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Vivienne Westwood. Punk, Icona, Attivista

docufilm_vivienne_westwood_icon_punk_activistdi Laura D’Alessandro

Il mio dovere è comprendere. Comprendere il mondo. Questo è il prezzo da pagare per la fortuna di essere vivi. Grazie alle persone che sono vissute prima di noi possiamo riscoprire diverse visioni del mondo tramite l’arte – questo è il vero significato della cultura – e, attraverso il confronto, formarci la nostra idea di un mondo migliore di quello in cui viviamo, e che abbiamo devastato.

Possiamo cambiare il nostro futuro. Nella ricerca di nuove idee comincerai a pensare, e questo cambierà la tua vita.

E se cambi la tua vita, cambi il mondo.

Vivienne Westwood, 2014. 

«Quello che dovresti lasciarmi fare è non farmi domande. Dovresti invece farmi parlare liberamente. Sarebbe troppo noioso altrimenti».

È la stessa Vivienne Westwood, con le sue decise parole, che apre il docufilm a lei dedicato: Vivienne Westwood. Punk. Icon. Activist, della regista Lorna Tucker [1]. Si intuisce subito con chi si ha a che fare. Attraverso materiali d’archivio, filmati inediti e la sua testimonianza diretta, la Westwood si racconta e racconta non solo la storia di una donna eclettica e ribelle, ma anche la genesi e lo sviluppo di un cambiamento culturale e sociale che attraverso la moda, la musica e la grafica, ha segnato un’intera generazione. E lei ne è stata attiva protagonista. Sicuramente dalla sua storia emerge il profilo di una donna forte e combattiva che ha saputo lottare senza sosta per l’integrità del suo talento, del suo brand, dei suoi princìpi e della sua eredità. Non solo, dunque un’icona della moda.

La sua fama è stata tale che nel 1992 la Regina Elisabetta II l’ha insignita dell’OBE – The Most Excellent Order of the British Empire [2], prestigioso titolo di Ufficiale dell’Eccellentissimo Ordine dell’Impero Britannico. Quella stessa Regina Elisabetta che la Westwood aveva richiamato sulle magliette (di culto ormai), ritraendola con la bocca cucita e tenuta ben chiusa con una grossa spilla da balia. Evidentemente con il titolo che le conferiva, la Regina Elisabetta mostrava di non portare alcun rancore per quella spinta rappresentazione. Qualche anno più tardi dichiarò, infatti, che le stravaganze della Westwood la divertivano molto.

Lo stesso logo del brand Westwood evoca la monarchia inglese con il cosiddetto Orb Logo, che rappresenta il globo della sovranità inglese la cui fonte di ispirazione è lo stemma della Corona, realizzato nel 1661 in occasione dell’incoronazione e della salita al trono di re Carlo II. Il globo è circondato dagli anelli dell’ultimo pianeta visibile a occhio nudo, Saturno, a simboleggiare un viaggio nello spazio, lo sguardo verso ciò che sarà, verso quello che non si conosce, simbolo del progresso e del domani. Emblema del tempo che scorre e delle nuove idee che nascono sempre dal passato.

orb_logoIl Giorno dell’Incoronazione di Elisabetta II, il 2 giugno del 1953, pioveva in tutta l’Inghilterra compromettendo le tante celebrazioni in programma e le feste di piazza. La venticinquenne Elisabetta di Windsor fu incoronata Regina e la dodicenne Vivienne, che aveva appena iniziato a frequentare la Glossop Grammar School, partecipò sotto la pioggia alla cerimonia del tè che si tenne alla sua vecchia scuola a Tintwistle. Poi l’intera famiglia, insieme a dozzine di altre persone, si trasferì in una casa poco distante: l’unica casa in cui c’era una televisione. Come un’intera nazione di “neoelisabettiani”, si accalcarono intorno a una nuova intrusione domestica, la tv, appunto, per assistere all’antica cerimonia che si teneva a Westminster. Quelle immagini ebbero un profondo effetto su Vivienne, così come la scuola filomonarchica che frequentava. Le tendenze e i look degli anni Cinquanta pervadono tutte le sue creazioni. Così come le immagini dell’“inglesità” e della regalità, che risalivano a un momento particolare della storia culturale britannica.

Tutta la retorica di Churchill riguardo a una nuova era di speranza e di aspirazioni aveva effetti di potente risonanza, ma spesso i messaggi visivi, teatrali, perfino ritualistici, risultavano decisamente più immediati da percepire. L’antica cerimonia dell’incoronazione, della vestizione e dell’unzione trasmessa in technicolor negli anni Cinquanta e incentrata su una cerchia di giovani debuttanti vestite in modo eccessivamente formale e su una regina venticinquenne, lasciò un segno profondo nella giovane Vivienne. Al punto che le suggestioni di quel periodo l’hanno sempre spinta a giocare, in qualche modo, con l’immagine della regalità, della tradizione, della storia e dell’aristocrazia a partire dalle magliette con la scritta “God Save the Queen[3], alle sue collezioni di abiti Harris Tweed e Anglomania, fino ad arrivare al globo che è poi diventato il logo della sua azienda, appunto. L’Incoronazione fu come un’esplosione di colori vibranti gettato sul grigiore scialbo dell’austerità britannica. Ma fu anche un momento incentrato sugli abiti, sulla cerimonia e su una Regina. Forse era inevitabile che concorresse a creare questa visione che Vivienne aveva del mondo, e che divenisse immagine e metafora di ciò che andava imparando: l’unicità dell’essere britannici, e dell’essere donna [4].

god_save_the_queenNel corso della sua carriera le sono stati assegnati altri prestigiosi riconoscimenti. John Fairchild del WWDWomen’s Wear Daily [5] nel 1989, la inseriva tra i sei stilisti più influenti al mondo nella pubblicazione Chic Savages , dove si leggeva «Tutta la moda è appesa a un filo dorato che sono loro a tenere tra le mani». E aggiunge «Vivienne Westowood è una stilista per stilisti, tenuta d’occhio dai creatori intellettuali ed eccentrici, […] copiata perché è l’Alice nel Paese delle Meraviglie della moda, con quei vestiti meravigliosamente folli». All’epoca la Westwood era l’unica tra i “sei eletti” a non essere multimilionaria. Oltre ad essere l’unica donna del gruppo.

La dichiarazione di Fairchild risultava ancora più significativa se si considera che il debutto in passerella avveniva solo otto anni prima, nel 1981 con la collezione “Pirate” elaborata dalla stilista insieme al suo socio d’affari e allora compagno, il manager musicale Malcom McLaren, l’ideatore della band Sex Pistols [6], band di culto dell’era punk. La Westwood si cimentava con la moda già dal 1971, seppur nelle retrovie, intenta a forgiare quella sottocultura punk che sarebbe esplosa alla fine degli anni Settanta.

sex_pistols_bandA lei si deve una conquista importante: attraverso le sfilate delle sue creazioni ha fatto conoscere al mondo la moda della controcultura, dell’avanguardia. È per tale motivo che nel 1989, a quasi ormai vent’anni dal debutto ufficiale, aveva al suo attivo appena una dozzina di collezioni. Eppure con la forza dirompente e innovativa delle sue estrose creazioni ha modificato radicalmente il settore.

È stata, inoltre premiata per cinque volte ai British Fashion Award [7], tra cui due volte come Designer of the Year, nel 1990 e 1991. Il premio è assegnato dal British Fashion Council [8], un’istituzione molto importante nel campo del design britannico.

«Non ho mai pensato di essere una fashion designer. Mi sono semplicemente considerata una combattente per la libertà».

L’approccio alla storia della moda

Vivienne Westwood, è sempre stata pronta a ribellarsi alle convenzioni anziché seguire i capricci e i trend stagionali. Maturò lentamente le proprie idee perfezionando tecniche e linee attraverso collezioni che replicavano temi, ossessioni e motivi a lei molto cari. Spesso anche in modo contraddittorio. I suoi rivoluzionari abiti decostruiti, di fine anni Settanta e anni Ottanta, lasciarono il posto nel decennio successivo, a capi sartoriali e abiti da sera di una complessità mozzafiato. Aveva la capacità di sorprendere tutti per la carica innovativa e l’audacia di cambiare radicalmente le sue creazioni. E ciò grazie allo studio minuzioso e continuo al passato.

Vivienne Westwood

Vivienne Westwood

Si è, infatti, dedicata a lungo e in maniera certosina, alla storia della moda fin dalle sue origini. Il soggetto l’ha sempre affascinata. Se mai si fosse interessata alla moda contemporanea – dubbio legittimo, vista la singolarità del suo lavoro – sarebbe stato solo per mettere in discussione le nozioni convenzionali di modernità e di bellezza. L’innovazione costante basata sullo studio del passato è una caratteristica di Westwood e dei suoi metodi di lavoro. Vivienne non aveva ricevuto una vera e propria formazione tecnica. All’età di quasi diciassette anni, si era diplomata alla Glossop Grammar e poi era entrata nella Harrow Art School (come le aveva suggerito un suo insegnante) ed era finita in un corso per fabbricare gioielli artigianali e lavorare l’argento. Questa restava la sua unica formazione professionale nel campo del design. Se per qualcuno poteva dirsi una formazione di base e poco specialistica, per Vivienne fu un’opportunità da esplorare che lei ha sapientemente trasformato in un’opportunità perché le ha permesso di scoprire negli abiti antichi le strategie del mestiere.

Quando, dunque, la moda si è lasciata ammaliare dal minimalismo, la stilista si è messa a disegnare collezioni barocche piene di eccessi; quando, a metà degli anni Ottanta, si è imposta un’immagine di donna forte, mascolina e ricca, lei si è fatta paladina di uno stile alternativo, con abiti dalle curve morbide e dalle spalle arrotondate. Quando a metà degli anni Novanta altri stilisti ne seguirono l’esempio con abiti decostruiti, orli sfrangiati e tessuti strapazzati, lei era già passata ad altro, alla sartorialità, alla forma e a un recupero della haute couture francese. Un cambio di rotta radicale che rivoluzionerà ancora una volta il settore, anche se Westwood non se ne era forse nemmeno accorta. Da sempre innamorata dell’estetica di altri tempi, dalle tuniche della Grecia classica all’alta moda parigina anni Cinquanta passando per i tagli e i guardinfanti del periodo Tudor, non si è mai curata del lavoro dei suoi contemporanei al contrario di loro [9].

