche, che solo venti/trenta anni fa erano ispirate al puro volontariato devono fronteggiare la spinta dei propri quadri intermedi (allenatori, istruttori, direttori tecnici, segretari) a vedere la loro prestazione in qualche modo retribuita dalle casse dell’associazione mentre i livelli presidenziali sono occupati da mecenati e imprenditori che grazie alla visibilità dagli obiettivi estremamente pratici che possono derivare dal dirigere una società di calcio locale o di un qualsiasi altro sport in cui si distingue il territorio possono essere conosciuti da tutta la popolazione e non solo dai loro clienti, e quindi diventare sindaci, consiglieri regionali o deputati nazionali. In questo caso il modello destinato a esercitare una maggiore attrazione anche ai livelli inferiori non è più lo sport decoubertiniano ma quello utilitaristico sull’esempio dei grandi club professionistici (a maggior ragione quando in settori giovanili costituiscono una branca di questi ultimi) in cui impera la logica dello Show Business. Il risultato è che tutte le grandi federazioni sportive anche in Italia segnalano un significativo calo delle affiliazioni e avvertono la persistenza di una classe di dirigenti molto avanti negli anni e chiaramente appartenente ad altre generazioni mentre i giovani si tirano indietro nel caso in cui sia richiesto di gestire le attività.

2Un altro fenomeno destinato a incidere sull’esistenza e la continuità del volontariato è quello finanziario, per risolvere il quale chi opera in questo campo è costretto a girarsi e rigirarsi da tutte le parti. Alcuna organizzazione di volontariato è in grado di sopravvivere con le sole quote sociali o con gli introiti di chi eventualmente usufruisce dei servizi, come nello sport e in altri ambiti culturali caratterizzati da quote di iscrizione per apprendere uno sport o un’arte o dagli introiti della bigliettazione e grazie alle eventuali sponsorizzazioni delle manifestazioni. Oggi è divenuto determinante il sostegno pubblico, che comunque indirettamente genera e alimenta aspettative professionali o semiprofessionali. In base al principio del gatto che si morde la coda, il tradimento di queste aspettative da parte delle esauste casse pubbliche costituisce una ragione fondamentale per cui attività che si fondano anche su prestazioni di servizi, come quelle culturali e sportive,  implicano la retribuzione delle esibizioni quando sono fatte da professionisti, obblighi che comportano costi sempre più elevati di allestimento e di trasferte o di acquisto di attrezzature tali da che contribuire alla morìa delle attività.

Anche il volontariato delle istituzioni religiose che sembra fondarsi su basi materiali più solide garantite dalle relative case madri, necessita del sostegno pubblico, soprattutto nella misura in cui opera in funzioni di supplenza dell’intervento statale. Qui alla fine si è costretti a razionalizzare, imporre tagli e risparmi se non addirittura a chiudere branche di attività. D’altro canto, la stessa esigenza e la richiesta della società politica e delle istituzioni al mondo del volontariato di assicurare e moltiplicare il proprio impegno soprattutto in coincidenza con le calamità naturali, e la prova che questo fornisce in quelle circostanze, vanno tutte nel senso del sostegno pubblico all’impegno civile e volontario. Salvo, poi, rendersi conto che a questo non possono fare fronte le stesse istituzioni che lo richiedono per i suaccennati limiti finanziari. E così il gatto continua a mordersi la coda.

Il nodo, a questo punto, è costituito proprio dall’intervento pubblico, che promette sempre di regolare e potenziare il settore ma non lo fa mai. I piani alti della politica e delle istituzioni, in cui si rendono omaggi e tributi ai volontari, sono finora riusciti a elaborare accorgimenti che sembrano fatti apposta per farli finire nelle grinfie della burocrazia e nelle maglie del fisco, magari solo per raschiare il fondo del barile. Altrove il sistema, come quello americano delle Charities, appare più in grado di raggiungere obiettivi sociali e culturali, giacché chi fa del volontariato può scaricare tutte le spese nella dichiarazione dei redditi. Il risultato è un gran numero di milionari, da Bill Gates alle fondazioni degli ex Presidenti, che si prodiga negli aiuti umanitari, in soccorso dei più deboli e più sfortunati del mondo, nelle attività di rilevanza sociale, ecc. In Italia la solita preoccupazione di neutralizzare il più furbo si risolve come al solito nello sparare sul mucchio. Basta leggere le disposizioni normative sul Terzo Settore.

