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Vivere i paesi. Ripensando il Primo Maggio

 

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locandina del film di Eisinstein, Alexamder Nevsky

il centro in periferia

di Pietro Clemente

Il partito della morte

Al 15 aprile l’Italia aveva 114.254 morti. Il 1° marzo, quando scrivevo il precedente editoriale, erano 95.718. Questa strage continua, ormai appena accennata dai telegiornali, che guardano piuttosto al lento calo del ‘plateau’. È davvero insopportabile: da parte mia ci sono forse ragioni corporative, perché la mia generazione e quella più anziana va via via scomparendo nella indifferenza generale. Le Regioni che hanno perso più vite, in un gioco paradossale di menzogne, si presentano come quelle che vogliono tornare al più presto alla vita normale e i Presidenti delle Regioni leghiste insieme al loro segretario nazionale si coordinano per agitare il bisogno di riaprire. E questo in Regioni dove l’attività produttiva non si è mai interrotta e la chiusura è stata limitata a pochi settori ma i morti sono più del 50% del totale nazionale. Vogliono apertura e morte.

L’incredibile paradosso di questa politica mi ha fatto pensare alla destra italiana come analoga a quella dei Crociati che cercano di invadere la Russia nel film di Eisenstein Alexander Nevsky (1938) e che il 5 aprile 1242 sul lago Peipus furono sconfitti.  Queste problematiche della vita e della morte evocano dentro di me immagini profonde. Così dal mio passato di cinefilo e di co-responsabile del CUC (Centro Universitario Cinematografico) cagliaritano torna a galla il conflitto sul lago ghiacciato. Me lo sono andato a rivedere su You Tube. Con la musica drammatica e infine epica di Sergej Prokofiev. I crociati con la croce di Malta sul petto, professionisti della guerra, aggressori, ordinati militarmente e simili all’esercito tedesco hitleriano, si oppongono a un popolo vario che, costretto, trova il coraggio e le risorse per combattere e per salvare le proprie terre. Il mio desiderio è che la gente delle varie Regioni del Nord possa rendersi conto della situazione e sconfiggere il partito della morte, sempre protervo e aggressivo nonostante la tragica prova di inefficienza mostrata durante la pandemia. Che sia il ‘partito dei morti’, dei loro familiari ed amici, della consapevolezza della perdita che rappresentano, ad averla vinta.

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Mario Draghi e il sindaco di Bergamo per l’inaugurazione del Bosco della Memoria

Storie

Il 18 marzo, nella giornata scelta per ricordare le vittime del Covid, il Presidente del Consiglio ha voluto inaugurare a Bergamo il “Bosco della Memoria”. Nel suo discorso ha ricordato la storia di alcune persone morte di Covid a nome di tante, tantissime che non riusciremo a ricordare. Draghi ha menzionato «le figure simbolo di resistenza civile di questa comunità», come don Fausto Resmini “il prete degli ultimi”, a cui è stato intitolato il carcere di Bergamo di cui era il cappellano; Piero Busi, primo cittadino per 59 anni di Valtorta; Giorgio Valoti di Cene, 70 anni, sindaco al suo quarto mandato. Tra gli operatori sanitari: Maddalena Passera, medico anestesista: «deceduta a 67 anni poco dopo suo fratello Carlo, medico di base». E ancora: «Diego Bianco, 46 anni, operatore del 118 della Soreu di Bergamo. Tra le forze dell’ordine, l’appuntato scelto dei Carabinieri Claudio Polzoni, 46 anni. Con loro ricordiamo tutte le vittime della pandemia e ci stringiamo intorno alle loro famiglie». Nonostante che la targa inaugurata fosse teocentrica e inaccettabile dai laici, dagli agnostici e dagli atei, l’importanza del ricordare, il valore delle persone che non ci sono più, assunta dalle cariche principali dello Stato, ha fatto in pratica da contrasto al partito della morte.

Anche questa volta nella pagine de Il centro in periferia abbiamo ospitato delle storie di dolore e di lutto sotto il titolo di Umane dimenticate istorie, per dare una idea della enorme, difficile, volontà di memoria che si accompagna a questo incommensurabile numero di morti da Covid. Non ci sarà mai nessuno che potrà nominare tutti quei 114.254 morti in sequenza. Le storie che qui pubblichiamo sono davvero intense e commoventi e fanno percepire i valori della solidarietà, dell’umanità, della ricchezza e del rispetto degli altri, dei valori importanti della vita, quelli che non hanno a che fare col PIL ma con le geografie minute del fare e del sentire della vita. Quelle dalle quali l’economia dovrebbe partire per riprogettarsi.

