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Una pace fragilissima per una guerra che viene da lontano

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Palestinese difende la casa dall’esproprio dei coloni

di Hamza Younis

L’attacco di Israele contro la Striscia di Gaza, dopo i fatti di Sheikh Jarrah, ha avuto effetti devastanti sugli abitanti, un dramma che viene da lontano e non si può più ignorare. Il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato in prima pagina le foto e le storie dei 69 bambini morti in questi giorni di guerra, 67 palestinesi e 2 israeliani.

Non è la prima volta che l’ala destra del governo israeliano tenta di creare un clima di paura e di assedio, al fine di marginalizzare i suoi rivali. Grazie a questa propaganda, la destra pensa di poter conservare il proprio potere, aggregando intorno a sé la maggioranza degli israeliani, impauriti e inermi di fronte a una fantomatica minaccia esterna. Questa volta, però, il carattere strumentale del conflitto era innegabile, così come sono stati fragili i tentativi di legittimare la violenza. Cosa che è stata riconosciuta pubblicamente da parte dei deputati della sinistra della Knesset, i quali hanno denunciato come Bibi abbia usato la carta della minaccia esterna e abbia provocato questa guerra per impedire a Lapid e alla sinistra di formare un governo.

Durante la guerra, Ezra Rehana, un personaggio pubblico israeliano, ha annotato nella sua pagina facebook: «Lo Stato di Israele viene sacrificato come vittima sull’altare della sopravvivenza politica, legale e personale dell’accusato di corruzione e di violazione della fedeltà tale che non dovrebbe essere primo ministro!». Il giornalista Tammy Arad invece in un articolo ha scritto: «Questo è un primo ministro sommerso fino al collo nel processo penale e non ha un mandato pubblico e morale per determinare il destino della popolazione perché c’è il fondato timore che decida sulla base dell’interesse personale e della propria sopravvivenza, e non secondo l’interesse nazionale. La cosa giusta da fare è che questo governo vada a casa».

A Gaza, invece, la percezione è che la destra e la sinistra facciano lo stesso gioco. Gli abitanti della Striscia hanno visto chiaramente ciò che è accaduto a Ramallah (gli accordi di Oslo). Alla popolazione araba è ormai chiaro che allo Stato israeliano non interessa né il processo di pace né la soluzione di due Stati: queste sono solo parole vuote che vengono utilizzate per guadagnare tempo, mentre Israele si espande sul territorio con la violenza delle armi e l’applicazione di leggi prepotenti.

Tutto questo appare evidente anche alle autorità palestinesi a Gaza: Israele mira a diventare il padrone di tutto il territorio, chiunque sia al governo a Tel Aviv. In una conferenza stampa, Yahya Senwar, capo di Hamas a Gaza, responsabile dell’ufficio politico non militare,  ha dichiarato senza giri di parole che a Hamas è indifferente che a Israele sieda un governo di destra o di sinistra, poiché la sostanza è la stessa. Senwar ha concluso il suo intervento dicendo: «bruceremo il verde e il secco finché non si risolveranno i problemi di Gaza».

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Gaza, sotto i razzi e i bombardamenti, maggio 2021

Queste conclusioni della direzione di Hamas sono prevedibili e scontate in quanto la sua linea strategica e le politiche sioniste sono in simmetrica e rovinosa contrapposizione. Un fenomeno inedito e imprevisto è stato piuttosto il sostanziale miglioramento nelle relazioni tra i palestinesi israeliani e quelli gazzawi, che pare preparare inevitabilmente la rottura della fiducia tra gli arabi e gli ebrei israeliani.

Il legame tra gli abitanti di Gaza e quelli del ‘48 ha preso infatti una piega nuova durante questo scontro. Negli ultimi anni, gli arabi del ‘48 dimostravano spesso solidarietà da “israeliani” e non da “palestinesi” quando Gaza veniva attaccata, ma in questa circostanza i palestinesi dentro Israele non solo sono scesi in piazza e hanno scioperato ma la maggior parte di loro stava dalla parte dei palestinesi, e non è una cosa scontata: questa volta i palestinesi dentro Israele cantavano per il Qassam, il razzo di Hamas, e per Abu Ubayda. Durante la guerra, un missile di Hamas è caduto nel villaggio arabo di Tira e, inaspettatamente, la gente ha accolto il fatto come se fosse una festa, distribuendo dolci e accendendo dei fuochi, un atto che ha infastidito non pochi ebrei israeliani che si sono sentiti traditi. Riferendosi a questo fatto, un giornalista israeliano ha perfino detto: «Mi dispiace che questo missile non abbia ucciso qualcuno». Anche nel West Bank si sono viste tante bandiere verdi, una cosa che fa preoccupare sia il governo israeliano come anche la stessa autorità palestinese. 