Posto che lo Stato moderno, pretendendo di accollarsi di tutti i problemi della società e  impegnandosi a provvedere di conseguenza, ha permesso  che si creasse un sottile equilibrio tra le promesse e le aspettative (il vecchio che dalla cantina invasa dall’acqua dell’alluvione grida “aiutatemi” ma il numero dei pompieri è insufficiente), sa anche che la sua rottura rischia di compromettere le stesse finalità sociali delle istituzioni. Infatti, l’impegno volontario della cittadinanza nei diversi ambiti sociali nasce con le istituzioni pubbliche, e spesso prima di esse. Noi oggi siamo abituati alle nazioni moderne che si accollano tutti i problemi della collettività, dalla culla alla bara, come si diceva, ma non è stato sempre così. Prima che sorgesse l’entità statale come la intendiamo noi oggi, gli Stati sovrani si occupavano solo di garantire l’ordine pubblico, difendere i confini (per quanto non fossero sempre definiti) e fronteggiare i gravi problemi di sanità pubblica. Il resto era affidato alla solidarietà del vicinato, che si raccoglieva per spegnere gli incendi, si occupava dei malati, seppelliva i morti e, fino all’epoca medievale, provvedeva anche alla difesa dei piccoli borghi e a ricercare e perseguire i delinquenti. Da lì gli istituti degli eserciti volontari, delle aggregazioni di cittadini che ricercavano i criminali da cui nacque rispettivamente la coscrizione obbligatoria e le giurie popolari con i più saggi che amministravano la giustizia. Una svolta la si ebbe con lo sviluppo del cristianesimo che, coerentemente con i propri principi umanitari, organizzò strutture filantropiche per tutte le attività caritative e di assistenza dei più poveri e degli ammalati, ponendo così le basi dello stato sociale.

http://www.dreamstime.com/royalty-free-stock-photography-top-famous-non-governmental-organizations-ngo-logos-icons-collection-vector-most-popular-white-tablet-rusty-wooden-image65630947Queste brevi riflessioni ci portano a chiederci perché tra le istituzioni e le organizzazioni di volontariato esista una continua tensione e una sorda polemica, come oggi vediamo nel caso delle Ong impegnate a salvare i migranti in mare. Una ragione, che sta alla base anche delle buone intenzioni che si hanno quando con disposizioni normative apposite si intende regolare meglio l’attività di volontariato nei vari campi, è che al loro interno queste tradiscono la sfiducia del professionista nei confronti del dilettante, del soggetto istituzionalizzato nei confronti di quello che si muove quasi anarchicamente, che si vede per esempio nelle calamità naturali quando la protezione civile dopo aver incanalato (se vogliamo giustamente) le risorse del volontariato subito dopo le invita a sgombrare il campo lasciando lo spazio ai professionisti.

Certamente le organizzazioni del volontariato hanno la tendenza a interpretare in modo ampio il proprio campo d’azione, come capita oggi con le Ong che acquistano e impiegano navi per salvare i migranti in mare fino al punto di irritare i governi locali e le istituzioni preposte oppure come i gruppi che si occupano dei cambiamenti climatici che tendono costantemente a interferire con la sfera politica, a tacere delle organizzazioni di volontariato, come quelle sportive e religiose, che rispondono a ordinamenti extranazionali che spesso entrano in conflitto con quelli dei Paesi in cui operano. A ciò va aggiunto che su questi fuochi soffiano le contrapposte formazioni politiche allo scopo di accrescere il consenso.

Cosa si può concludere a questo proposito? Senz’altro che lo strumento del volontariato è indispensabile per tenere elevata la risposta ai problemi sociali, assistenziali e di protezione civile che impone un Paese moderno. Rinunciarvi sarebbe solo masochismo politico. L’offerta volontaria va indubbiamente regolata nel suo impiego dalle strutture pubbliche che la richiedono, ma nel contempo vanno sorvegliate le competenze di chi agisce per conto di queste ultime. Il volontariato costituisce il più delle volte l’incontro tra un’umanità sofferente e bisognosa e un’altra, prevalentemente sul versante giovanile, generosa e disponibile. Questo rapporto va rispettato, incoraggiato e promosso e non preso in considerazione solo nelle emergenze o quando lo Stato non potendo essere presente ci rimette la faccia. 

Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
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Aldo Aledda, studioso dell’emigrazione italiana con un’ampia esperienza istituzionale (coordinamento regioni italiane e cabina di regia della prima conferenza Stato-regioni e Province Autonome -CGIE), attualmente è Coordinatore del Comitato 11 ottobre d’Iniziativa per gli italiani nel mondo. Il suo ultimo libro sull’argomento è Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche (Angeli, 2016). Da attento analista del fenomeno sportivo ha pubblicato numerosi saggi e una decina di libri (tra cui Sport. Storia politica e sociale e Sport in Usa. Dal big Game al big Business, finalisti premio Bancarella e vincitori Premio letterario CONI); ha insegnato Storia all’Isef di Cagliari e nelle facoltà di Scienze motorie a Cagliari, Roma e Mar del Plata in Argentina.

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