Nell’introduzione al volume Challenges of Plastic [10], la Westwood analizza la moda britannica ripercorrendo i passaggi più significativi che storicamente ne hanno determinato lo sviluppo negli anni e che le hanno conferito un’identità precisa e riconoscibile. Una moda che ha sempre posto l’accento sulla semplicità di intenti e di effetto caratterizzata da un taglio e una vestibilità che ha ben saputo coniugare l’eleganza alla praticità.

libro_challenges-of-plasticIl presupposto di partenza è che la persona elegante esprima nell’abbigliamento la propria inconfondibile individualità, ma in modo tale che i suoi abiti passino inosservati. Questo approccio riassumeva in sé la sottile eleganza delle sartorie su misura di Saville Row [11], la storica via del confezionamento di abiti più elegante d’Inghilterra che hanno dato alla Moda Britannica il suo inconfondibile marchio. Savile Row, è situata a Londra nel quartiere Westminster. Qui, già alla fine del 1700 si moltiplicavano i sarti e all’inizio del 1800 Savile Row godeva di grande considerazione per la creazione di abiti da uomo. Case sartoriali come quella di Huntsman avevano la nomea di essere i leader degli abiti su misura. Il re Edoardo VII e la regina Vittoria si fecero confezionare abiti proprio nella prestigiosa via. Anche Winston Churchill ricorreva alle abilità dei più prestigiosi sarti della storica via. Così come anche personaggi famosi del cinema e della musica, i Beatles, Katherine Hepburn e Mick Jagger, si affidavano alla elegante manifattura delle storiche sartorie.

Il tocco di eleganza britannico è stato tale che, già a partire dal diciassettesimo secolo, la moda in Francia ne era ripetutamente influenzata al punto che il termine “Anglomanie” entrò a far parte del vocabolario francese. L’abbigliamento ricercato e pomposo era, in Francia, il segno caratteristico delle classi sociali elevate, mentre in Inghilterra la vita di società si svolgeva nelle tenute di campagna, piuttosto che a corte. Per questo motivo l’abbigliamento alla moda era dunque più semplice e pratico. Il processo di inurbamento, che ha poi avuto luogo verso la fine del diciannovesimo secolo, ha dato avvio alla nostalgia della vita di campagna e della natura. I francesi restavano incantati dall’affascinante semplicità delle signore ritratte nei dipinti di Gainsborough [12].

Sotto l’ancien régime, quindi prima della Rivoluzione francese, una consistente classe sociale, si dedicava esclusivamente alla cura dell’abbigliamento e alla costante ricerca di novità. Fu così che nacque l’industria della moda. In questo stesso periodo emergeva in Inghilterra il culto del dandy [13], che rese famosi nomi come quello di Beau Nash [14] e di Beau Brummell [15]. Il dandy, prodotto dall’eleganza del diciottesimo secolo, ha poi mantenuto la sua presenza per tutta l’epoca napoleonica fino al Romanticismo. In Inghilterra il dandismo tramontò intorno al 1840, a causa dell’inflessibile praticità e laboriosità dell’industria vittoriana. Invece, in Francia il dandy sopravvisse, come una curiosa stranezza di gran moda, fino al ventesimo secolo. Negli anni che vanno dal 1880 fino alla fine del secolo, Oscar Wilde e Whistler si autocandideranno al ruolo di dandy, adottando un abbigliamento che si confaceva ai loro paradossi e alla loro cultura francesizzante [16].

La stilista sosteneva che

 «sotto la spinta dell’etica del lavoro protestante, con il suo conformismo e la sua grigia coscienziosità, la ricercatezza nella moda divenne gradualmente un tabù nei paesi anglosassoni, mentre in quello stesso periodo in Francia, l’abbigliamento veniva considerato una delle “arti”, un’arte della vita quotidiana. Indubbiamente i francesi ritenevano che, poiché era necessario vestirsi proprio come è necessario mangiare, allora tanto valeva che questa funzione venisse assolta nel modo più artistico possibile. I francesi raggiunsero vette eccelse in tutte le arti, ma adoravano e assimilavano le idee proveniente dall’estero. Chanel, ad esempio, aveva fatto proprio il look mascolino delle sartorie inglesi, cavalcando con grande tempestività la nascita dei primi movimenti per l’emancipazione femminile» [17].

La Westwood, studiò il Barocco e il Roccocò, la mitologia greca e romana, il Rinascimento e l’Ancien Régime, nonché l’evoluzione della Haute Couture nel corso di un secolo, proprio dopo che l’inglese Charles Frederick Worth [18], considerato il padre dell’alta moda, fondava a Parigi la sua Maison nel 1958. La stilista in più occasioni rivendicava di essere stata la prima a copiare i tagli degli abiti antichi per adattarli alla moda contemporanea:

«Nel secolo scorso, l’imperativo era di sbarazzarsi del passato. È come dire a uno scienziato di sbarazzarsi del suo laboratorio. Se lo fai butti via tutta la tecnica. E invece si deve tornare al passato».
Musée Historique des Tissue di Lione

Musée Historique des Tissue di Lione

Per questa sua grande passione per gli abiti antichi, la Westwood si è dedicata con passione allo studio dei modelli esposti al Victoria and Albert Museum [19] consultando opere sulla storia dei costumi e degli abiti storici. Nella collezione del Musée Historique des Tissue di Lione [20], ha esaminato con cura un raro esemplare di pourpoint [21], una sorta di camicia del XIV secolo creata per essere indossata sotto l’armatura a piastre, con la parte anteriore imbottita per riempire un pettorale convesso e un giromaniche, tipo grande assiette [22] che consentiva un movimento del braccio di 360 gradi. Confezioni antiche – soprattutto il dettaglio delle maniche – che la stilista tradurrà in tagli incredibilmente moderni e futuristici. Di qui la creazione delle gonne Centaur e Centarella del 1988 (i nomi derivano dal sellino posteriore sporgente, ispirato alla creatura mitologica) che presentavano pieghe tubolari basate sulle colonne greche. Ogni colonna era sostenuta, sotto il tessuto, da piccole imbottiture a forma di pompon, un dettaglio ripreso dagli abiti in stile “Impero” tanto in voga durante la Reggenza inglese (1811-1820) [23].

«Chiedo sempre ai miei allievi di cominciare copiando le cose, perché bisogna innamorarsi delle cose». Così Vivienne esortava i suoi studenti quando insegnava nel 2004 all’Accademia di Arti Applicate di Vienna e alle Belle Arti di Berlino. Questo ricorso agli elementi del passato per creare una moda che sembrasse costantemente nuova è una delle caratteristiche più radicali delle creazioni di Vivienne. Riteneva, infatti, che la moda provenisse dal passato e che, al contempo, fosse sempre proiettata verso un futuro comunque diverso. Questo suo approccio ha avuto un tale peso al punto che molti altri stilisti avviarono, a loro volta, una riscoperta della storia della moda. Non a caso il revival di stili e tecniche di altre epoche ha definito gran parte della moda degli ultimi tempi.

Gli anni alla scuola di arte furono molto importanti per lo sviluppo delle sue idee successive e per la sua formazione culturale. Ricordava spesso:

«Una volta a settimana, il nostro corso alla scuola d’arte prevedeva una visita ai musei di South Kensington per disegnare dal vivo. Lessi la storia di Kon-Tiki e mi appassionai agli Incas, così andai al British Museum. In tutto questo, non avevo ancora iniziato ad apprezzare la bellezza, eppure, come credo accada a tutti, la mia immaginazione rimase folgorata quando vidi il modello di una grande balena blu e seguii l’evoluzione del cavallo fin dalle sue forme più primitive. E al British Museum, l’oro puro dei gioielli antichi, sepolti con il fuoco di un sole più luminoso e più giovane che aveva illuminato popoli che condividevano con noi il potenziale umano per la genialità e, nonostante questo, le cui idee dovevano essere state talmente diverse dalle nostre… Poi mi misi a spulciare gli scaffali in una libreria che si trovava di fronte al British Museum, dove ricordo di essere rimasta colpita dall’idea che esistesse una materia come l’antropologia e che la si potesse studiare addirittura all’università. Prima di allora, non mi era mai venuto in mente che potesse esistere una disciplina tanto affascinante» [24].

vivienne_attivista_ambienteAttivista in difesa dell’ambiente. E non solo 

Figura carismatica e poliedrica non è stata solo un’instancabile e vorace creativa con la passione per lo studio minuzioso della storia della moda e del costume, è stata anche una fervida attivista che ha partecipato senza remore e timori a cortei e manifestazioni di protesta per l’indipendenza della Scozia, il vegetarianismo, la moda sostenibile, l’affermazione dei diritti civili, la libertà di espressione, la scarcerazione di dissidenti politici, la difesa dell’ambiente contro il surriscaldamento globale.

Nel 2003 ha dichiarato: «Se potessi tornare indietro, sarei un’eco-guerriera». E infatti lo è diventata, ricoprendo le sue creazioni di slogan e disegni che portano, tuttora, all’attenzione del pubblico la disperata situazione della Terra. Oggi le sue crociate non sollevano più dubbi: la corruzione politica ai massimi livelli è stata smascherata e il cambiamento climatico è sotto gli occhi di tutti.

Nel 2016, lasciò la direzione creativa del suo marchio, affidandola al suo ultimo marito Andreas kronthaler [25], per dedicarsi anima e corpo all’attivismo e ponendo, così, l’attenzione in particolare sulla questione ambientale. «I cambiamenti climatici, non la moda, sono la mia priorità in questo momento», ripeteva durante le interviste, scagliandosi contro il consumismo sfrenato Nel proseguire la sua instancabile lotta per cambiare il mondo è arrivata a dichiarare: «La moda non è sostenibile. Va venduta al suo prezzo di costo».

Celebre è anche la sua Letter to the Earth [26] che aveva registrato al Globe Theatre di Londra nel 2021 e letta in occasione della Cop 26 [27] in cui rivolgeva un accorato appello ai governi e ai potenti del nostro pianeta affinché si rendessero conto che: «La Terra è la nostra unica casa e senza sostenibilità non c’è futuro». E ancora, il messaggio ribadito con un video trasmesso in diretta da Piccadilly Circus l’8 aprile 2021, in occasione del suo ottantesimo compleanno. Nel cortometraggio di dieci minuti, dal titolo Do Not Buy A Bomb, l’icona visionaria interpretò una versione riscritta di Without You di My Fair Lady, lanciando un appello contro l’indifferenza della società verso le imminenti catastrofi ambientali, il commercio delle armi e il suo collegamento al cambiamento climatico.

La Westwood ha sempre combattuto contro le convenzioni del tempo. La sua vita e il suo lavoro sono guidati da un inestinguibile desiderio di opporsi ad esse. Citava spesso una frase del filosofo Bertrand Russell [28]: «L’ortodossia è la tomba dell’intelligenza». E in un’altra occasione aggiunse: «Se accetti che qualcosa sia giusto solo perché tutti lo credono, allora non stai pensando con la tua testa. Devi considerare gli altri punti di vista e poi farti la tua opinione». E ha sempre proseguito una crociata contro l’ovvio e il prevedibile, preferendo farsi la propria opinione.

