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Verità processuali, verità storiche, verità negate

279088080_2689576357853768_4126813763145448776_ndi Antonio Ortoleva

«È arrivato il momento di seppellire i nostri morti». Con queste parole, due anni fa, Claudio Fava aprì un nuovo capitolo del movimento antimafia, nell’anniversario della strage Borsellino. Proprio lui, orfano del padre Pippo, entrambi giornalisti, scrittori e uomini di cinema, falciato nel 1984 sotto il piombo dei killer. Un mormorio di sorpresa salì dalla platea del cinema arena Argentina a Catania, nella manifestazione organizzata da Memoria e Futuro, l’associazione che, come tante altre, si batte, in assenza di una completa verità giudiziaria, per costruirne una storico-politica sugli eccidi di Cosa nostra e sui grandi delitti.

Perché è notorio quanto la storia italiana del secondo Novecento sia anche una storia di attentati e di cadaveri eccellenti, una storia di stragi, in gran parte ancora senza colpevoli certi, e quanto il nostro sia l’unico Paese occidentale attraversato da una scia rossa di sangue lunga 45 anni, che muove da Portella della Ginestra e conduce sino a via D’Amelio, con l’autobomba che uccise Paolo Borsellino e la sua scorta. Una storia di depistaggi, di carte e agende rosse sparite, di processi infiniti, bis e tris, di deposizioni fasulle e devianti per sparigliare le carte e di rivelazioni vere trascurate ad arte. Un pandemonio investigativo e processuale che, proprio adesso nel trentennale di Falcone e Borsellino, evidenzia un’ombra nera e minacciosa, un tumore nella storia recente del Paese, che dovremmo consegnare alle generazioni future.

9788868265960_0_536_0_75La roccaforte dell’attacco allo Stato, con la complicità e i mandanti di una parte di esso, è la Sicilia che già nel 1943, dopo lo sbarco anglo-americano, diventa il laboratorio geo-politico della futura guerra fredda e della strategia della tensione. Si viene a formare in quei due anni di interregno una sorta di governo provvisorio che vede alleate figure istituzionali a personaggi oscuri, diabolica consorteria unita nell’intento di ristabilire l’ordine e stroncare le rivolte del movimento contadino alla fame. Ne accenno nel mio libro uscito lo scorso anno Non posso salvarmi da solo (Navarra Editore), reportage storico sulle orme di un giovane siciliano delle Madonie, partigiano per caso ed eroe civile per scelta.

Invece delle riforme, si fa politica con le bombe e la mitraglia. Da qui, l’uccisione di sindacalisti, Placido Rizzotto valga per tutti, sedi di partiti di sinistra e Camere del lavoro attaccate o distrutte, sino a Portella, la madre di tutte le stragi. Ne sono protagoniste le medesime componenti che firmeranno gli eccidi futuri nel Paese: criminali fascisti, mafia, servizi segreti stranieri, membri di istituzioni e latifondisti, la grande imprenditoria retriva del tempo, che intese mantenere quel sistema feudale da cui proviene il flusso migratorio successivo e l’arretratezza odierna dell’Isola.

9788861909786_0_536_0_75Per confermare la tesi, basterà menzionare chi fossero i capi della polizia e dell’esercito con giurisdizione su tutta la Sicilia: il questore Ettore Messana e il generale Paolo Berardi, entrambi provenienti dalla Slovenia ed entrambi nell’elenco dei criminali fascisti delle Nazioni Unite, per il disastro umanitario compiuto dal regime italiano nei Balcani, entrambi prosciolti in modo sbrigativo a Roma e inviati a Palermo. Ai quali si aggiunge l’inquietante presenza per lunghi periodi, sia a Palermo che alle falde dell’Etna, del “principe nero”, quel Valerio Junio Borghese, mitico e oscuro comandante della Decima Mas, prima imputato e poi prosciolto, dopo pochi mesi di carcere, per crimini di guerra.  

De Mauro, Scaglione, Impastato, Francese, Giuliano, Terranova, Mattarella, Basile, Costa, La Torre, Giaccone, Dalla Chiesa, D’Aleo, Chinnici, Montana, Cassarà, Grassi, Falcone, Borsellino. Una sequenza infernale e solo a Palermo e in sequenza cronologica solo i delitti più eclatanti, magistrati, giornalisti, medici, imprenditori, dirigenti di polizia, ufficiali dei carabinieri, deputati, un prefetto. Nonché le bombe e le vittime di via dei Gergofili a Firenze e di via Palestro a Milano, l’uccisione infine, a sigillo della fine della guerra di mafia, del parroco di Brancaccio, don Pino Puglisi.  Effetto di quella feroce consorteria cresciuta nel dopoguerra.

