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Un dialogo sui cortocircuiti del pensiero in tempo di Covid

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Edward Hopper, Stanze sul mare, 1951

dialoghi sul negazionismo

di Maria D’Asaro e Neri Pollastri [*]

Oltre la presunta dicotomia emozioni/ragione

Ho letto con molto interesse le considerazioni di Neri Pollastri. Che la pandemia avrebbe evidenziato una “Caporetto” del pensiero razionale era per me scontato per almeno due motivi, paralleli e ugualmente importanti: come specie umana, non siamo educati a pensare a prescindere da sovrastrutture, pregiudizi, condizionamenti che potrei definire, utilizzando un termine di Pollastri, “mitologici”; inoltre, secondo le più recenti acquisizioni delle neuroscienze, non esiste un pensiero puramente razionale, avulso dalla socialità, dai bisogni primari, dalle emozioni e dai sentimenti.

In dettaglio, poi, vorrei ripercorrere – con qualche considerazione critica – alcuni passaggi del contributo del filosofo fiorentino.

Concordo sull’opportunità di non utilizzare – o utilizzare con molta circospezione e con i dovuti distinguo – il termine negazionismo. Inoltre trovo assai proprio tratteggiare il Covid-19 come  «thauma,  fenomeno inquietante che esorbita la nostra capacità di conoscere, valutare, scegliere e operare, di fronte al quale perciò non abbiamo risposte fondate da dare e per il quale il solo atteggiamento razionale e ragionevole è il socratico «so di non sapere»: partire cioè dalla consapevolezza della nostra ignoranza sia per cercare di progredire, sia per prendere le indispensabili decisioni concrete, evitando cioè di poggiarle su “false credenze”». Ancora: è intrigante che l’autore consideri la pandemia come «una situazione ideale per l’esercizio di quella saggezza filosofica che Gerd Achenbach (…) ha chiamato Lebenskönnerschaft, “capacità di saper vivere”: un atteggiamento consistente nel vivere l’incertezza sospendendo ogni presa di posizione e assumendo decisioni basandosi solo ed esclusivamente sulle scarsissime conoscenze certe disponibili, adeguandole di volta in volta, con mutamenti anche significativi, ai dati esperienziali prodotti dall’evolversi della situazione e dal costante interrogarsi sulle possibilità future di convivere con lo sgradito e incomprensibile fenomeno che produce il thauma».

 Proprio sulla base della duplice convinzione, da me esposta all’inizio, sulla debolezza della dimensione razionale nell’esperienza umana, non mi sono affatto meravigliata che i concittadini non abbiano assunto l’auspicato atteggiamento Lebenskönnerschaft né quell’atteggiamento «interlocutorio e guardingo, procedurale, fatto di decisioni necessariamente incerte e provvisorie, pronte a mutare in funzione dei loro stessi risultati e degli eventuali nuovi dati acquisiti “nel corso dell’azione”».  Sono stata invece contenta che, soprattutto in Italia, nella prima fase della pandemia, sia stato adottato dagli amministratori pubblici, come sottolinea lo stesso Neri Pollastri, il cosiddetto principio di precauzione.

Concordo con lui anche sul fatto che «troppi “esperti” hanno a ripetizione esternato le proprie letture del fenomeno, tutte immancabilmente mere ipotesi, tutte da verificare e confermare (quindi non scientifiche), che invece sono state spessissimo scambiate per “scienza”. (…) Viceversa, alimentato anche dalla ridda di ipotesi diffusa irragionevolmente da alcuni «esperti» in cerca di visibilità, il dibattito pubblico e quello politico hanno costantemente travalicato questi limiti e si sono trasformati in polemici, irrazionali e conflittuali battibecchi tra sostenitori di posizioni tutte quante parimenti infondate e non scientifiche». Molto illuminante, altresì, l’elenco di azioni – coniugate in modo adeguato ai ruoli dei diversi attori – che avrebbe avuto senso attuare per rispettare il criterio della saggezza («non assumere, né propugnare alcuna posizione; esercitare il principio di precauzione; lasciare alla scienza – quella vera, comunitaria – il tempo per lavorare; vigilare sulle misure precauzionali, con un surplus di clemenza riguardo agli errori; rimandare ogni «ricerca del responsabile» a dopo l’emergenza; essere autocritici, cercando anche di capire quanta della foga critica fosse frutto delle proprie ansie e frustrazioni; approfittare del tempo regalato – perché tutti ci lamentiamo della mancanza di tempo per noi o per occuparci di cose escluse dalla quotidianità, e il confinamento, le misure che limitavano spostamenti o la soppressione di eventi pubblici ci fornivano l’occasione per averlo; immaginare e progettare un futuro, individuale e politico, diverso dal passato, alla luce sia della possibilità – ancora non esclusa – che si dovesse convivere molti anni con il virus, sia della pessima normalità da cui provenivamo»).