«Una cosa la devo spiegare: quello che faccio adesso è ancora punk, si tratta ancora di urlare contro l’ingiustizia e di spingere le persone a pensare, anche se è scomodo. Sarò sempre una punk in questo senso «Ci sono cose del tuo passato a cui non puoi sfuggire. Dopo Malcolm ho cercato di scappare dal mio passato, ma ora sono fiera del mio ruolo di punk, perché credo di aver contribuito alla presa di posizione di molti giovani d’oggi: la Rivoluzione Climatica è punk. Il punk vive! Stesso atteggiamento, ma con idee più sviluppate, più solide e, spero, più efficaci nel cambiare la Terra di quanto non siano state in passato» [29].

_vivienne_westwood_in_difesa_del_pianetaSingolare ed evocativo il comunicato stampa scritto da Vivienne in occasione della sfilata di Parigi del 2014. Citava Shakespeare, faceva riferimento al Rinascimento, all’Illuminismo e a Frida Kahlo, e con il titolo Everything is Connected appena coniato, alludeva all’opera Spiritism. Everything is connected [30], del poeta e scrittore americano B. Foster [31]. Il logo della collezione, creato a mano dalla stessa Vivienne, riproduceva due serpenti che si mordono la coda a vicenda, un antico emblema di simbiosi aggressiva utilizzato per esprimere l’idea di un’economia che sta divorando il pianeta:

«Questo è il messaggio fondamentale della Rivoluzione Climatica e della mia vita adesso: che tutto ciò che ognuno di noi pensa, dice o fa, può fare la differenza. Ogni cosa è collegata» [32].

La sua battaglia sarà portata avanti dalla Vivienne Foundation [33], società senza scopo di lucro fondata con l’obiettivo di continuare a sensibilizzare e creare un cambiamento tangibile lavorando in sinergia con le ONG. Quattro sono i pilastri verso cui orienterà le proprie azioni la fondazione: cambiamento climatico, fermare la guerra, difendere i diritti umani e protestare contro il capitalismo. 

Il contesto storico e socio-culturale: la Seconda Guerra Mondiale, l’austerità britannica e la rivoluzione dei giovani 

La creatività, lo spirito combattivo e l’anticonformismo sono strettamente legati alla storia personale di Vivienne Westwood e alla storia del Regno Unito, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale e dal difficile periodo che seguì. È la stessa Vivienne a precisarlo: 

«La prima cosa che c’è da sapere su di me è che sono nata durante la Seconda Guerra Mondiale. Razionamenti e tutto il resto». 

libro_spiritism_foster-bNello splendido lavoro di Ian Kelly, dal titolo Vivienne Westwood [34], è riportata magistralmente e con dovizia di particolari, la vita, l’arte, la creatività e il contesto storico, sociale e culturale in cui visse l’artista e da cui attinse ispirazione e determinazione. L’opera è senz’altro il risultato delle tante ore trascorse tra l’artista e lo scrittore, in cui raccontare non è solo la narrazione di una vita, ma un rimettere a posto i ricordi e spiegare da dove si è partiti. Il risultato è un’affascinante e suggestiva rilettura di uno spaccato della società inglese – e non solo – che ha avuto un impatto importante per le generazioni di quell’epoca e per quelle future.

Vivienne Isabel Swire, nasceva l’8 aprile del 1941 nel Derbyshire da una coppia di operai tessili. Gli anni del dopoguerra e dell’austerità britannica hanno fatto da sfondo alla sua infanzia, insieme al paesaggio del Derbyshire che era (ed è ancora oggi) uno spazio liminale tra la campagna e un’aria coinvolta nella prima industrializzazione. Questo era il paesaggio e il mondo dell’infanzia di Vivienne, un paesaggio che si sviluppava a cavallo tra la brughiera e la fabbrica. La guerra era stata relativamente magnanima con gli abitanti di Tintwistle e Hollingworth, in generale con il Derbyshire e in particolare con la famiglia di Vivienne. Solo una bomba cadde vicino Millbrook Cottages, mancando inspiegabilmente di sedici chilometri il suo vero bersaglio: Manchester.

Tuttavia la famiglia di Vivienne subì comunque le conseguenze della guerra, che non sempre furono il preludio di sviluppi negativi. Quando scoppiò la guerra, suo padre Gordon fu assunto in una fabbrica di munizioni e velivoli militari a Trafford Park e per questa ragione non venne mai inviato al fronte mentre sua madre Dora, dal 1928 in poi aveva lavorato come tessitrice in una fabbrica di cotone locale, che dopo il 1939 si trasformò in una fabbrica di uniformi e paracaduti, oltre che di tessuti mimetici, cinghie e tende [35]. 

libro_vivienne-westwood_odoyaPer alcune aree dell’economia britannica, Derbyshire incluso, la Seconda guerra mondiale creò una via d’uscita dalla depressione economica. La guerra aveva certamente avuto un forte impatto sul commercio dei tessuti e sul progresso della moda britannica. Il Derbyshire e le altre aree di quella che sarebbe diventata la Greater Manchester prosperarono. Il settore delle munizioni, nonché quello dei tessuti pesanti per l’esercito e altri utilizzi, rappresentavano una grossa fetta dell’economia [36]. Per questo si può sostenere che gli abiti sono l’ordito e la trama della storia sociale. Sono parte di ciò che ha reso la storia di Vivienne così avvincente, intima e femminile, ma sono anche al centro di una storia di tumulti. Molto prima che Vivienne entrasse in contatto con la “moda” in senso stretto, i suoi abiti e i ricordi legati a essi raccontavano la storia di una Gran Bretagna in evoluzione: 

«Devi capire che, durante e dopo la guerra, il popolo britannico ha scritto una storia della moda tutta sua. Lo so che non si tratta del solito V per Vittoria e della storia di Churchill, ma la gente se ne dimentica: gli abiti erano politica ancora prima che esistesse la “moda” e quando ero piccola questo era vero più che mai. Sapevi che ogni giorno ti toccavano i razionamenti e i cosiddetti abiti funzionali (una marea di tasche e niente risvolti). Sapevi che c’erano la guerra e la fame, e che tu ne facevi parte». 

La Seconda guerra mondiale è il libro della Genesi per la cultura britannica moderna. I film e le storie, che delineavano il modo in cui la Gran Bretagna vedeva sé stessa e si posizionava nel mondo a partire dalla metà del Ventesimo secolo e arrivavano fino alla Depressione, alla Guerra e poi agli anni dell’austerità del dopoguerra che hanno fatto da sfondo al National Health Service, allo stato di welfare, alla Regina… e a Vivienne. Per alcuni, l’immagine più scioccante delle rivolte anticapitaliste del maggio del 2000 a Londra è stata l’acconciatura punk in stile moicano fatta di torba e messa in testa alla statua di Winston Churchill. Tuttavia, l’evento collegava chiaramente alcuni elementi chiave di questa storia e di quella della Gran Bretagna moderna: l’uomo che ha «salvato la democrazia occidentale» e la protesta di coloro che pensavano che la vittoria e i suoi sacrifici fossero andati sprecati.

L’era che ha dato forma alle grandi istituzioni di questo Paese ha dato alla Gran Bretagna anche la coscienza del suo posto nel mondo. Tutto questo, in relazione ai cosiddetti “spirito del Blitz” e “spirito di Dunkirk” [37], alludendo a un’indomabilità che rasenta l’intransigenza e la testardaggine. È diventato parte di come la Gran Bretagna viene tuttora percepita all’estero: la sua eccentricità, il suo ottimismo, l’orgoglio per la propria storia e il suo modernismo segnati dalle bombe. Anche la storia di Vivienne comincia qui, durante la guerra e i suoi strascichi, ed è intessuta di stoffe e moda tanto quanto di politica e storia sociale. La sua storia è intimamente politica, e per i suoi abiti lo è sempre stata, sin dagli inizi [38]. 

libro_a_biografyLa sensibilità e la familiarità di Vivienne verso i tessuti e le stoffe erano riconducibili alla dimestichezza che la sua famiglia aveva con questi materiali. Gli impermeabili di gabardine o i cotoni, i pettinati di lana e i tweed inamidati che venivano intessuti nelle fabbriche attorno a lei, prima e dopo la guerra, sono di fatto rimasti la base delle sue creazioni. Nel corso della sua infanzia, i tessuti ebbero un ruolo nella guerra, ma divennero anche un aspetto quotidiano della femminilità in quanto la politica dell’austerità, del “fai da te”, di “riparo e riutilizzo” e di grande impegno nel riciclaggio hanno avuto su Vivienne un forte impatto. Si trattava di un orientamento che coinvolgeva tutta la sua generazione e che riempiva di orgoglio e di nostalgia gli intenti eroici che si celavano dietro la cupezza dell’austerità britannica:

Tutto era concepito

 «….per essere pratico e il Ministero era molto severo riguardo al controllo che il potere centralizzato doveva esercitare sull’abbigliamento femminile. Ma ovviamente c’era anche una base politica. La gente se ne rendeva conto. Applaudivano l’uno al sacrificio dell’altro e riconoscevano lo sforzo congiunto, partecipando alla grande causa nazionale con ciò che indossavano o non indossavano. Anche questo, in un certo senso, è un mantra di Vivienne: abiti per gli eroi, abiti che esprimono un obiettivo» [39]. 

Parte da questo approccio la sua vena ispiratrice e il suo lavoro come stilista politica. È questo il luogo dove si sono generati i suoi fondamenti dell’abbigliamento politicizzato, partono dai tempi di guerra e dell’austerità britannica. Così come la sua politica ambientalista risale a un tempo e un luogo in cui la responsabilità condivisa del riciclo e dell’antispreco metteva le sue radici [40].

Anche la sua formazione scolastica rappresentò un altro passaggio fondamentale per la costruzione di quegli strumenti, soprattutto esperienziali, che le avrebbero consentito di prendere coscienza di sé all’interno del mondo che la circondava. A scuola le fu consigliato di seguire gli studi di infermiera:

«Se fossi rimasta al Nord, forse avrei proseguito gli studi, perché adoravo la scuola, la amavo con tutto il cuore, ma il punto era che lì si conoscevano solo quattro mestieri. Potevi fare l’insegnante, la parrucchiera o l’infermiera, e ovviamente la segretaria. Credo non ce ne fossero altri. Non me ne viene in mente nemmeno un altro che venisse preso in considerazione (…). Ecco come andavano le cose nella mia scuola. Io, per esempio, pensavo che un bibliotecario fosse solo qualcuno che rimetteva a posto i libri. Se avessi saputo cosa facevano e fanno davvero, probabilmente mi sarebbe piaciuto intraprendere quella professione. Tutte quelle ricerche e la grande letteratura…» [41]. 