Non è iniziato tutto il mese scorso. Ricordo come circa a metà Ramadan i TG israeliani in modo intenso abbiano mostrato scontri nel quartiere di Sheikh Jarah e alla moschea di Gerusalemme, scontri duri e duraturi ma minimizzati e oscurati da chi andava a visitare Gerusalemme e dichiarava di entrare a pregare al Aqsa senza complicazioni. Anche se a al Aqsa non c’erano particolari tensioni, le notizie hanno spinto le masse islamiche a convergere in quella località, la polizia ha reagito con un braccio di ferro e ha chiuso le porte di Gerusalemme, sono diventate famose le foto delle persone che salivano le montagne di Gerusalemme a piedi dopo che i loro autobus erano stati fermati.

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Tensioni e scontri nella moschea al-Aqsa

Come risposta alla solidarietà araba e islamica con gli abitanti di Gerusalemme, Bin Gavir parlamentare della destra, ha radunato la sua milizia armata e si è insediato nel cuore del Shekh Jarrah per sostenere i coloni ebrei che vivono lì, un episodio che ha provocato numerosi scontri e ha alzato le tensioni ancora di più. Dunque, le cose effettivamente si sono riscaldate, la polizia e l’esercito israeliano hanno blindato il quartiere del Shekh Jarrah e hanno bloccato l’ingresso al Aqsa attaccando e arrestando chi stava dentro. Più avanti, ricordando questo episodio, il capo della polizia Kobi Shabtai ha addirittura accusato Ben Gavir di essere il responsabile di questa Intifada.

La resistenza a Gaza si è trasformata in un ultimatum ma il governo israeliano ha solo intensificato la sua arroganza non curandosi delle minacce dei terroristi, e davvero all’ora prevista Abu Obaida ha lanciato i suoi missili su Gerusalemme come minacciato, distruggendo case e proprietà pubbliche. Dicono che volevano solo avvertire Israele ma la situazione è andata fuori controllo, o come viene detto da queste parti, è iniziato “il caos organizzato”. Il governo israeliano ha subito bombardato Gaza, dando un nome all’operazione unitamente a precisi obiettivi da raggiungere, secondo la tesi che il miglior modo di comportarsi con il nemico è colpire e far male il più possibile perché se gli arabi e i musulmani non temeranno gli ebrei, sarà la fine di Israele.

Nel giro di poco tempo non era rimasto spazio per le persone moderate; l’odio, la paura, l’orgoglio e gli ideali sono saltati fuori e hanno fatto spostare quasi tutti gli abitanti di Israele e Palestina (e i loro sostenitori) verso posizioni estremistiche ovvero verso due poli l’uno opposto dell’altro. Si è creata una situazione di odio collettivo, si doveva scegliere se stare con i palestinesi o con gli israeliani, chi cercava di calmare la situazione era accusato di essere un traditore. Assai triste è stato il conflitto all’interno delle cosiddette città miste, in modo non dissimile da quanto era accaduto nei Balcani quando si era promossa la caccia all’etnia pura. Anche in Israele gli scontri più duri tra civili sono stati proprio nelle città e nei quartieri di maggiore e pacifica promiscuità dove la gente era in grado di convivere in pace. Persone armate da entrambi i fronti si sono dirette verso le città miste; a Jaffa, Haifa e Lud ci sono stati numerosi morti, civili che hanno ucciso civili, hanno attaccato moschee, bruciato sinagoghe, un fatto nuovo e assai riprovevole nello Stato ebraico.

Le autorità in Israele evitano di spiegare ai loro cittadini le radici del problema della convivenza tra ebrei e non ebrei nello Stato governato da una politica sionista, non spiegano che è difficile per i palestinesi israeliani vivere in pace con gli ebrei israeliani senza la risoluzione delle questioni connesse alle miserabili condizioni dei palestinesi della Striscia di Gaza. Per dare un’idea di come il governo israeliano affronta problemi di questo genere, si può ricordare l’episodio del capo della polizia Kobi Shabtai che, per il fatto di aver condannato gli estremisti arabi unitamente a quelli ebrei, è stato fortemente criticato da Ohana, il ministro della pubblica sicurezza, che lo ha attaccato pubblicamente, sostenendo che gli arabi sono il nemico e che questo è l’unico Stato ebraico; gli stessi media israeliani hanno censurato la simmetria nelle parole di Kobi Shabtai, assimilando a loro volta gli arabi di Lud ai nazisti, comparando ciò che era accaduto a quanto successo alla notte dei cristalli o al pogrom di Chișinău.