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Edward Hopper, Tramonto sulla ferrovia, 1929

Su quello che è invece accaduto, va sottolineato, forse con determinazione anche maggiore di quella usata da Pollastri, la responsabilità di un’informazione generalmente non all’altezza del compito grave dell’oggi. Nulla da eccepire poi per quanto riguarda «la filosofica “capacità di saper vivere”, menzionata in apertura, si basa proprio su questa flessibilità creativa, capace di rendere avvincenti sfide anche le più spiacevoli avversità. Affermare, come è stato fatto da molti, che le limitazioni (di fatto modestissime e, per giunta, transitorie) imposte per la profilassi rendessero l’esistenza una «vita da morti»  è o un argomento retorico davvero di bassa lega, o un’opinione di parte, certo legittima, ma da un lato fortunatamente minoritaria, dall’altro segnale di una concezione della vita stessa rigidamente dogmatica, priva di curiosità e di disponibilità alla novità, infine anche piuttosto elitaria, visto che gli spazi di libertà che comunque rimanevano al netto delle misure erano enormemente più ampi di quelli disponibili oggi a molti esseri umani che vivono in luoghi del mondo meno comodi e piacevoli di quelli in cui viviamo noi, e anche di gran parte dei nostri progenitori».  Aggiungerei, però, che ritengo troppo ottimistica la concezione del filosofo: a mio avviso, si tratta di opinioni non minoritarie, ma fortemente radicate specialmente tra le fasce meno abbienti e culturalmente deprivate del nostro Paese.

Più marcato, poi, il mio disaccordo sulle sue riflessioni sulla presunta “persecuzione dei bambini”. Pollastri ha sostenuto:  «non c’è infatti alcuna ragione per ritenere che due mesi di isolamento dai loro amici, ma in compenso con la presenza costante dei genitori di solito così assenti, abbia nuociuto ai giovanissimi; al contrario, sarebbe il caso di riflettere sul potere educativo di un’esperienza quale quella vissuta in quel periodo, anche a fronte del fatto che il principale limite della formazione ordinariamente loro somministrata è proprio quello di avere così poche occasioni di imbattersi in limiti e privazioni, che hanno il potere da un lato di temprare le loro sfere emotive, dall’altro di far sviluppare le loro capacità ideative (niente, infatti, può farlo meglio dell’imbattersi in difficoltà). Più che di “persecuzione”, per quel periodo di restrizioni si potrebbe invece parlare di “educazione”». Ebbene, in questo passaggio del suo scritto mi pare che non abbia considerato il fatto che, senza la funzione educante della scuola, soprattutto tra le famiglie sprovvedute e sgangherate, il ritrovarsi i figli a casa 24 ore su 24 sia stata una debacle. Ovviamente era necessario farlo e andava fatto. Ma temo che l’autore non immagini neanche quale e quanto devastante sia la pochezza educativa di una famiglia disastrata – specie in zone svantaggiate come la mia Palermo – senza il minimo supporto di altre istituzioni o figure educative…