51psdfal0ol-_sx354_bo1204203200_Una via crucis, una via giudiziaria carica di ombre e coraggio, di gran lavoro di alcuni, sulla spinta morale per la morte dei colleghi, e di imbrattamento di prove e collusioni da parte di altri, affollata da organizzazioni segrete come la Gladio, Stay-behind, team paramilitare inventato dalla Nato per contrastare l’invadenza sovietica, la P2 di Licio Gelli, movimenti nazi-fascisti italiani, il gruppo Bilderberg, il club esclusivo della finanza mondiale, servizi nostrani deviati.

In questo quadro demoniaco, sembra dunque impossibile giungere a una verità giudiziaria sugli anni del terrorismo politico-mafioso che hanno manomesso il normale svolgimento della vita democratica e dello sviluppo economico del Paese? Risponde Armando Sorrentino, importante avvocato palermitano, parte civile nei principali processi sui delitti politici – Dalla Chiesa, La Torre, Borsellino – nonché autore di libri sugli intrecci tra mafia e politica.

«Al momento non l’abbiamo, lo Stato dovrebbe riconoscere di aver avuto parte attiva. Quello Stato che cede alla criminalità organizzata una fetta del suo potere, a cominciare alla gestione dell’ordine pubblico. Si è scelta la strada di affidare tutte le responsabilità alla Cupola di mafia, scelta riduttiva e tranquillizzante, niente terzo livello. E nel frattempo i servizi segreti, che non indagarono su chi avrebbero dovuto, gettavano la palla in tribuna. Documenti desecretati? Da Washington qualcosa, a Roma ancora nulla. Eppure, forse la prima e l’unica verità giudiziaria che si potrà raggiungere verrà a breve dalla deposizione della sentenza sulla strage di Bologna, anch’essa depistata. Esecutori Fioravanti, la Mambro e Cavallini. E nel ruolo di mandanti Umberto D’Amato, Tedeschi, Ortolani e Gelli. Dietro, il livello più alto, probabilmente internazionale».
«Il nostro realismo politico – continua il penalista – ci induce a non dimenticare che veniamo dai trattati di Yalta e Parigi, la nostra democrazia nasceva di fatto limitata, la guerra era contro il comunismo, la propaganda sosteneva che i comunisti italiani avrebbero conquistato militarmente il potere, invece la via scelta fu quella democratica, una via che, mentre una parte del sistema apriva le porte, spiazzava la geopolitica. E intendo non solo Usa e Nato, ma anche l’Urss, la via italiana al socialismo era pericolosa anche per Mosca, avrebbe infettato i Paesi del Patto di Varsavia».

Ascoltiamo adesso due giornalisti di provata esperienza sul campo, Giuseppe Lo Bianco de Il Fatto quotidiano ed Enzo Mignosi, per decenni cronista del Giornale di Sicilia e corrispondente del Corriere della Sera, entrambi palermitani e autori di libri.

Dice Lo Bianco:

«Penso che, a distanza di 30 anni da Falcone e Borsellino, una verità processuale piena appaia molto difficile da ottenere, ma ciò non ci deve indurre a rinunciare a una verità storica che va cercata, con un salto paradigmatico, non dentro una struttura alternativa allo Stato, ma dentro un sistema che possiamo definire Mafia-Stato e dentro i suoi labirinti. Bisogna trovare le ragioni che hanno indotto Cosa nostra e altri poteri al salto di qualità, superando la distanza dei fatti e le difficoltà sul piano della prova. Dentro una ricerca storica ci sono tutti gli elementi con basi fattuali, c’è il cuore della verità. Tanti i documenti per ora sepolti negli archivi, va dunque sollecitata, sul profilo normativo, la loro apertura. Sul ruolo dell’informazione non m’illudo, ma dentro le carte a disposizione sono certo che troveremo il percorso che porta alla verità storica. Tuttavia, registro dei dati – conclude Lo Bianco – a 70 anni da Portella non abbiamo una lettura univoca, storici come Renda, Lupo e Mangiameli fanno analisi differenti, mentre un preside di scuola media di Partinico, Giuseppe Casarrubea – sulla spinta dell’uccisione del padre – è riuscito a mettere in discussione quelle teorie. Abbiamo bisogno di una lettura univoca della nostra storia, come accade per altri Paesi».