L’insegnante di arte, il prof. Bell, che la Westwood ricordava con gratitudine, le cambiò prospettiva:

«A scuola studiavamo arte, ma io non sapevo dell’esistenza delle gallerie. Non avevo mai sfogliato un catalogo di riproduzioni. Non avevo mai visto uno schizzo riprodotto in un libro, niente, finché non conobbi il prof. Gordon Bell. Chissà perché i libri che leggevo non erano illustrati. Venivo da un posto in cui il linguaggio visivo era del tutto assente. Poco prima che compissi diciassette anni e che venissimo a vivere a Londra, diciamo circa un mese prima, il professor Bell mi disse che c’era una galleria d’arte a Manchester, e così io ci andai. Mi cambiò la vita, sul serio. Non ero mai stata in una galleria d’arte prima di allora. Avevo sentito parlare di pittori, di Michelangelo, ma pensavo che fossero esposti solo nelle collezioni private o nelle chiese cattoliche. In teoria io studiavo arte, perciò era davvero bizzarro che a scuola non si parlasse di dipinti e gallerie. Studiavamo architettura, castelli, il periodo perpendicolare, qualcuno degli edifici elisabettiani o del Settecento. E i poster. Tutto qui. Grafica industriale, in realtà: i caratteri di stampa. Non era un granché come istruzione….non si trattava mai di sintonizzare lo spirito e la mano e lasciarsi andare al disegno creativo. Però, fu il professor Bell ad accorgersi che l’arte accendeva una scintilla dentro di me. Poi, durante gli ultimi mesi di scuola, mi mostrò un libro d’arte sugli impressionisti. Mi fece dipingere alcune scene in stile impressionistico, a partire dalle fotografie. Mi mostrò dei Seurat come esempi di puntinismo e mi parlò di altre tecniche impressionistiche, dicendomi: “Non dipingere con un pennello piccolo, non cercare la precisione”. E così dipinsi quei paesaggi e quegli oggetti con un grosso pennello per stencil. Libera. Una volta, invece, mi vide disegnare un bozzetto di moda e fu la prima persona a dirmi che avevo talento. Pensava che dovessi frequentare una scuola d’arte. Mi aiutò a creare un portfolio e, cosa più importante di tutte, mi incoraggiò. Fu lui l’unico a dirmi: “Coraggio, vai”».

E così fece. Con grande coraggio e determinazione

«Tutto ciò che mi è successo dopo (Londra, Malcolm, la moda, l’arte e la politica) posso datarlo al 1958. Avevo quasi diciassette anni, e tutto il mio mondo si rivoluzionò. Mia madre e mio padre avevano deciso che noi figli avremmo avuto maggiori opportunità, se ci fossimo trasferiti a Londra. Perciò comprarono un ufficio postale a Harrow. Nell’aprile del 1958 avrei compiuto diciassette anni e noi ci eravamo trasferiti a Londra a febbraio o marzo. Perciò non lasciai la scuola a sedici come molte delle mie coetanee alla Glossop Grammar. Frequentai il penultimo anno per qualche mese, poi ci trasferimmo a Londra e feci domanda per la Harrow Art School con il portfolio che avevo preparato insieme al professor Bell. E venni ammessa» [42].

Westwood ricordava il trasferimento al Sud e i cambiamenti che ne derivarono, come un periodo di decisioni difficili e, in generale, come una svolta drammatica nella loro storia familiare. Nessun altro dei loro parenti aveva lasciato Tintwistle o l’area di Hollingworth. Alcuni non approvarono la scelta di un cambiamento tanto radicale. La stessa Vivienne non era felice di lasciare la sua scuola e i suoi amici. Il suo mondo fin a quel momento. Ricordava il fratello della stilista: «All’epoca, la gente non si trasferiva a Londra con tanta facilità». Alla fine degli anni Cinquanta, l’economia britannica stava attraversando una delle tante recessioni del dopoguerra. La Grande Depressione non risparmiava certo la famiglia Swire che vide migliori prospettive nel Sud relativamente prosperoso.

E le cose cambiarono perché il mondo stava cambiamento. L’adolescenza e i primi anni da adulta di Vivienne, prima nelle periferie di Manchester e poi nei sobborghi di Londra, coincisero infatti con un momento di profonda trasformazione nella cultura, nella moda e nell’intrattenimento popolare britannico. Il rock’n’roll attraversò l’Atlantico per essere accolto a braccia aperte dalla popolazione britannica, sedotta dall’America, così come lo erano stati i genitori di Vivienne da una generazione di film di Hollywood e dal tumulto della Seconda Guerra Mondiale. La seduzione della musica e di ciò che rappresentava avrebbe avuto un impatto fortissimo. Dal punto di vista musicale, il rock’n’roll nasceva dalla musica e dalla cultura americane dei tempi di guerra e offriva all’austerità britannica una promessa di liberazione. Nel 1948, il 60 percento dei britannici intervistati ammetteva di voler emigrare.

rock_and_rollNon c’era molto in Gran Bretagna che potesse reggere il paragone o competere con i dischi che arrivavano dall’America nel dopoguerra – e a maggior ragione a partire dal 1954 – in termini di energia esplosiva e di ritmo afroamericano. Be-Bop-a-Lula, colonna sonora della giovinezza di Vivienne, venne casualmente a coincidere con il trambusto di un’incoronazione e con una nazione che cominciava a guardare avanti e indietro allo stesso tempo. Ballerina appassionata, positivista inguaribile e istintiva, Vivienne accolse a braccia aperte la musica rock’n’roll e l’estetica della moda del Midwest americano che ne seguì: piccoli top estivi di percalle, calzini alla caviglia e, come acconciatura, coda di cavallo molto alta. Fu quella l’epoca che diede un nome alla fase “teenager” della vita, che in parte rappresentava il riconoscimento di una nuova fetta di consumatori, ma anche la consapevolezza che la generazione del dopoguerra, di cui faceva parte Vivienne, stava scrivendo delle regole nuove e forgiava la sua stessa cultura.

Il rock’n’roll si presentava come un genere molto più sovversivo di quanto non appaia oggi e si portava con sé una precisa moda. Questa la spiegazione per cui la BBC non trasmise musica rock’n’roll fino agli anni Sessanta. Occorreva sintonizzarsi sulla American Forces Network, che negli anni del Piano Marshall trasmetteva in tutta Europa, o su Radio Luxembourg. La conseguenza fu che i messaggi, l’energia e la promessa di liberazione personale e sessuale, di cui il nuovo sound americano si faceva portatore, assunsero un tenore furtivo e underground nel contesto britannico. E la storia di Vivienne è calata esattamente in questo contesto e in questo fermento. In parte perché il rock’n’roll era collegato a quasi tutto ciò che lei avrebbe creato successivamente, prima con Malcolm McLaren (“Vive le Rock”, “Let It Rock”) all’interno del contesto del revival rock’n’roll degli anni Settanta, e poi da sola. Ma anche perché il rock’n’roll degli anni Cinquanta divenne un culto non solo per via della musica, ma anche per via dell’unico modo in cui gli adolescenti, come la stessa Vivienne, potevano corteggiare questa nuova tendenza attraverso gli abiti e il modo di vestirsi. Inoltre, quegli anni videro la nascita di un nuovo tropo nel commercio dei commerci così come nella moda. Ci fu una fusione tra apparente autonomia creativa, musica, moda e identità, divenuta nota come la prima era dei “teenager”, ma che presto divenne anche un modello di vendita. Vivienne potrebbe essere stata una dei “teenager” di prima generazione.

«Non ero una ribelle, ma quella è stata un’epoca fantastica per gli adolescenti, perché il look esprimeva tutta la ribellione della gioventù nei confronti del vecchiume».

In Gran Bretagna, il rock’n’roll andò a coincidere con un certo tipo di look. Per i ragazzi, un’uniforme cult che prevedeva le scarpe modello “Brothel Creeper” [43] e i capelli ravviati all’indietro con la brillantina; per le ragazze, una silhouette e un atteggiamento tutti nuovi. I britannici assorbivano la nuova e potente cultura giovanile del rock’n’roll consumando, vestendosi, comprando e creando, per poi catalizzare tutto questo in un “look”. Il tempio del nuovo misticismo del rock era sempre meno il negozio di dischi o la pista da ballo e sempre più la boutique.

Vivienne era ancora adolescente alla fine degli anni Cinquanta, uno dei momenti più importanti dell’epoca, soprattutto in termini di rivoluzione della musica e della moda. Contemporaneamente all’accattivante look rock’n’roll, si sviluppò un secondo stile di culto tra i giovani, nato nell’immediato dopoguerra, che inizialmente fu definito “neoedoardiano” e poi “Ted”. Questo stile fondeva elementi del dandismo edoardiano con le stoffe americane importate, con contaminazioni tanto dello zoot suit [44] americano quanto del soprabito edoardiano con le sue giacche lunghe dal taglio dritto. Lo storico del costume Colin Woodhead, a proposito del look che andava forgiandosi, ebbe a dire: «Dato che i cosiddetti Teddy Boy (l’incarnazione della classe operaia) più tardi vennero associati alla violenza adolescenziale» – come accadde negli scontri violenti nelle stazioni balneari britanniche – «ecco come nacque l’idea che i vestiti alla moda potessero rappresentare una minaccia per la società».

libro_vivienne_westwoodFu un momento significativo per la storia della moda, e Vivienne seppe cogliere l’opportunità per creare qualcosa fortemente accattivante. E le forme di moda derivate dai culti giovanili che si ritrovano nei primi lavori di Vivienne (i completi Teddy Boy e le magliette e i jeans che costituivano gli elementi basilari delle sue creazioni Let It Rock) nascevano dagli abiti demob [45]  della sua adolescenza, rielaborati come abbigliamento da guerriglia urbana negli anni Settanta. I completi Teddy Boy, come quelli indossati da suo fratello, rappresentavano una grossa fetta della moda rock’n’roll britannica. Mentre le magliette, i giubbotti di pelle e i jeans di Marlon Brando, James Dean ed Elvis Presley erano l’uniforme essenziale della ribellione adolescenziale americana durante gli anni del rock’n’roll, e andarono a confluire direttamente nel look rock’n’roll britannico, ma anche questi affondavano le loro radici nella Seconda guerra mondiale. Questi furono i primi ingredienti del look Vivienne Westwood, nonché i primi modelli a comparire su King’s Road. E si trattava, come sempre per Vivienne, di una storia fatta a mano: una storia del “fai da te” [46].