Arrivo così a uno dei punti in cui il mio disaccordo diventa più netto. Neri Pollastri scrive: «Giunti a questo punto è doveroso chiedersi come possa spiegarsi una simile Caporetto del pensiero razionale – e anche di quello, più banalmente, «ragionevole». Messa da parte la risposta in termini di malafede (…), la spiegazione più immediata e plausibile è quella dell’avvenuto sopravvento dell’emotività, ovvero – per riprendere una famosa distinzione di Ignacio Matte Blanco – della “logica dell’emozione” sulla “logica della ragione”». Ma – è questa la mia obiezione – la logica delle emozioni è separabile con un colpo d’accetta dalla logica della ragione?  Tra l’altro, la distinzione operata da Matte Blanco è considerata superata dai risultati delle neuroscienze. Sono due aspetti, due facce, di uno stesso funzionamento: la logica della ragione funziona se ha conosciuto, ha saputo districarsi e dare un nome alle emozioni. Altrimenti è – e sarà sempre – destinata al fallimento.

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Edward Hopper, Scompartimento C, 1938

Nello stesso ambito tematico c’è dell’altro. L’autore afferma che «le emozioni in gioco nei cortocircuiti argomentativi di questi tre mesi sono riconducibili all’ansia destata da stili di vita ritenuti personalmente inaccettabili o difficili da affrontare e da prospettive future ritenute dannose. Ne possiamo schematizzare alcune: 1) ansia per il danno economico (…) 2) l’incapacità di passare un periodo di solitudine 3) la paura di cambiare stile di vita 4) la paura di cambiare pensiero 5) l’incapacità di cambiare ruolo». Qui, a mio avviso, andava aperta una riflessione molto più ampia. Intanto mi pare che la paura – o resistenza – a cambiare stili di vita sia connessa con l’impossibilità/incapacità di pensare e/o realizzare modelli che mettano in discussione il sistema capitalistico-consumistico.

Ma, se è così, andiamo oltre la presunta dicotomia emozioni/ragione: mi pare che sia in gioco una concezione antropologica, una Weltanschauung, nel bene e nel male… Qui da un filosofo mi aspetto analisi più circonstanziate ed approfondite. Qui c’è il campo d’azione della filosofia: discutere di visioni complessive del mondo. Non per indicare nuove metafisiche: ma per indicare possibilità, prospettive, connessioni e per ridare centralità ai processi decisionali, individuali e collettivi, dell’umanità. Qui vedo un ruolo centrale di chi si assume l’onere della riflessione: studiare economia, psicologia sociale, antropologia per presentare e problematizzare nuove frontiere della convivenza umana. Secondo me, la filosofia non può lasciare politici ed economisti senza sostegno e accompagnamento razionale. Il cambiamento di pensiero e di ruoli investe una complessità di dimensioni teoriche e pratiche (sociologia, politica, psicologia, economia, politica, comunicazione…) che hanno il dovere di interagire e lavorare in sinergia.

Eccoci, infine alle conclusioni del saggio in esame. Vi leggiamo: «Le conclusioni di quest’analisi, purtroppo, non possono essere molto positive: la crisi prodotta della pandemia Covid-19 ci ha mostrato una volta di più e in modo particolarmente eclatante che la cultura in cui viviamo, che pure si vanta di essere tra le più avanzate della storia dell’uomo, fa ancora un uso troppo poco incisivo del pensiero. Messi sotto pressione emotiva, com’è accaduto in questi mesi, troppi cittadini perdono la loro capacità di ragionare in modo conseguente – e, con ciò, di autocorreggere la loro reazione emotiva nei confronti degli eventi – cadendo nella superstizione e nel pensiero mitologico.  Con molta probabilità ciò non dipende, come spesso si sostiene, da una carenza di “intelligenza emotiva” o di “educazione alle emozioni”, bensì tutto al contrario da una ancor troppo limitata educazione logica e, al tempo stesso, proprio dall’eccessivo valore che si attribuisce alla sfera emotiva rispetto a quella razionale.