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La polizia israeliana trattiene una attivista palestinese nel quartiere di West Bank

Abbiamo oggettivamente visto che, quando la destra (o la sinistra) israeliana per motivi vari si permette di violare i diritti elementari dei musulmani suoi abitanti, come l’ingresso alla moschea di Gerusalemme, i rappresentanti degli arabi del ‘48 non sono più in grado di tollerare queste palesi ingiustizie, anzi loro stessi mostrano di avere bisogno di protezione. Abbiamo altresì constatato che quando si alza il livello della violenza e quando i musulmani e i cristiani dentro lo Stato ebraico vengono percepiti come nemici interni, nessuno è in grado di proteggerli, sicuramente non il loro governo legittimo che scorta i coloni armati ad attaccare villaggi arabi. Alcuni commentano che Bibi e le sue politiche dell’odio sono riusciti ad unire tutti i palestinesi, una cosa che paradossalmente nessun leader arabo o musulmano è riuscito a fare ultimamente. Hamas, d’altra parte, da rappresentante del governo di Gaza è diventato il protettore di tutti i palestinesi senza bisogno delle elezioni. È appena il caso di precisare che in Israele ci sono persone – intellettuali, politici e non – che non vogliono il conflitto con i palestinesi ma questo non cancella l’esistenza di un governo rappresentativo di una fetta di popolazione con idee estremiste che si considerano etnicamente superiori e che costituiscono una minaccia reale per chi non è ebreo puro.

Da qualche mese lavoro nel mio villaggio che si chiama Ara e nella città vicina di Um al fahm presso una associazione per conto della quale osservo, avvicino e identifico i giovani tra i 14 e i 20 anni che presentano e denunciano problemi individuali e sociali. Parlando con loro ho potuto notare che i giovani arabi in Israele non hanno alcuna fiducia negli adulti, criticano chi lavora nell’amministrazione pubblica, li accusano di corruzione e peculato. Personalmente ho effettivamente sperimentato che dalle mie parti le elezioni a livello comunale si svolgono sovente sulla base di legami familiari senza lasciar spazio al merito. I giovani che passano il loro tempo ai margini del paese, nelle periferie più degradate, pensano di non contare nulla, non riescono ad immaginare una vita che non sia da semplice e modesto lavoratore. Sono gli stessi giovani che sono stati i protagonisti negli scontri contro l’esercito israeliano durante la guerra.

Pochi giorni prima dell’attacco su Gaza, stavo in un posto abbandonato nel mio villaggio dove di solito due gruppi di ragazzini passano il loro tempo, stavo parlando con cinque di loro quando all’improvviso si sono sentite urla da rissa e a questa si sono uniti e confusi i giovani con cui stavo chiacchierando. La cosa stupefacente è che questa rissa collettiva è durata per diversi minuti durante i quali una pattuglia della polizia israeliana intervenuta non ha mosso un dito. Si è avvicinata solo quando si è calmato tutto. Per fortuna nessuno è morto ma ci sono stati quattro feriti gravi. Ho scelto di riportare questo episodio per mostrare il rapporto distorto che esiste tra i giovani e la polizia che rappresenta lo Stato ai loro occhi. Non so con quale coraggio, la polizia che chiaramente non ha cercato di calmare la rissa, prima di andarsene si è avvicinata ai ragazzi per multarli per non aver portato addosso la mascherina anticovid. Il giorno dopo quasi tutti questi ragazzini erano armati di coltellini e piccole armi improprie perché si sono convinti che solo loro riescono a proteggere sé stessi.

Come possono questi ragazzi avere il senso del bene comune dal momento che le istituzioni della loro collettività non sono credibili e affidabili? Da qui rabbia e risentimento che hanno sfogato durante gli scontri con l’esercito, distruggendo ogni cosa pubblica: semafori, segnaletiche stradali, cassette delle poste, ma anche auto e proprietà private. Penso che la loro rabbia non muova da una coscienza politica ma nasca dal loro orgoglio, una reazione istintuale al disagio e all’ingiustizia individuale.