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Elena Pulcini

Quelle che pubblichiamo sono storie drammatiche e dolorose che comunicano l’intensità dei sentimenti e che testimoniano ancora una volta la ‘solitudine del morente’, l’insicurezza di una casa di riposo, il sacrificio dei medici di base, il senso comunitario di tante persone. Il ricordo di Tony, regista e attore, di Gino medico di base e collaboratore di Medici Senza Frontiere, di Enzo medico di base al servizio delle persone, e di Carlo «un uomo normale, che non poteva sperare in due righe nei libri di storia» ma era perno di una comunità, danno immagini intense alla tragedia dei morti, in crescita quotidiana, che vorremmo fossero tutti ricordati. Voglio aggiungere al loro, il ricordo di una collega dell’Università di Firenze, la cui morte per Covid ho letto dai giornali. Perché Elena Pulcini, filosofa sociale, aveva scritto nelle sue opere e in specie nell’ultima, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale (Bollati Boringhieri, 2009), cose che ci aiutano a capire e pensieri ai quali possiamo fare ricorso in questo tempo così doloroso e così bisognoso di cura basata su un forte cambiamento delle nostre vite.

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Castel del Giudice (ph. Emanuele Scocchera)

Tra passato e futuro

Il tempo che viviamo ci impone di orientarci verso cambiamenti, adattamenti, desideri di portare il passato nel futuro tenendo conto delle nuove condizioni della vita. Anzi è nell’elaborazione dei bisogni all’interno delle forme del tempo nuovo che si gioca la capacità creativa di chi non crede che si debba tornare al come prima. Si deve cercare di capire cosa è successo (a partire dalle filiere del gigantesco commercio mondiale delle carni) per orientarsi nel nuovo mondo che dovrà nascere.

Già nell’estate scorsa molte manifestazioni popolari religiose e laiche sono state di fronte alla scelta di tacere o di cambiare. Tra aspettare per rifare una festa com’era in passato o agire nelle nuove condizioni date. Questa sembra essere la prova della verità e del futuro: essere consapevoli che nulla tornerà come prima. Chi osa sperimentare nuove forme si avvia verso un percorso che guiderà tutti. Nelle pagine di intensa scrittura poetica, narrativa e descrittiva di Vito Teti sulla Pasqua in Calabria, emerge il bisogno dei valori religiosi e sociali delle feste. In queste occasioni oggi viene data vita a forme attenuate, quasi private di ritualità e, in certi casi, viene restituito senso profondo al rito rispetto alla esteriorità delle consuete pratiche processionali, talora in difetto di anima. In ascolto lungo la sua larga rete di voci che da varie parti della Calabria e del sud lo chiamano, Vito Teti costruisce una teoria leggera, appena tracciata, che fa pensare a una fase di «salvaguardia collettiva». Nel senso che questo termine assume nel patrimonio culturale, di «trasmissione della tradizione adattandola ai bisogno di nuove generazioni e di nuovi tempi».

Il compito degli antropologi è quello di essere in ascolto di questi processi, in cui è dal basso, dalla gente, da nuovi fermenti comunitari, che vengono azioni significative stimoli a guidarci nel dare forma alla cultura del cambiamento in cui siamo coinvolti. Una cultura che persegua i temi della partecipazione, delle comunità patrimoniali, della convenzione di Faro, che traversano anche altri testi del Centro in periferia (La Morgia, Cusumano, Ricchiuto, Palma) mostrando esperienze che risultano meticciate e trasformative.

Un tema importante riguarda il turismo rurale (Uleri-Meloni), che affronta lo scenario storico del rapporto tra agricoltura, ruralità, mercato alimentare e turismo. E mostra la crescita di una dimensione rurale innovativa che si ritrae rispetto alle logiche del mercato produttivistico del campo alimentare e crea nuovi circuiti ricchi di pluralità di soggetti attivi, capaci di una nuova offerta di uso del territorio riuscendo così a modificare la dimensione turistica. Questi processi ribadiscono che le zone interne, anche se nei tempi lunghi e con ritmi quasi segreti, sono capaci di innovazione e sono centrali oggi davanti alla crisi totale che viviamo. È, in fondo, anche una risposta a quella passione etica ed estetica per i paesi abbandonati, ma priva di basi pratiche, che viene criticata dal sindaco di Castel del Giudice, Lino Gentile, intervistato da La Morgia. Nel suo straordinario racconto ci parla delle difficoltà, delle casualità, delle buone volontà, degli appelli costanti alla collaborazione, dell’ascolto delle differenze e dei conflitti, che costituiscono il lavoro di un sindaco in un contesto di resilienza. Il Sindaco inoltre indica la possibilità di avvalersi degli Sprar per la rinascita dei luoghi e delle cooperative di comunità per la gestione dei servizi. Sono due temi presenti nelle nostre pagine, soprattutto il secondo sul quale cerchiamo anche di svolgere una sorta di censimento. Sugli Sprar abbiamo finora raccolto pochi casi (Riace e Borgotaro). Questo resta un nodo di difficile gestione nel campo del riabitare e dello sviluppo locale.