Due aspetti dell’uomo, questi, che devono interagire equilibrandosi l’un l’altro, ma che viceversa oggi, come ben si è visto in questi mesi, finiscono per collassare nell’annichilimento del pensiero logico per opera della sfera emozionale. È perciò auspicabile che i cortocircuiti del pensiero prodottisi durante la pandemia fungano da monito, fornendo una ragione in più per dare al pensiero maggior valore di quello che oggi gli assegna la nostra cultura e per accrescere l’educazione pubblica a usarlo in modo lucido e rigoroso». Condivido solo parzialmente queste considerazioni conclusive: i cittadini che non hanno ragionato durante la pandemia, non ragionavano neppure prima, vuoi per una mancata integrazione tra le dimensioni emotive e quelle razionali, vuoi per la carenza/assenza di una formazione laica e scientifica.

Comunque sono certa che Pollastri, in quanto pioniere della consulenza filosofica, concordi con me sulla necessità che al filosofo, in quanto non solo competente nell’argomentazione razionale ma anche, e soprattutto, come esperto dello sguardo d’insieme, si prospetta un grande cantiere di lavoro ‘pedagogico-politico’.

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Edward Hopper, Una donna al sole, 1961

Oltre ‘l’emozionalismo’ che svaluta il pensiero

Riprendo qui le attente e puntuali considerazioni fatte da Maria D’Asaro sul mio articolo La Caporetto del pensiero razionale, nel quale analizzavo le numerose incongruenze che hanno caratterizzato il dibattito pubblico sulla pandemia, ringraziandola per l’attenzione e dichiarandomi anche sostanzialmente d’accordo su alcune delle sue precisazioni.

Concordo infatti in primo luogo sul ruolo negativo svolto dai media, e ciò non tanto per il presunto “allarmismo” che secondo molti avrebbero diffuso, quanto per l’imprecisione e la mutevolezza delle informazioni da essi fatte circolare: con le tipiche modalità di chi cerca a tutti i costi di richiamare l’attenzione dei potenziali lettori, infatti, i media hanno alternato messaggi eclatanti ora sul versante allarmista e drammatizzante, ora su quello opposto del “è tutto finito”, contribuendo con ciò a confondere i cittadini e a polarizzare ancor più la platea dei commenti. Nel mio articolo ho tralasciato di affrontare il tema non perché non lo ritenessi importante, ma perché avrebbe richiesto una trattazione a parte.

In secondo luogo, sono d’accordo sul fatto che non manchino situazioni veramente molto problematiche, come quelle degli studenti delle famiglie disagiate richiamate da D’Asaro, alle quali se ne potrebbero aggiungere molte altre in ambiti diversi: per esempio, occupandomi anche di musica jazz so bene come tra i musicisti di questo settore non pochi si siano ritrovati da un giorno all’altro privi di ogni fonte di sostentamento. Non vorrei però che l’eccezionalità (almeno parziale) di questi casi fosse usata – come spesso è stato fatto – per generalizzare una situazione che ha al contempo visto perfino migliorare (non solo economicamente) le condizioni di numerosi soggetti, anche dei ceti meno abbienti, come dimostrano l’aumento del risparmio delle famiglie nel periodo postpandemico e una diffusa – ancorché embrionale – riflessione sull’impiego del proprio tempo, seguita al confinamento.

Riguardo al mio presunto ottimismo sull’essere minoritarie le posizioni critiche verso le misure in quanto obbliganti a una “vita da morti”, devo, invece, precisare che esso non si basa solo sulla mia percezione, certo condizionata dalle personali frequentazioni (peraltro tutt’altro che elitarie), ma anche su ciò che dicono le statistiche, le più recenti delle quali – relative alle limitazioni nel periodo natalizio – testimoniano un assenso piuttosto ampio da parte dei cittadini italiani.

Ma il punto al quale mi preme maggiormente rispondere a D’Asaro è in realtà quello su cui essa mostra maggiore dissenso e che la spinge a ritenere ovvio e normale che la pandemia abbia prodotto il fenomeno di irrazionalità che analizzo nell’articolo: la concezione del rapporto tra ragione ed emozione.

Fin dall’inizio D’Asaro afferma che «secondo le più recenti acquisizioni delle neuroscienze, non esiste un pensiero puramente razionale, avulso dalla socialità, dai bisogni primari, dalle emozioni e dai sentimenti»; più avanti, poi, mette in discussione la distinzione di Ignacio Matte Blanco tra “logica della ragione” e “logica dell’emozione”, ritenendo che le due non siano «separabili con un colpo d’accetta», trattandosi di «due aspetti, due facce, di uno stesso funzionamento».