Era un nuovo dandismo urbano, l’inizio della «moda come sfida alla società». Di fronte a tanta sfida potrebbe risultare ironico ad un orecchio moderno ma i capi di abbigliamento erano spesso confezionati da madri e fidanzate nelle loro dimore di periferia. E Vivienne non si sottraeva affatto a questa tendenza. Gli anni del rock’n’roll e dei Teddy Boy tendevano a fondere il “fai da te” con il radicalismo casuale, con i riferimenti storici (gli edoardiani) e con lo stile senza barriere di classe dell’America.

«Fai caso a cosa indossavano persone come Jack Kerouac» sosteneva Vivienne «dopo aver lasciato i marines o l’esercito ed essersi messi on the road. Maglietta bianca, jeans e giubbotto di pelle. Quando Hollywood iniziò a cercare un look da ribelle che sarebbe stato a pennello a star come James Dean e Marlon Brando, si concentrò su questo stile. E quando i ragazzini in Gran Bretagna lo videro sul grande schermo, vollero imitarlo».

Tra il 1956 – l’anno della violenza dei Ted al grido di Rock Around the Clock, che vide il municipio della tranquillissima Orpington distrutto da alcune gang di Ted indemoniati – e il 1959 – in cui l’omicidio del carpentiere caraibico Kelso Cochrane portò alle rivolte di Notting Hill – la moda Ted venne sempre più associata al pericolo e alla violenza. Fu un ricollocamento essenziale della moda, poiché da quel momento in poi essa avrebbe rappresentato anche – come sarebbe avvenuto spesso alla fine del Ventesimo secolo, in parte anche grazie al lavoro di Vivienne – culti giovanili ribelli e tutto ciò che le vecchie generazioni disprezzavano. Inoltre, in una sorta di premonizione di ciò che sarebbe avvenuto con il Punk, Vivienne seppe sfruttare la notorietà della moda Ted e il suo ciclo vitale. Era la moda della gioventù bianca, urbana ed esclusa, e le sue prime origini risalivano proprio alla storica via delle sartorie di Savile Row.

Lo stile Ted della prima ondata vide il suo apogeo nel 1958, l’anno in cui Vivienne si trasferì a Londra. Il suo emblema essenziale, le “Brothel Creeper”, un distintivo di dissenso radicale in un’era in cui il colore delle scarpe era uno degli elementi essenziali per essere considerato un “signore”, fu rimpiazzato dalle scarpe a punta all’italiana, l’equivalente maschile di un paio di scarpe che Vivienne comprò con tanto orgoglio a Manchester [47].

Alla fine degli anni Cinquanta e nei primissimi anni Sessanta le “winklepicker” [48] divennero simbolo e, al tempo stesso, elemento unificante degli adolescenti britannici. Ma già superati i primi anni Sessanta, dei Ted non c’era più nemmeno l’ombra. Ci si riferiva a quel fenomeno e al relativo stile, come a qualcosa di “deliberatamente arcaico”. La stessa Vivienne più in là avrebbe avuto la stessa posizione e la stessa distanza dal movimento. La realtà era che la moda Ted fu infangata, e in modo irreversibile, dall’omicidio Kelso. Da quell’episodio nasceva l’attuale Carnevale di Notting Hill, con la sua mescolanza di razze. Questo in parte spiega il disagio che Vivienne provò rispetto alla moda e al ballo, quando si trasferì al Sud tra il 1958 e il 1959: la scena della musica, della moda e della danza stava cambiando sotto i passi delle “winklepicker”. Il rock’n’roll, inteso come tropo della moda, e lo stile Ted si fusero proprio nel periodo in cui Vivienne lasciò Manchester. Contemporaneamente, per un breve periodo, cambiò anche la musica, che come contrappunto al rock’n’roll tornò alle sue origini con il traditional jazz.

711xrxnx9bl-_ac_uf10001000_ql80_Per ragazze come Vivienne, legarsi a una particolare “tribù” di giovani uomini appassionati di moda e musica divenne un elemento chiave della crescita: il marketing degli abiti e della musica insieme, per la creazione del culto di una gioventù sensuale.  Forse era inevitabile che un look esagerato come quello dei Ted o dei mod (jazz) – c’erano anche pettinature proto-moicane chiamate “apache”, forgiate con enormi ciuffi e quintali di brillantina Brylcreem – non potesse esistere senza una musica da ballare. Quella musica era il rock’n’roll, a un mondo di distanza da Savile Row e del look neoedoardiano originale. La stessa Vivienne, raccontava – con la sua naturale propensione e per la musica e per la moda – che era fondamentale che gli abiti fossero legati con gli stili musicali. L’accettazione del rock’n’roll aveva aperto i cuori e le orecchie dei britannici a stili jazzistici precedenti: le musiche che avevano fatto da colonna sonora ai film della nouvelle vague francese si diffusero nei club di Soho e nei pub di Harrow. Lo stile d’abbigliamento che accompagnava tutto questo, il lookTrad”, era quello adottato da Vivienne quando si iscrisse alla scuola d’arte nel 1958: un look dichiaratamente poco strutturato e pseudointellettuale, adatto per la Rive Gauche parigina, per il Greenwich Village o per il Ronnie Scott.

Nei suoi incontri con lo scrittore Ian Kelly, Vivienne confessò che «al Ronnie suonavano sempre modern jazz e io finii per odiarlo tanto quanto il trad». Pantaloni ampi, maglioni enormi, montgomery e sciarpe, a imitazione degli esistenzialisti francesi o dei beat di New York, e gonne svasate. Da allora le gonne svasate e plissettate, alla tirolese, sono state un elemento sempre presente in quasi tutte le collezioni di Vivienne Westwood. Erano quelle che indossava lei da “Trad” nel 1959, insieme alle collane fatte con i semi di melone:” Non avevo nemmeno mai visto un melone prima di allora!” Il look, insieme al sidro e al jazz di George Melly [49] e Humphrey Lyttleton [50], corrispondeva alla reinterpretazione britannica del jazz nero americano, oltre ad una moda da seguire. In Absolute Beginners [51], il romanzo di Colin MacInnes [52] che ha definito un’epoca, viene descritta proprio una ragazza “Trad” che avrebbe potuto essere Vivienne nel 1960: «Capelli lunghi con frangetta lunga, maglione largo, magari in colori sgargianti, ma mai floreale… l’obiettivo è avere un’aria trasandata».

libro_absolute_beginnersLo stile “Trad”, che risolse il problema sartoriale di Vivienne, quando si trasferì al Sud e cercò di adattarsi al nuovo ambiente, rappresentò una svolta piuttosto circoscritta nella storia della moda, e anche in quella della stessa Vivienne. Come disse una volta Tommy Roberts [53], defunto amico della stilista: «Il Trad passò di moda nel giro di due secondi. Tutti quei ragazzi che se ne andavano in giro con le sciarpe del college… Il Trad era un po’ sciatto». Quei look raccontavano tutti una nuova storia, esprimendo una sincronia tra la moda e la musica che non si era mai verificata prima di allora. E poi, come per la scena rock’n’roll britannica che generò il tutto, divenne soprattutto una questione di abiti.

Superata l’adolescenza, Vivienne aveva già vissuto e avuto esperienza diretta di quattro tendenze interconnesse nel settore della moda e della musica: il rock’n’roll, i Ted, i primi mod (jazz) e i Trad.

Verso il 1962 la sua vita virava radicalmente verso il matrimonio con Derek Westwood (di cui conservò il cognome) e la nascita del loro figlio. Scenario che avrebbe potuto allontanarla dalla moda. E invece ciò non accadde poiché sulla sua strada incontrò uno studente di arte di Londra (amico di suo fratello Gordon), che amava lo stile Ted. Si trattava del futuro marito e collaboratore Malcolm Edwards McLaren [54]. Di fatto, l’inizio della relazione con McLaren pose fine al suo primo matrimonio.  McLaren e Vivienne, divennero in breve tempo una sorta di band: McLaren indirizzò la sua creatività nel commercio con la boutique al 430 di King’s Road e contemporaneamente divenne il manager (nonché ideatore), della band di culto dell’era Punk: i Sex Pistols. Westwood contribuiva alla stesura delle canzoni della band, curava la direzione artistica della band di Sara Stockbridge e l’abbigliamento di Sid Vicious [55], e creava design grafici per magliette.

Con Malcom Mcclarem

Con Malcom Mclaren

Tutto ciò grazie ad una vera e propria impollinazione vicendevole tra le sfere della moda, della musica e del graphic design. Si assisteva, infatti, in quel periodo ad una vera fusione tra l’arte e la musica, tra la grafica e il settore vendite e marketing e la tendenza a gestire attività che fondevano l’iconografia pop, la moda, la musica e gli “happening[56]. I musicisti pop, gli artisti pop, i designer pop e la scena della moda e delle boutique che germogliavano in tutta la Gran Bretagna, in particolare a Londra, fornirono un contesto e una motivazione per la creazione di culti giovanili, nonché per le vendite che questi potevano generare. A livello commerciale, non c’era niente di sinistro o premeditato, eppure – come avrebbero fatto notare Vivienne e McLaren più tardi – nel campo della moda e della musica era difficile che qualcosa restasse a lungo inesplorato.

Un aspetto importante da considerare, e che spiega la genesi del fermento artistico tipico di questo periodo, è l’apertura delle concessioni educative che coinvolse la generazione di Vivienne. Ciò garantì l’accesso ai licei e alle borse di studio per le scuole d’arte, permise a ragazzi che, come lei, provenivano dalle classi meno abbienti, di uscire dal loro isolamento carico di inadeguatezza e indignazione sociale, dando voce e corpo all’ascesa del consumismo e della commercializzazione di massa. La stessa Vivienne, che il professor Bell aveva notato fin da ragazzina per il suo talento nel design e che le diceva con orgoglio che sarebbe potuta diventare una copywriter, è arrivata fino ai più alti livelli immaginabili nel campo della grafica. La generazione del dopoguerra, bombardata dalla “distrazione non-stop” della pubblicità come nessun’altra prima, era formata in gran parte da persone a cui queste tecniche erano state insegnate nelle scuole d’arte moderne. La cultura pop britannica non era legata per caso alle scuole d’arte: l’una non sarebbe potuta esistere senza le altre. 

Il fatto di cominciare a dichiarare in pubblico i propri gusti musicali o di fare parte di una certa “tribù” significò molto di più che vendere dischi e vestiti: divenne un vero e proprio linguaggio di appartenenza. «È stato il periodo migliore possibile per essere un adolescente» sosteneva Vivienne. «E siamo stati proprio noi a dare una definizione e un look a questo concetto». Come avrebbe detto Malcolm più tardi, “Eravamo in cerca di un’identità”». Arte grafica, moda, musica e identità: i londinesi della generazione di Vivienne furono i primi a cucire tutto insieme. E in un certo senso era una storia antica e tipicamente britannica: la creazione di gruppi di insider e outsider attraverso gli abiti [57].