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Serrata della polizia israeliana nella città vecchia di Gerusalemme

Nel mio villaggio, durante il conflitto, con l’arrivo del buio della sera si ripeteva sempre la stessa scena: ragazzini con la faccia coperta con la keffia incendiavano ciò che potevano, finché in prossimità delle strade che collegano i quartieri ebraici interveniva l’esercito che iniziava a sparare ad altezza d’uomo. Tanti di questi giovani sono stati arrestati, chi per uno o due giorni chi per una settimana, in base alle prove raccolte dalla polizia. Molti se la sono cavata con le multe.

Noto ultimamente la diffusione di tanta musica da resistenza, musica che inneggia a Hezbulla, a Saddam, per l’Iran, per Fatah, per Hamas, per il Fronte. Anche Bella ciao ho sentito qualche volta in giro. Durante l’escalation e lo scontro con Gaza i clienti arabi dei negozi di generi alimentari hanno iniziato a comprare prodotti di manifattura araba, per esempio il latte e il formaggio, volendo boicottare i beni prodotti dalle aziende di proprietà ebraica. Dopo la tregua qualcuno è tornato a comprare Tnuva e Shtraus, frutta e bevande di cooperative israeliane, ma molti spingono per l’autosufficienza.

Non so se queste persone sono diventate radicali nei consumi per chiarezza di sguardo o per una sensazione che c’è nell’area di una guerra certo non ancora finita. La verità è che i coloni armati hanno ucciso numerosi palestinesi anche dopo la tregua e si sono rivelati molto pericolosi. Il Shekh Kamal Khatib sta ancora in prigione, il Shekh Raed Salah sta dentro da un po’ di anni ormai, Zafer Jabarin è stato arrestato senza accuse, al Shekh Jarrah gli scontri e gli arresti non si sono fermati e nel West Bank non c’è stata nessuna tregua.

Il governo del cambiamento dichiara di voler intensificare la costruzione di colonie a Gerusalemme e al West Bank. Per me e per i tanti abitanti del 48 persiste un clima nebbioso, ambiguo, sospeso, la sensazione diffusa che forse tutto può esplodere in ogni momento ma si sceglie di aspettare per vedere gli sviluppi della situazione. Ho notato i cambiamenti più radicali tra i palestinesi che vivono a Gerusalemme e nel West Bank, anche se non so quanto durerà questa posizione e come si evolverà. Per loro Israele non è più quel mostro invincibile, hanno visto che Israele commette errori strategici devastanti. Hanno visto che Israele non riesce a addomesticare i suoi cittadini arabi, a fermare la resistenza a Gaza: tutti si ricordano come Israele abbia rilasciato al Senwar che è diventato il loro incubo. Nel West Bank c’è la nuda verità (come la intende Fanon) della crudeltà dell’invasore, tanto più violenta quanto più drammaticamente inefficace.

Non dico che la resistenza riesce a tener testa alla forza militare israeliana, la sua tecnologia e la sua rete di alleanze ma fatto sta che i palestinesi si sono sentiti uniti e protetti dalla propria forza collettiva e non è una cosa da poco, perché agli occhi dei palestinesi né i governi arabi né le potenze occidentali sono i giusti mediatori e garanti dei loro diritti, anzi, di nuovo questo conflitto ha messo in discussione la neutralità del governo mondiale.

In Italia ma anche altrove in Europa abbiamo assistito allo spettacolo indegno dei mass-media, che si sono in gran parte schierati senza pudore dalla parte del governo israeliano. Questa è l’ennesima dimostrazione dell’esistenza di stretti legami economici, politici e militari tra il governo di Israele e le potenze occidentali, con in testa gli Usa, una connivenza spesso nascosta dietro una propaganda velenosa e razzista che contrappone l’Occidente e l’Islam sulla base di una supposta incompatibilità di valori.

In questa occasione sembra utile ricordare che non solo Hamas ma molte organizzazioni islamiche in tutto il mondo soffrono il fatto di essere accusate di estremismo o terrorismo togliendo credibilità e legittimità alle loro esigenze e richieste. Infatti, l’alleanza tra i mass-media e i governi viene smascherata ulteriormente da questi avvenimenti, mettendo in luce la poca neutralità di agenzie come World Check, che fornisce consulenze a enti governativi e non, agenzie che, impiegando fonti e metodi discutibili, classificano persone e organizzazioni come pericolose o addirittura terroriste. Le manifestazioni di solidarietà da parte dei portuali italiani e il rifiuto da parte dei portuali di Durban, in Sud Africa, di scaricare le merci da una nave israeliana in transito nel porto hanno sicuramente riscaldato i cuori degli abitanti di Gaza.