Chiariamo subito: distinguere analiticamente le due “logiche” non vuol dire pensare che esse, nell’animale uomo, siano separabili – una cosa che non riteniamo possibile né io, né credo Matte Blanco. La distinzione è utile per comprendere il diverso modo in cui si affrontano le cose al mutare dello stato emotivo, differenza che diventa particolarmente evidente quando si sia soggetti a emozioni forti e istantanee (un’esplosione o un’aggressione, per esempio) e si fa più sfumata e complessa allo scemare della loro intensità. In quei casi più estremi, come (tra i molti) spiega Matte Blanco, l’esercizio del pensiero razionale viene sospeso da una serie di funzioni fisiologiche – le emozioni, appunto – atte a salvaguardare valori essenziali alla sopravvivenza che rischierebbero di essere minacciati da un’eventuale perdita di tempo, dovuta alla riflessione, nell’attivazione di pratiche difensive (per esempio nel darsi alla fuga); tale sospensione comporta l’accantonamento dell’analisi delle cose in termini di distinzioni (come dice tra gli altri Umberto Galimberti, «pensare è pensare per differenze») e la rubricazione di quel che accade sotto una sola etichetta (per esempio quella di pericolo). Quando viceversa quei valori non vengano “scritti nel corpo” in forma di emozioni (per usare un’espressione di Dylan Evans) e la funzione del pensiero non venga perciò sospesa, è possibile usarla operando le sue abituali distinzioni con la lentezza necessaria a elaborarle. Che in condizione emotive meno estreme queste due modalità di approccio alle cose si incrocino e combinino non toglie l’importanza analitico-conoscitiva della loro distinzione, così come non la toglie il fatto che le neuroscienze abbiano mostrato (peraltro, va detto, solo in parte e senza un’ancor completamente chiara determinazione del suo significato) la compartecipazione di più parti del cervello, e non solo di quello, nell’attivazione di ciò che chiamiamo “pensiero razionale”.

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Edward Hopper, Casa della ferrovia, 1925

Detto diversamente: che mente e corpo (perché le emozioni, non dimentichiamolo, sono un fenomeno corporeo, non mentale), ragione ed emozione, logica e sentimento siano inseparabili parti dell’unità-uomo non significa né che la conoscenza dell’una sia necessaria per conoscere l’altra, né che per operare su quell’unità sia necessario agire su entrambe: proprio la loro inseparabilità fa infatti sì che quanto avviene su uno dei lati abbia necessariamente conseguenze anche sull’altro. Tutto al contrario, a presupporre di fatto la loro separazione è proprio chi consideri impossibile operare su un aspetto senza occuparsi anche dell’altro, come mi pare faccia D’Asaro quando afferma che «la logica della ragione funziona se ha conosciuto, ha saputo districarsi e dare un nome alle emozioni. Altrimenti è – e sarà sempre – destinata al fallimento». La logica della ragione funziona ogniqualvolta la si metta all’opera, per quanto vi siano situazioni – quelle ad alto tasso di emotività – in cui ciò possa risultare più difficoltoso; tuttavia, anche in queste situazioni il solo esercizio della razionalità contribuisce a modificare lo stato emotivo, senza nessun bisogno di “conoscere e dare un nome” alle emozioni, né tantomeno districarsi tra loro. Empiricamente, questo me lo dimostra a profusione il mio lavoro di consulente filosofico, nel quale coopero con persone emotivamente provate da vicende a vario titolo dolorose per comprendere il modo in cui esse pensano tali vicende, e non le loro emozioni; teoreticamente, invece, ciò mi è garantito proprio dal pensare l’uomo monisticamente, cioè come un’indivisibile unità di mente e corpo, ragione ed emozione, cosa dalla quale segue che quando si agisce sul piano razionale ne seguono necessariamente conseguenze su quello emozionale.