Malcolm McLaren è parte intrinseca della leggenda di Vivienne Westwood. La loro è stata una collaborazione che ha cambiato il mondo. Ha dato forma al punk: al suo look, alla sua band più famosa e alla sua filosofia. È questo rapporto che lega Vivienne ai Sex Pistols all’estate del giubileo di God Save the Queen [58]: il disco, l’immagine, la débâcle. I primi anni di collaborazione tra Vivienne e Malcolm furono particolarmente fecondi e creativi. Erano gli anni che diedero vita a un nuovo linguaggio nel mondo della moda, che alla fine trascese il punk: magliette e vecchi jeans strappati, accessori retró e mescolanza di stili, slogan, applicazioni e “bricolage” (oggetti attaccati agli abiti, un procedimento copiato dall’arte contemporanea): idee che sarebbero state inimmaginabili in altre epoche della moda. Vivienne era più interessata alla tecnica e alla creazione pratica delle cose. Perciò, ecco la fusione: Malcolm aveva le idee per creare slogan come “No Future” e “Cash From Chaos”, ma a far funzionare il tutto sono state la tecnica di Vivienne e la sua capacità di far funzionare graficamente quelle idee su qualcosa che si potesse indossare, qualcosa per il corpo [59].

Con gli eventi tumultuosi del maggio del 1968, Vivienne venne a conoscenza di numerosi slogan che sarebbero diventati i mantra iconici del punk, stampati anche sulle magliette da lei ideate. Slogan che prima erano stati scritti a grandi lettere sui muri dell’École des Beaux Arts sulla Rive Gauche di Parigi, affollata dai manifestanti, come: “Sii ragionevole: chiedi l’impossibile”, “Sotto il selciato c’è la spiaggia”, “Proibito proibire”. 

Nel frattempo, la vecchia lamiera, l’insegna del loro negozio, venne dipinta di nero, con la scritta “Let It Rock” a caratteri cubitali rosa confetto, «e all’interno, Malcolm arredò il negozio come un salotto anni Cinquanta del sobborgo di Brixton». Divenne subito un posto in cui intrattenersi. Steve Jones, più tardi membro dei Sex Pistols e caro amico di Vivienne, disse: «… Sembrava quasi di non stare in un locale, ma in un salotto». Era tutto un misto di vintage e ricostruzioni, in termini di abiti e di arredamento.

Era un periodo di agitazione febbrile nel mondo della politica, come in quello dell’arte, e Malcolm era estasiato all’idea di farne parte: «Ero molto eccitato all’idea di portare la cultura per le strade e cambiare il modo di vivere della gente, usando la cultura come mezzo per creare disordini». Era un mantra che Vivienne introiettò e che ancora oggi ha la sua eco in molte delle cose che ha realizzato e che ha proclamato: «spingi le persone a pensare e cambia il mondo, rendendo l’arte pubblica». Nel suo caso, la sua arte “situazionista” era l’arte di creare abiti [60]. 

Nonostante l’atmosfera non fosse proprio tranquilla, il 1977 rappresenta un anno cruciale per il movimento punk, sia per l’enorme produttività sia perché in questi dodici mesi si caratterizzò fortemente come una corrente giovanile di grande impatto non solo musicale ma anche estetico-culturale [61]. Il punk ha dato vita a una “scuola” che attirava la dimensione multimediale non come risultato di interazioni fra specialisti ma attraverso la polivalenza del singolo autore. 

Keith Haring

Keith Haring

L’eredità di Vivienne Westwood 

Vivienne ha detto, a proposito del suo passato: 

«Le persone sembrano ancora sorprese del fatto che io sia partita dal punk per approdare all’alta moda, ma è tutto collegato. Per questo motivo chiamammo una delle prime collezioni Punkature. Non si tratta di moda, vedi. Per me, si tratta di storia». 

E la storia e le idee l’hanno portata lontano fino a diventare un’icona dell’alta moda globale, attraverso cui ha continuato a esprimere la sua caustica ironia su quel business che è lo spettacolo, mantenendo intatta, in mezzo a tutta questa baraonda, la sua pacata passione per la bellezza, specialmente per la bellezza plasmata nella stoffa. 

Il suo essere visionaria l’ha portata a quell’impegno politico che è stata una costante nella sua vita creativa. Si è scagliata contro l’economia del tempo definendola una guerra economica. Di qui la presa di posizione contro l’autorità corrotta e la violenta critica all’establishment e a ciò che esso rappresenta. Il risultato è stato la nascita del movimento punk, iniziando una vera e propria battaglia per la diffusione della cultura, battaglia a cui diede il titolo di “Civilizade”.

sfilate_lippocampoNel bellissimo volume Sfilate [62], è possibile “scoprire” tutte le sue collezioni e, oltre alle immagini degli abiti, si entra nel loro messaggio e nell’ispirazione che ne è all’origine. Non si tratta di un mero repertorio fotografico, è una vera e propria raccolta dell’opera della stilista. Tutte le sue collezioni hanno titoli ispirati all’impulso ottocentesco di portare la cultura alle società più arretrate. La collezione Autunno/Inverno 1994-1995 da titolo “On Liberty” [63], è ispirato al saggio dell’economista John Stuart Mill [64]. Collezione concepita come critica alla “tirannia della maggioranza”. Le sue passerelle sono sempre state un veicolo politico, come anche nel caso della collezione Autunno/Inverno 2005, intitolata Propaganda, ricca di riferimenti d’ispirazione militare e slogan, o quella targata Autunno/Inverno 2015, Unisex, una delle prime collezioni che ha aperto la strada a una moda più inclusiva. Ogni collezione si fonda su un racconto, su una storia ispiratrice e su personaggi che a loro volta determinano gli outfit. “Witches” sarà l’ultima collezione presentata dalla collaborazione di Westwood con McLaren. Nonostante il contributo di quest’ultimo fosse ormai divenuto irrilevante, la stilista continuava a rendergli omaggio dichiarando: «Rimette ordine nelle mie idee, rivede il mio lavoro». 

Quest’idea di narrazione caratterizza ormai la moda britannica contemporanea: il linguaggio di Westwood ha influenzato un certo numero di coutier, segnati sia dal suo approccio intellettuale, sia dalla sua estetica. E se lei preferiva definire le sue creazioni “inglesi”, l’uso che fa dei tartan, tweed e lini scozzesi o irlandesi rivelavano una visione ben più ampia, che abbracciava altre culture, dalla Grecia alla Roma antiche e al roccocò francese, ma sempre viste con occhio squisitamente British. La sua passione per François Boucher [65] e Jean Honorè Fragonard [66], ad esempio, era strettamente legato a quanto aveva ammirato alla Wallace Collection [67] di Londra che contiene una straordinaria  raccolta  dell’arte francese collezionata e selezionata dalla nobiltà britannica. C’è, infine, qualcosa di profondamente toccante nel modo in cui la stilista adotta l’eredità germanica del marito Andreas Kronthaler: il volto incorniciato di pizzo di un bambino, tratto da un dipinto di Frans Hals [68] e stampato su un corsetto, il corpetto di trina di un dirndl [6]], un boccale di birra come accessorio idiosincratico.

Ha creato capi originali che non somigliavano a quelli di nessuno: «Mai visto prima, è la definizione che tengo sempre presente». Ed è proprio grazie alla sua profonda curiosità per il mondo, la storia, l’arte, la politica e l’ambiente – curiosità rispecchiata dalle sue dichiarazioni e dalle collezioni – che le creazioni di Vivienne continuano a svolgere un ruolo così rilevante. Prima di dedicarsi alla moda aveva lavorato per cinque anni come maestra elementare, e fino alla fine ha cercato di trasmettere il sapere e di dirci qualcosa tramite la parola e gli abiti. 

Gli abiti della Westwood portano inevitabilmente a riflettere, pensare e questo spiega il motivo per cui abbiano scatenato reazioni tanto violente, arrivando persino a suscitare l’ira delle autorità come accadde nel caso della T-shirt “Naked Cowboy”, del 1973. Con l’immagine di due cow boy nudi dalla vita in giù, costò a Westwood e MacLaren una multa di ben 50 sterline per aver pubblicato immagini indecenti su una maglietta. Lo slogan “Destroy” stampato su una T-shirt? Si trattava di «distruggere lo status quo, occorreva infrangere i valori e i tabù di un mondo crudele e ingiusto, mal governato e corrotto». Difficile immaginare oggi una T-shirt che possa suscitare reazioni tanto eclatanti [70].

Il suo motto «Compra meno, scegli bene, fallo durare è la cosa migliore che io abbia mai scritto», ripeteva spesso. Citando il titolo di una delle collezioni ribadiva con forza che «…i cambiamenti, le agitazioni della moda dovrebbero essere una tempesta in un bicchier d’acqua».

Grazie, poi, alle frequentazioni newyorchesi di McLaren, la Westwood entra in contatto con Keith Haring [71] e, alla fine del 1982, si reca nella Grande Mela per incontrarlo, proprio quando l’artista sta cominciando a imporsi sulla scena internazionale. Il sodalizio artistico nel 1983 con Haring è probabilmente, la prima collaborazione tra un artista contemporaneo e una creatrice di moda.

Si parla spesso di Vivienne Westwood al singolare, ma la sua opera nasce in un ambito di collaborazione.

«Quando lavori, hai bisogno di qualcun con cui confrontarti (…). Mi interessano le persone intellettualmente stimolanti» [72].

un_tempo_questa-donna_era_una-punkSe tale approccio non è raro nella moda, insolito è invece il modo che ha Westwood di farlo apertamente suo. Dal 1990 ha lavorato al fianco del marito Andreas Kronthaler, conosciuto all’Accademia di Arti Applicate di Vienna dove lei era docente ospite e lui studente e che ha sposato nel 1992. Gli anni successivi sono stati caratterizzati dalla dialettica tra gli interessi dell’una e dell’altro. Prima di Kronthaler – e in parte anche all’inizio della loro collaborazione – il lavoro di Westwood è plasmato dalla sua amicizia con l’artista canadese Gary Ness. Quest’intellettuale, stabilitosi a Parigi nel 1950 dopo aver vinto una borsa di studio all’École Beaux-Arts, riteneva che la cultura fiorita nei salotti e nei caffè francesi a partire dall’ultimo quarto del XIX secolo e fino alla Prima guerra mondiale sia stato un milieu culturale estremamente ricco. Westwood conobbe Ness nel 1974 quando lui le propone di farle un ritratto. Durante il decennio seguente i due diventarono amici intimi e i loro interessi comuni iniziarono a emergere nelle sue collezioni:

«Mi ha guidato nelle mie letture e mi ha fatto scoprire le tradizioni nell’arte. La grande arte è sempre originale e senza Gary non sarei quella che sono» [73].