Questi fatti hanno diffuso fiducia e sicurezza ai palestinesi in lotta e sono stati visti come la luce in fondo al tunnel, perché hanno dimostrato che i governi delle potenze occidentali e di tutto il mondo non rappresentano i reali sentimenti dei loro cittadini e in Palestina si pensa che senza il sostegno dei governi occidentali, i crimini e i massacri di Israele sarebbero impossibili. La solidarietà internazionale che ha suscitato la lotta del popolo palestinese è una speranza per la liberazione dei popoli di tutto il mondo dalla violenza e dall’oppressione.

muhammed-al-kurd-a-resident-sheikhjarrahMi piacerebbe essere ottimista ma qualche tempo fa ho assistito ad una scena a Gerusalemme che non riesco a cancellare. Ho visto una donna musulmana sulla cinquantina d’anni che litigava con un anziano ebreo davanti all’ingresso della moschea a Gerusalemme: lei gridava “Dio è con noi” e lui rispondeva “No, Dio è dalla nostra parte”. Una scena triste e penosa. Quando sono tornato a casa ho parlato con mio padre chiedendo di lasciare questa terra, ho spiegato la mia posizione: la gente qua è matta e non vedo nessun futuro in questa terra. Ho chiesto a mio padre di vendere tutta la nostra proprietà e di trasferirci in Turchia o in Italia. Mio padre mi ha risposto con queste frasi romantiche da fiero palestinese: “Non andrò via perché è quello che vuole il mio nemico”. Però a me questa frase ha acceso un’altra luce. Penso che la gente in Israele non ragioni più con la testa ma viene guidata e annichilita da sentimenti di paura, di odio nella totale assenza di fiducia in un futuro di pace possibile. Molti pensano come arrecare danni al nemico piuttosto che pensare a cosa possa farli stare bene.

Sono contento quando vedo gli ebrei di sinistra parlare di pace ma dove erano costoro quando il loro governo ha reso illegale il movimento dei musulmani israeliani, dove erano durante gli ultimi 30 anni di costruzione di colonie e quando i bambini di Sderot disegnavano sui missili che andavano a bombardare i bambini di Gaza. Chi può salvarci da questa situazione di violenze simmetriche e come si fa a cancellare la rabbia e l’odio che è stato seminato e coltivato? A me non sembra che questo Medio Oriente abbia un futuro di pace e la cosa davvero più sconcertante è il fatto che anche chi crede nel dialogo finisce con l’apparire agli estremisti comunque di parte.

La guerra con Gaza è finita mentre mancavano dieci giorni alla fine del mandato di Lapid. Se l’intento di Netanyaho era arrivare alle elezioni di nuovo, si può affermare che non è riuscito; in questi giorni si sta formando il “governo del cambiamento” che ha nella sua coalizione un partito arabo per la prima volta, una nuova maggioranza che ha criticato le politiche dell’odio di Bibi anche se al suo interno ci sono partiti della estrema destra uniti dal comune interesse a continuare con la costruzione di colonie a Gerusalemme e nel West Bank.

Non è colpa nostra se i nazisti hanno ucciso ebrei e non ci interessa se alcune tribù sono passate di qua migliaia di anni fa. Non è accettabile utilizzare il nome di Dio per continuare a legittimare la violenza. L’assedio su Gaza deve finire, non si può usare ancora la scusa del terrorismo per soffocare e prolungare la sofferenza della popolazione autoctona. La comunità internazionale e il governo israeliano non hanno il diritto di condannare i bambini nati a Gaza a vivere in prigione tutta la loro vita. I checkpoint e le colonie devono sparire dal West Bank e chi è discendente di questa terra – a qualunque etnia o religione appartenga – deve avere la possibilità di venire quando vuole.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
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Hamza Younis, giovane studente israeliano di origine palestinese, ha studiato ad Haifa e si è laureato in Economia e Management presso l’Università degli studi di Parma e poi al corso magistrale in Antropologia culturale presso l’Università di Torino. Sta svolgendo il dottorato di ricerca in psicologia educativa presso l’Università arabo-americana di Ramalla. Ha seguito i corsi e i workshop focalizzati allo studio dell’area mediterranea e ha recentemente intrapreso un progetto di ricerca sull’Islam quotidiano e in particolare sulla comunità marocchina insediata a Torino.

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