In questi tre primi testi (Teti, Meloni, Gentile-La Morgia) c’è – per me che curo queste pagine – una straordinaria intersezione tra i temi del turismo, della società civile, della pratica delle comunità patrimoniali cui abbiamo dato rilievo come nodi centrali del ‘riabitare’ le zone interne. Con il testo di Francesco Faeta si aggiunge il tema dei musei, come risorse per la vita e lo sviluppo locale. Il suo racconto su Lacedonia e sul “Museo Antropologico Visivo Irpino” (MAVI) legato alle foto di Cancian [1], è quasi una metafora di tanti ‘sguardi di chi viene da fuori’ sui paesi, sguardi che hanno accompagnato ed aiutato la rinascita delle zone interne e sono diventati potenziali fermenti per sviluppi locali. Ma sono anche testimonianza di un dialogo positivo tra museo e pro-loco dove vengono valorizzate figure rilevanti all’interno della comunità come Gino Chicone ed esterne come Cancian.

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Lisetta Gamberi con i Torelli maremmani, maggio 2019 (ph. Barbara Busoni)

Vivere i paesi

Le testimonianze di Grato e di Adriani ‘incarnano’ la vita difficile di chi vive i paesi e di chi lotta e testimonia i processi locali. Dal dover condividere aspetti di una vita storicamente legata al mondo mafioso, al dover sapere che le battaglie per la rinascita di un edificio storico prestigioso, che darebbe nuova vitalità a una piccola comunità, passa quasi subito in secondo piano nei finanziamenti per la poca pressione elettorale. In entrambi i casi lo scarso potere di contrattazione è quasi un dato a priori dei piccoli centri e rende ogni azione e ogni passo doppiamente faticoso rispetto ad altri contesti. In entrambi questi testi intensamente vissuti che emergono dal ‘campo’, si percepisce quel forte ‘senso di luogo’ che fa sì che ci si opponga all’esodo e si lotti per la rinascita. Un nodo che nasce nelle periferie e che – da ‘coscienza di luogo’ – diventa anche ‘sentimento del luogo’.

È in questi mondi difficili, che talora appaiono quasi impraticabili, che nascono, grazie a leggi regionali e a giovani energie, dei fiori quasi inimmaginabili, come le esperienze che ci vengono descritte da Palma e Ricchiuto. Tali esperienze sono localizzate soprattutto nella Puglia salentina e sono impegnate a valorizzare il territorio in un forte nesso tra il riconoscimento dei saperi e delle memorie e un tipo nuovo di turismo. Un turismo che è anche scoperta del territorio e delle sue storie da parte di chi ci vive, oltre che traccia di altri mondi per lo più ignorati perfino dal turismo più attento alla cultura locale. Si muovono entrambi su due temi di indirizzo dell’Unesco: le passeggiate patrimoniali e il mondo del patrimonio immateriale (saperi, memorie, pratiche).

Si tratta di una frontiera ampia che offre risorse al riabitare i luoghi, e che si connette alle grandi reti che hanno avuto in questi anni riconoscimenti come buone pratiche o come esperienze importanti di comunità. È recentissima la scelta dell’Italia di dare avvio alla candidatura di rete sulle comunità ludiche, che ha come riferimento il Tocatì, il grande festival delle pratiche di gioco che si svolge ogni anno a Verona.

Si tratta di una candidatura transnazionale relativa al Registro delle Buone Pratiche della Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale con capofila l’Italia e comprendente Belgio, Cipro, Croazia e Francia. Tale candidatura intende tutelare i giochi antichi, radicati nella vita quotidiana delle comunità e rientranti a pieno titolo in quelle pratiche sociali in grado di diventare espressioni della vita quotidiana, di riti e contesti festivi comuni ad ampie aree di Europa (comunicato CNUI).

Il tema del patrimonio immateriale e delle agenzie internazionali è presente anche nella recensione a Katia Ballacchino, Letizia Bindi e Alessandra Broccoli, Ri-tornare. Pratiche etnografiche tra comunità e patrimoni culturali (Cusumano) dove vengono raccontate esperienze di valorizzazione locale in varie parti d’Italia, tra musei e beni immateriali. Nella recensione a Antonino Colajanni, Lia Giancristofaro, Viviana Sacco Le Nazioni Unite e l’antropologia (Martellozzo) è in evidenza il ruolo attivo e positivo degli indirizzi internazionali anche nell’ambito dello sviluppo locale. Mi piace infine connettere la recensione (Golino) del libro di Rossano Pazzagli, Un Paese di paesi. Luoghi e voci dell’Italia interna, e i due documenti della Rete sarda delle associazioni, alle battaglie in corso, e quindi alla rivendicazione che il New Generation Eu possa avviare un nuovo tipo di sviluppo finalizzato ai luoghi.