Mignosi non ha dubbi:

«Dovere nostro è consegnare, al di là delle sentenze, una verità storica indiscutibile alle nuove generazioni su questi 50 anni di misteri e di depistaggi, il più clamoroso è relativo alla strage Borsellino, depistaggio documentato ad opera delle istituzioni, in quegli anni arriva Catullo, uomo dei servizi e c’era una strategia chiara a intorpidire le acque. Costituito il gruppo stragi dal questore Arnaldo La Barbera, si inventa un pentito, sino a che bussa alla porta quello vero. Verità processuale? Sono scettico, se pezzi dello Stato lavoravano contro chi faceva il proprio dovere, se quasi tutti i misteri sono rimasti irrisolti, se la mancata cattura di Messina Denaro, uomo chiave delle stragi e della Trattativa, si è trasformata in una latitanza protetta. Si spiega perché Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice, continua a chiedere che si indaghi a fondo, in particolare sul dossier mafia e appalti, dove i coinvolti sono di alto livello».

Quasi cinquant’anni fa aveva compreso tutto Pier Paolo Pasolini, pubblicando in prima pagina sul Corriere della Sera di Piero Ottone quel celebre articolo-poema Io so: «io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre…». La poesia come la storia può offrire risposte inequivocabili.

Adriana Laudani, presidente di Memoria e Futuro e già docente universitaria, ha dedicato la sua vita alla cultura della legalità, dopo essere stata giovane assistente di Pio La Torre. Dice:

«Trent’anni dopo, abbiamo l’obbligo, oltre che la necessità, di lavorare perché emerga, possiamo dire la verità storica su una fase buia della storia d’Italia. Ciò che risulta dai documenti in nostro possesso, inchieste giornalistiche e giudiziarie, ci consente di individuare i tratti essenziali nonché la forza di dare un nome a ciò che è accaduto. Le stragi a partire dagli anni ’70, che hanno segnato i decenni successivi, ci consegnano una verità terribile. La mafia, in sinergia con altri poteri occulti e criminali, P2, servizi segreti nazionali e stranieri, ha fatto politica attraverso l’uso di armi ed esplosivi. Il fine è troppo evidente per essere negato: impedire che la democrazia potesse dispiegarsi in forma normale, distruggere il più grande partito della sinistra, il Pci, garantire la conservazione di centri di potere che hanno fatto il bello e il cattivo tempo».
«La strategia è andata molto oltre la questione comunista – continua Adriana Laudani – si è dispiegata a difesa di interessi economici e finanziari che avevano bisogno di una precisa rappresentanza politica, escludendo le sinistre. L’Italia ha così vissuto una democrazia dimezzata e sotto ricatto. Pio La Torre lo diceva prima di essere ucciso, diceva che la mafia, anche per conto di altri, fa politica uccidendo».
Adriana Laudani

Adriana Laudani

Innumerevoli indizi convergenti conducono a un movente unico. L’Italia ha pagato con il sangue e un corto circuito democratico non solo la presenza ingombrante di Cosa nostra – che all’oggi ha mutato strategia, non spara e ha allargato interessi e investimenti nel Centro e nel Nord del Pese, nonché in alcune città europee, come prediceva Leonardo Sciascia a proposito della famosa “linea della palma” – ma anche la sua posizione geografica troppo a ridosso della Cortina di ferro.

«Rileggere la storia delle stragi – conclude la Laudani – significa riscrivere la storia del processo democratico di questo Paese. I nostri libri di storia non dicono nulla, non è solo un vulnus di conoscenza ma di democrazia. I depistaggi sono la prova provata degli interessi in gioco. La nostra battaglia antimafia è la battaglia per quella democrazia che è stata negata».

È arrivato il momento di seppellire i nostri morti. Il monito di Claudio Fava, citato all’inizio e criticato da alcuni perché non compreso da tutti, conduce nella medesima direzione: togliamo il lutto perenne, non chiamateci più familiari delle vittime ma dei patrioti che hanno offerto la vita per consegnare a chi verrà un Paese più libero e più civile.   

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
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Antonio Ortoleva, ex giornalista del Giornale di Sicilia, già direttore e co-fondatore del periodico antimafia “Il Quartiere nuovo” di Palermo e docente di giornalismo a contratto presso l’Università di Palermo. Autore di reportage di viaggi, del volume C’era una volta l’India e c’è ancora, Navarra Editore, e più recentemente dello stesso editore Non posso salvarmi da solo. Jacon, storia di un partigiano.

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