Purtroppo la nostra cultura è pervasa fino al soffocamento dall’emozionalismo, e quest’ultimo, portato oltre un certo limite, apre la strada alla svalutazione del pensiero, che da ultimo conduce all’irrazionalismo. È proprio per questo che concludevo il mio articolo con l’auspicio di dare al pensiero razionale argomentato «maggior valore di quello che oggi gli assegna la nostra cultura» e di «accrescere l’educazione pubblica a usarlo in modo lucido e rigoroso»: in assenza di una sua valorizzazione ed educazione all’uso, infatti, diventa velleitario – o comunque poco efficace –  dedicarsi a ciò a cui (di principio non a torto) invita D’Asaro, cioè «discutere di visioni complessive del mondo (…) per indicare possibilità, prospettive, connessioni e per ridare centralità ai processi decisionali, individuali e collettivi, dell’umanità».

In una cultura che non torni a dare centralità (sebbene non esclusività) al pensiero, che insista nel ritenere impossibile far funzionare il pensiero senza occuparsi continuamente delle emozioni, che non riconosca proprio all’esercizio del pensiero razionale la funzione di far fiorire in noi – spontaneamente e non strumentalmente per forza di volontà – proprio le emozioni che vorremmo avere, cioè quelle adeguate a una vita riuscita e serena, produrre belle analisi su Weltanschauungen possibili rischia di trasformarsi in un mero esercizio estetico, in un colto passatempo inascoltato dai più in quanto ritenuto – per quanto a torto – astratto, sterile, elitario. Si ascolta infatti solo ciò che si ritiene degno di nota e oggi, in una cultura di massa segnata dall’emotivismo, il pensiero razionale non lo è più, a dispetto del fatto che tutti gli uomini, sebbene non con la medesima continuità o con eguale qualità, lo usino continuamente, tutti i giorni, per districarsi tra le cose che permettono loro di sopravvivere e vivere.

Tutto ciò, ovviamente, non impedisce che anch’io concordi sulla conclusione di D’Asaro, cioè «sulla necessità che al filosofo, in quanto non solo competente nell’argomentazione razionale ma anche, e soprattutto, come esperto dello sguardo d’insieme, si prospetta un grande cantiere di lavoro “pedagogico-politico”». Ma questo in primo luogo proprio perché senza un’educazione logico-argomentativa al pensiero razionale sarà di fatto impossibile ogni cooperazione politica che abbia di mira la messa a punto di inedite progettualità sociali e nuove forme di convivenza civile, e al tempo stesso perché proprio quell’educazione è già una forma politica di convivenza civile, antica ma ogni volta rinnovantesi: quella della democrazia, nata non a caso nell’antica Atene contemporaneamente alla filosofia.

 Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
[*] I testi vanno così attribuiti: Oltre la presunta dicotomia emozioni/ragione è a firma di Maria D’Asaro; l’autore di Oltre ‘l’emozionalismo’ che svaluta il pensiero è Neri Pollastri.

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Maria D’Asaro, già psico-pedagogista e docente di Lettere, ha collaborato con varie riviste (soprattutto “Segno” di Palermo e “Centonove” di Messina) e svolge attualmente la sua attività di pubblicista sulla testata on line “il Punto Quotidiano”. Cura dal 2008 recensioni, contributi editoriali e riflessioni sul blog “Mari da solcare”: http://maridasolcare.blogspot.com/. È socia della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone” e della “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo (dove è impegnata soprattutto nelle iniziative di carattere filosofico).
Neri Pollastri, filosofo, è nato, vive e lavora a Firenze. Dal 2000, primo in Italia, svolge la professione di consulente filosofico, privatamente e in strutture pubbliche. Sulla materia ha pubblicato tre libri e una cinquantina di articoli, l’ha insegnata in diverse Università ed è stato relatore in convegni italiani e internazionali. Si è occupato attivamente anche del pensiero di G.W.F. Hegel, sul quale ha pubblicato un libro, di filosofia della scienza, filosofia politica e di estetica musicale. Scrive sul blog Filosopolis (filosopolis.wordpress.com), il suo sito Internet è www.neripollastri.it, quello del suo istituto di ricerca e formazione www.istitutodiconsulenzafilosofica.it.

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