L’aspetto più positivo di questo nuovo numero di Dialoghi Mediterranei per la sezione Il centro in periferia, è il fatto che tutti i contributi pervenuti fanno parte di un fronte comune, frastagliato e plurale, in cui i problemi si rimandano e sono in qualche modo disponibili a trasformarsi in connessioni attive.

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Maggerini della Maremma, 2018

Ben venga maggio

Anche quest’anno le feste della primavera non ci saranno. Né la primavera della democrazia postfascista, né la primavera contadina con i canti del maggio. Sono stato per tanti anni un fedele seguace del canto del maggio che girava per i poderi la notte del 30 aprile, ho seguito dal pomeriggio alla notte questi cantori comunitari che in passato a piedi, ed ora in macchina, girano per le case della campagna a fare auguri per la stagione cantando versi di omaggio alla primavera. Li ho seguiti come un professore che segue il suo oggetto di studio, lo registra, lo racconta e pian piano ne diventa una parte. Inconsapevolmente anticipavo la mia attenzione ai piccoli paesi. Questi riti erano celebrazioni di una comunità che si riconosce nella sua pluralità di insediamenti e di storie. I maggerini (o maggiolini) con i cappelli fiorati e gli strumenti musicali andavano cantando di casa in casa, ricevendo accoglienza con bevute, merende e soldi per un pranzo finale: la ‘ribotta’ cui era invitato tutto il paese. È un rito che ridefinisce e ricompone ogni anno la comunità di fronte alla stagione dei lavori e dei raccolti. Anche nei vuoti e nei pieni: «qui c’era la famiglia xy, ora non c’è più. Quest’anno si fa prima a tornare perché in vari centri non abita più nessuno». Il presente e il ripasso del passato. Li ho seguiti di anno in anno soprattutto a Castiglione d’Orcia, che è stato per tanti aspetti il mio paese prediletto, ma soprattutto in Maremma, tra provincia di Grosseto e di Livorno. Aspettando anche io come loro questa sera speciale per rivivere dentro un rito.

Dal maggio alla montagna/ un canto già si sente
È il maggio che ritorna/ allegramente
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Maggio in casa (ph. Marco Bruttini)

Sono anni che non vado più a seguire il Maggio e negli ultimi due il mio desiderio di tornare è stato gelato dal Covid. Forse anche qui, in tanti luoghi, piccoli paesi ancora vivi e resilienti, dovrebbero fare come dicevo dialogando con Vito Teti all’inizio di queste pagine. Inventare una festa ibrida, resa diversa dalle circostanze, che resti immutata nel cuore. Non fatta solo nella scatola del computer come già si è visto fare con zoom e altre piattaforme, ma anche nello spazio reale, quello di cui si può fruire a distanza di sicurezza. I riti del calendario annuale non possono non essere celebrati. Nuovi agenti come i Comuni, reti di scambio e di sostegno, se ne devono far carico perché il peso di innovare non caschi solo sulle incerte spalle di piccoli gruppi di appassionati della tradizione. Avrei dovuto farmene sollecitatore ed ho perso una occasione importante.

La Sagra di Sant’Efisio, che si tiene il 1° maggio, quest’anno si fa in modo ridotto, senza pubblico, solo portando il santo nel percorso tra Cagliari e Nora. Il rito si compie lo stesso e il voto viene sciolto. Così potrebbe essere un po’ dappertutto: recuperare l’essenza di un rito, inventare nuove modalità di partecipazione.  Il 1° maggio a Cagliari è un pezzo della mia vita, mi sollecita a ripassarla. E devo confessare che da piccolo mi annoiava la grande sfilata dei costumi che accompagna il cocchio di Sant’Efisio, santo dai sottili baffi e pizzetto spagnoleggianti. Da giovani andavamo a contestare la processione del santo e a contrastare la retorica del maggio radioso, riferimento nostalgico alla prima guerra mondiale. Davamo alla folla in festa volantini dedicati al Primo maggio dei lavoratori, festa internazionale che traversa i nazionalismi e mette al centro il mondo del lavoro. I grandi riti servono anche per essere contestati e la mia generazione lo ha fatto. Solo due anni fa mi sono riconciliato con questa festa, l’ultima prima del Covid, incontrandola per strada e vedendone i tanti aspetti di cambiamento, quasi una rassegna di una Sardegna cangiante.

«Ben venga Maggio», comunque, «e il gonfalone antico, ben venga primavera». La rivista e la sua sezione Il centro in periferia, che esce oggi, augura a tutti un buon Primo maggio.

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Francesco Faeta, Tra antiche appartenenze e rinnovate speranze: il lavoro di Frank Cancian a Lacedonia negli anni Cinquanta, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 46, novembre 2020.

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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021).

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