Provocatoria, irriverente, geniale: Vivienne Westwood è stata probabilmente l’ultima vera ribelle dei nostri tempi. Nel corso della sua carriera la stilista britannica ha portato avanti una rivoluzione che non ha investito soltanto il mondo del fashion ma che ha ispirato anche una serie di veri e propri cambiamenti a livello sociale: 

«Ho provato continuamente a provocare le persone, spronandole a ragionare in modo nuovo, a pensare a loro stesse, a liberarsi dalle inibizioni e dai condizionamenti dell’establishment. Non ho mai cercato di fare solo vestiti, volevo dare una bellissima opportunità alle persone di esprimere la loro personalità. E ciò ha a che fare con la qualità non con la quantità. Questa è la vera ribellione per me. Ditemi: c’è qualcosa di più autenticamente punk di una dichiarazione del genere?» .

Ci ha lasciato il 29 dicembre 2022. Tre mesi prima, l’8 settembre 2022, moriva la Regina Elisabetta II. Chissà, forse da qualche parte siedono insieme sorseggiando il tè delle cinque mangiando scones, secondo la migliore tradizione del British Teatime. E magari sorridono sfogliando la rivista Tatler del 1989 sulla cui copertina la Westwood posava vestita da Margaret Thatcher con la didascalia “Un tempo questa donna era una punk”. 

«La migliore guida alla vita, Ian? Le avventure di Pinocchio. È pura filosofia di vita. Un modo di vivere. Pinocchio è birichino, sfrenato, ma ha un cuore d’oro. E ovviamente è questo a salvarlo». Vivienne Westwood. 

Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
 Note
[1] Lorna Tucker, ex modella, ha debuttato come regista e sceneggiatrice proprio con il film documentario Westwood: Punk, Icon, Activist.
[2] The Most Excellent Order of the British Empire, è un ordine cavalleresco istituito da re Giorgio V il 4 giugno 1917. È tra le onorificenze più importanti del Regno Unito.
[3] God Save the Queen è il secondo singolo discografico dei Sex Pistol. Fu pubblicato il 27 maggio 1977, durante il giubileo d’argento di Elisabetta II del Regno Unito. Nonostante molti credano che la canzone sia stata creata appositamente per il Giubileo, la band ha sempre negato ciò: «Non è stata scritta specificatamente per il Giubileo della regina. Non eravamo informati di questo all’epoca, non era un’opera studiata a tavolino per venire fuori e scioccare tutti». Johnny Rotten, membro del gruppo, spiegò poi il significato del testo: «Non si scrive una canzone come God Save the Queen perché si odiano gli inglesi. Si scrive una canzone come questa perché si amano e si è stanchi di vederli maltrattati». I Sex Pistols infatti originariamente intendevano intitolare la canzone No Future, ma il loro manager Malcolm McLaren, sapendo dell’imminente Giubileo d’Argento della regina, convinse la band a cambiare il nome del singolo in God Save the Queen, e ne ritardò l’uscita per farla coincidere con la manifestazione.
[4] Kelly I., Vivienne Westwood, Odoya, 2015: 61-62.
[5] Women’s Wear Daily (noto anche come WWD) è una rivista dell’industria della moda, fondata a New York da Edmund Fairchild il 13 luglio 1910. Si occupa prevalentemente dei cambiamenti di tendenza e di notizie nel settore della moda. È una rivista così autorevole da meritarsi l’appellativo di “Bibbia della moda”.
[6] I Sex Pistols sono stati un gruppo punk rock britannico, fra i più influenti della storia e grande icona della prima ondata punk.
[7] Il British Fashion Award, conosciuto anche come he Fashion Award, è un premio assegnato dal British Fashion Council, durante una cerimonia tenuta annualmente nel Regno Unito, durante la quale vengono assegnati dei riconoscimenti a coloro che maggiormente si sono distinti nel corso dell’anno nel campo della moda britannica.
[8] Il British Fashion Council (BFC), con sede a Londra, è un’organizzazione senza fini di lucro fondata nel 1983, il cui scopo è promuovere la crescita della moda britannica nell’economia della moda globale. Un aspetto importante delle attività dell’organizzazione è il supporto dato ai giovani designer emergenti, supervisionandone l’apprendistato nel Regno Unito.
[9] Fury A., Vivienne Westwood. Sfilate. Tutte le collezioni, L’Ippocampo, 2021.
[10] Aa.Vv., Introduction by Vivienne Westwood, in Challenges of Plastic, Half Moon – Fotografie di Maxi Miliano, 1995.
[11] La strada venne costruita tra il 1731 e il 1735 con il nome di Lady Dorothy Savile, la moglie del conte di Burlington. Al civico numero uno, per molti anni ci fu la Royal Geographical Society mentre al civico numero tre ci fu fino a qualche anno fa la sede dell’etichetta discografica Apple, la casa produttrice dei Beatles, che proprio su quel tetto il 30 gennaio 1969 fecero un concerto che rimase nella storia. In questa via, la Casa Gieves & Hawkes, che un tempo vantava tra i suoi clienti Charlie Chaplin e Winston Churchill, creò i costumi di scena dell’iconico film “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick.
[12] Thomas Gainsborough, (Sudbury, 14 maggio 1727 – Londra, 2 agosto 1788) è stato un pittore inglese, attivo soprattutto come ritrattista e paesaggista.
[13] Il dandismo è un comportamento diffusosi durante la Reggenza inglese e la Restaurazione francese. Proprio dei dandy, consiste in un’ostentazione di eleganza dei modi e nel vestire, caratterizzato da forme di individualismo esasperato, di ironico distacco dalla realtà e di rifiuto nei confronti della mediocrità borghese. Influì notevolmente sui movimenti culturali del XIX secolo, e in particolare sul Decadentismo. Il fenomeno del dandismo è stato da alcuni interpretato come puramente superficiale e riguardante unicamente la moda. Col suo stile di vita, il suo atteggiamento e il suo modo di presentarsi, che va oltre la mera esibizione di eleganza nel vestiario, il dandy intende definire in modo inequivocabile i tratti che lo distinguono dalla massa.
[14] Anche il XVIII secolo aveva i suoi influencer, ossia personaggi famosi che lanciavano mode e venivano imitati da una grande quantità di persone. Fra loro il più famoso fu probabilmente Richard Beau Nash (1674-1761). Nato a Swansea in Galles ma attivo soprattutto nella località inglese di Bath, dove fu considerato il principale organizzatore di eventi mondani nonché una sorta di riconosciuto arbiter elegantiae.
[15] Beau Brummell, pseudonimo di George Bryan Brummell, il cui cognome viene anche riportato con la grafia Brummel (Londra, 7 giugno 1778 – Caen, 30 marzo 1840), è considerato colui che meglio rappresentò il dandismo.
[16] Aa.Vv., Introduction by Vivienne Westwood, in Challenges of Plastic, Half Moon – Fotografie di Maxi Miliano, 1995.
[17] Ibidem.
[18] Charles Frederick Worth, (Bourne, 13 ottobre 1825 – 10 marzo 1895) è stato uno stilista britannico. Per tradizione, si fa risalire a lui l’origine della Haute couture francese per come attualmente è intesa e la nascita della figura del couturier come creatore di fogge in senso moderno
[19] Il Victoria and Albert Museum è un museo di Londra, fondato nel 1852 e prende il nome dalla regina Vittoria e dal consorte principe Alberto. È uno dei più importanti musei a livello mondiale dedicato alle arti applicate e alle arti minori, ma non mancano sezioni dedicate alla pittura (soprattutto il disegno), alla scultura e all’architettura. Ospita una collezione permanente di oltre 4,5 milioni di oggetti. La sua collezione comprende oltre 5000 anni di arte, dall’antichità ai giorni nostri, dalle culture d’Europa, al Nord America, Asia e Nord Africa. Il museo possiede la più grande collezione al mondo di opere del Rinascimento italiano al di fuori dell’Italia.
[20] Il Musée des Tissus et des Arts Décoratifs si trova in Francia a Lion, e si compone di due collezioni distinte: la collezione di tessuti e la collezione di arti decorative. Il Museo contiene circa 2,5 milioni di pezzi tra tappeti, tappezzerie, e costumi che raccontano 4500 anni di produzione tessile, dall’Egitto dei faraoni ai giorni nostri, passando dal Giappone, la Cina, l’Oriente, le Americhe, i Paesi Bassi e l’Italia. Il museo delle Arti Decorative, invece, è un museo di collezioni europee, orientali, cinesi e giapponesi, dal Medioevo ai giorni nostri. È il testimone anche degli arredi del XVIII secolo, con un’importante collezione di oggetti, pezzi di falegnameria e gioielleria, tappezzerie e dipinti.
[21] Il pourpoint una giubba o farsetto.
[22] Piatto grande.
[23] Fury A.: 13.
[24] Kelly I., Vivienne Westwood, Odoya, 2015: 72.
[25] Andreas kronthaler (Tirolo, Austria 26 gennaio 1966), è stato l’ultimo marito di Vivienne Westwood. Si sono conosciuti nel 1988, quando lui era un promettente studente della School of Applied Arts di Vienna e lei la sua insegnante.
[26] Il discorso di Vivienne Westwood, registrato al Globe Theatre di Londra nel 2021 in occasione della Cop 26, è un appello contro il cambiamento climatico.
[27] La COP26 è la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021. Da quasi tre decenni l’ONU riunisce quasi tutti i Paesi della terra per i vertici globali sul clima – chiamati COP – ovvero “Conferenza delle Parti”. Da allora il cambiamento climatico è passato dall’essere una questione marginale a diventare una priorità globale.
[28] Bertrand Russell, Bertrand Arthur William Russell, (Trellech, 18 maggio 1872 – Penrhyndeudraeth, 2 febbraio 1970) è stato un filosofo, logico, matematico, attivista e saggista britannico. Fu un autorevole esponente del movimento pacifista nonché divulgatore della filosofia.
[29] Kelly I., Vivienne Westwood, Odoya, 2015: 123.
[30] Foster B., Spiritism. Everything isconnected, CreateSpace Independent Publishing Platform, 2017.
[31] Brian Wayne Foster è uno scrittore, poeta, cantante e narratore americano. È nato a Long Beach ed è cresciuto nel sud della California e nella Central Valley.
[32] Kelly I.: 22-24.
[33] The Vivienne Foundation: https://theviviennefoundation.com/
[34] Kelly I., 2015.
[35] Ibidem: 52.
[36] Ibidem: 54.
[37] In inglese Blitz spirit e Dunkirk spirit: due espressioni che si riferiscono alla capacità del popolo britannico di far fronte ai tempi di guerra e di crisi con grande coraggio e resilienza.
[38] Kelly I.: 55-56.
[39] Ibidem: 67.
[40] Ibidem: 59.
[41] Ibidem, 2015: 65.
[42] Ibidem: 65-66.
[43] Le Brothel Creeper divennero in breve tempo l’icona di un certo modo di intendere la vita e la musica. In Gran Bretagna furono adottate dal movimento dei Teddy Boys che mise a ferro e fuoco il paese nel corso di tutti gli anni ‘50: per molti fu solo una moda, per altri, invece, fu una vera e propria manifestazione della rabbia repressa e dal desiderio di ribellione. Un Teddy Boy non poteva considerarsi tale se ai piedi non aveva delle Brothel Creeper. Sul finire dello stesso decennio, un’intera generazione di giovani musicisti – appartenenti soprattutto alla scena rock and roll e Rockabilly – iniziarono a indossare queste scarpe, che divennero per loro una sorta di simbolo. Il musicista country Carl Perkins dedicò a questa calzatura il brano Blue Suede Shoes, che nel 1956 ripropose in una celebre cover anche Elvis Presley. A tutt’oggi rimane la canzone più famosa mai dedicata a un paio di scarpe.
[44] Lo zoot suit (a volte chiamato zuit suit) è un abbigliamento da uomo consistente in una lunga giacca a spalle molto larghe e pantaloni a vita altissima. Tale stile di abbigliamento divenne molto popolare nelle comunità afroamericane, chicane e italoamericane intorno agli anni quaranta. Gli zoot suit sono spesso accompagnati da un cappello borsalino coordinato con il colore del vestito (occasionalmente decorato con un lungo piumaggio) e da scarpe in stile francese. Altra caratteristica è la presenza di un orologio a taschino nella tasca laterale, penzolante dalla cintura fino al ginocchio.
[45] Gli abiti borghesi forniti ai militari all’atto della smobilitazione.
[46] Kelly I.: 76-77.
[47] Ibidem: 79-80.
[48] Le winklepicker o pikes sono un tipo di calzatura, sia di scarpa che di stivaletto, a punta, di pelle o di velluto nate negli anni cinquanta ma diventate molto note negli anni sessanta, indossate prima quasi soltanto da uomini, e poi anche dalle donne. La particolarità che dà loro questo nome è data dalla punta della scarpa, molto affusolata e lunga, che riprende la forma delle calzature medievali
[49] Alan George Heywood Melly (17 agosto 1926-5 luglio 2007) è stato un cantante, critico, scrittore e conferenziere jazz e blues inglese. Dal 1965 al 1973 è stato critico cinematografico e televisivo per The Observer. Ha anche tenuto conferenze sulla storia dell’arte.
[50] Humphrey Richard Adeane Lyttelton (23 maggio 1921-25 aprile 2008), noto anche come Humph, è stato un musicista jazz inglese.
[51] Absolute Beginners, è un romanzo di Colin MacInnes, scritto e ambientato nel 1958 a Londra, in Inghilterra. È stato pubblicato nel 1959. Il romanzo è il secondo della trilogia londinese di MacInnes, dopo City of Spades (1958) e prima di Mr. Love and Justice (1960). Questi romanzi sono ciascuno autonomo, senza personaggi condivisi. Il romanzo è scritto in prima persona dal punto di vista di un fotografo freelance adolescente, che vive in una parte fatiscente ma vibrante di West London che chiama Napoli. L’area ospita un gran numero di immigrati caraibici, oltre a inglesi ai margini della società, come omosessuali e tossicodipendenti. I temi del romanzo sono le opinioni del narratore sulla cultura giovanile appena formata e la sua fissazione per i vestiti e la musica jazz, il suo amore per la sua ex fidanzata Crêpe Suzette, la malattia di suo padre e le tensioni razziali ribollenti nell’estate del Notting Rivolte. Le rivolte razziali di Notting Hill furono una serie di rivolte a sfondo razziale che ebbero luogo a Notting Hill, a Londra, tra il 29 agosto e il 5 settembre 1958.
[52] Colin MacInnes, (Londra, 20 agosto 1914 – Kent, 22 aprile 1976) è stato uno scrittore e giornalista britannico.
[53 ] Thomas Steven Roberts (6 febbraio 1942 – 10 dicembre 2012) è stato uno stilista e imprenditore di moda inglese che gestiva importanti punti vendita indipendenti.
[54] Kelly I.: 79-81.
[55] Sid Vicious, pseudonimo di John Simon Ritchie (Londra, 10 maggio 1957 – New York, 2 febbraio 1979), è stato un bassista e cantante britannico, membro della band punk rock Sex Pistols.
[56] Manifestazione artistica d’avanguardia, in voga dalla fine degli anni ’50 negli Stati Uniti, e poi diffusa anche in Europa a partire dagli anni ’60, caratterizzata dall’improvvisazione e dalla partecipazione del pubblico all’evento (teatrale, musicale, pittorico).
[57] Kelly I.: 91-93.
[58] God Save the Queen è il secondo singolo discografico dei Sex Pistols. Fu pubblicato il 27 maggio 1977, durante il giubileo d’argento di Elisabetta II del Regno Unito. Nonostante molti credano che la canzone sia stata creata appositamente per il Giubileo, la band ha sempre negato ciò: «Non è stata scritta specificatamente per il Giubileo della regina. Non eravamo informati di questo all’epoca, non era un’opera studiata a tavolino per venire fuori e scioccare tutti». Johnny Rotten, membro del gruppo, spiegò poi il significato del testo: «Non si scrive una canzone come God Save the Queen perché si odiano gli inglesi. Si scrive una canzone come questa perché si amano e si è stanchi di vederli maltrattati». I Sex Pistols infatti originariamente intendevano intitolare la canzone No Future, ma il loro manager Malcolm McLaren, sapendo dell’imminente Giubileo d’Argento della regina, convinse la band a cambiare il nome del singolo in God Save the Queen, e ne ritardò l’uscita per farla coincidere con la manifestazione.
[59] Kelly I.: 126-128.
[60] Ibidem: 114.
[61] Torcinovich M., Don’t call it punk. Storia illustrata dell’anno che cambiò per sempre la musica, Goodfellas, 2022.
[62] Fury A., Vivienne Westwood. Sfilate. Tutte le collezioni, L’Ippocampo, 2021.
[63] Fury A., Vivienne Westwood. Sfilate. Tutte le collezioni, L’Ippocampo, 2021.challenges
[64] John Stuart Mill (Londra, 20 maggio 1806 – Avignone, 8 maggio 1873) è stato un filosofo ed economista britannico, uno dei massimi esponenti del liberalismo e dell’utilitarismo e membro del Partito Liberale. Considerato uno dei pensatori più influenti nella storia del liberalismo classico, Mill contribuì ampiamente allo sviluppo della teoria politica e dell’economia politica.
[65] François Boucher (Parigi, 29 settembre 1703 – Parigi, 30 maggio 1770) è stato un pittore francese.
[66] Jean-Honoré Fragonard Grasse, 5 aprile 1732 – Parigi, 22 agosto 1806) è stato un pittore francese, importante esponente del Rococò e uno dei maggiori artisti francesi del XVIII secolo.
[67] La Collezione Wallace accoglie una delle migliori collezioni d’arte di Londra. L’estesa collezione contiene più di 5.000 oggetti raccolti da quattro generazioni della famiglia Hertford. Gli elementi più interessanti della collezione sono le porcellane di Sevres, i dipinti francesi e i mobili originali della casa, che costituiscono una parte importante della raccolta. La Wallace possiede grandi tesori artistici, come i dipinti di Tiziano, Rembrandt, Rubens, Van Dyck, Velázquez e Canaletto, oltre a un’eccellente raccolta d’armi e armature, sculture medievali e del Rinascimento, ad alcuni oggetti in vetro, bronzo e oro esposti nel percorso delle sue 25 gallerie. Si trova in uno splendido edificio del XVIII secolo.
[68] Frans Hals (Anversa, 1580 – Haarlem, 26 agosto 1666) è stato un pittore olandese. Quasi contemporaneo di Rembrandt operò nei Paesi Bassi durante il cosiddetto periodo d’oro della loro pittura
[69] Il Dirndl è un abito tradizionale ispirato al costume tradizionale delle classi elevate, diffuso nella parte meridionale della Germania, in Austria, nella Svizzera di lingua tedesca e in Trentino Alto Adige, nella Valcanale friulana. I vestiti ispirati al Dirndl sono conosciuti come Landhausmode.
[70] Fury A., Vivienne Westwood. Sfilate. Tutte le collezioni, L’Ippocampo, 2021: 9.
[71] Keith Allen Haring (Reading, 4 maggio 1958 – New York, 16 febbraio 1990) è stato un pittore e scrittore statunitense, uno degli artisti più noti del XX secolo grazie al suo stile che risulta immediatamente riconoscibile anche ai non addetti ai lavori. Tramite la sua arte, lo statunitense Keith Haring, tra i maggiori Street artist di sempre, si è fatto portatore dei temi sociali e politici più in voga dell’epoca, come la difesa dei diritti civili e la lotta contro le discriminazioni nei confronti delle minoranze, contro il razzismo e l’omofobia. Inoltre, si è mosso come capofila per la campagna di sensibilizzazione contro l’assunzione di crack e si è espresso più volte favorevolmente riguardo all’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole, al fine di evitare la diffusione di malattie sessualmente trasmissibili.
[72] Fury A.: 12.
[73] Ibidem.  
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Laura D’Alessandro, ricercatrice, dopo la laurea in Sociologia, presso l’Università La Sapienza di Roma, ha conseguito il Master in Cittadinanza europea e integrazione euromediterranea: i beni e le attività culturali come fattore di coesione e sviluppo presso l’Università Roma Tre (in collaborazione con il Ministero dei Beni culturali). Ha svolto attività di docenza su tematiche legate all’identità e alla storia del Mediterraneo presso l’Università Roma Tre e su esperienze progettuali finanziate dai fondi europei nel settore dei beni culturali, delle imprese creative e delle politiche sociali presso l’Università di Salerno. Ha pubblicato il saggio Mediterraneo crocevia di storia e culture. Un caleidoscopio di immagini, sui tipi de L’Harmattan, 2011 (ristampa 2016), con il quale ha vinto il Premio Letteratura, Poesia, Narrativa, Saggistica (XXXII edizione – 2016), dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli. Collabora con riviste e periodici.

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