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Un canto dei mietitori e il gioco della falce

 

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Franco Pinna, Il gioco della falce, 1959 (San Giorgio Lucano)

di Eugenio Imbriani

Uno strano corteo a Tricase

In un articolo apparso nel 1934 sulla rivista «Rinascenza salentina», il musicista Vito Raeli segnalava una particolare pratica che si svolgeva a Tricase, cittadina del Capo di Leuca (la parte più meridionale della Puglia), consistente in una pantomima, una sorta di cerimonia eseguita dai mietitori di ritorno in paese dopo la stagione della mietitura trascorsa nelle masserie del tarantino e del brindisino [1]. L’autore è piuttosto accurato nel descrivere i movimenti e il canto dei braccianti, di cui non conosce esempi simili nelle località vicine. Si tratta, peraltro, di una pratica ai suoi tempi non più osservabile che egli ha potuto ricostruire «dalla viva voce dei mietitori miei conterranei… non tutti d’accordo nella memoria dei particolari relativi alle ‘costumanze’ che si accompagnavano al canto integrandolo» (Raeli 1934: 275).

Che i ricordi dei testimoni, anche quando sono diretti protagonisti delle azioni, non siano perfettamente sovrapponibili gli uni agli altri, come normalmente accade, non impedisce di ritenere plausibile la sequenza montata da Raeli: intanto egli afferma di aver visto da ragazzo, durante le vacanze scolastiche estive trascorse a Tricase, il gruppo dei mietitori che, sollevando le falci in alto, cantavano all’unisono; inoltre, si è tramandato fino a oggi, presso gli anziani del posto, il ricordo di quel canto, conosciuto come O bella tomma.

Ci torneremo su più avanti. Cercherò di riassumere il contenuto dell’articolo. Nella seconda settimana del mese di giugno, partivano da Tricase, su carri trainati da muli, alcune squadre di mietitori, complessivamente fino a settanta uomini, dirette nelle masserie del Salento settentrionale. Ciascuno si portava appresso il fardello di biancheria e indumenti, visto che bisognava rimanere fuori per oltre un mese. Gli uomini erano raggruppati in cumpagnie, ognuna costituita da cinque lavoratori, guidati dal taiante, uno dei quali, generalmente più giovane, detto riante (legante, legatore), aveva il compito di legare i fasci delle spighe falciate dagli altri quattro. Il caposquadra si chiamava antieri, ed era il responsabile dell’ingaggio. Al campo veniva dato il nome di tomma, termine derivante, secondo Raeli, dal greco témenos (campo, podere). Alla fine del lavoro, quando orzo, biade e frumento erano stati raccolti, la squadra si recava in masseria per la conclusiva mangiata, e, talvolta, antieri, taiante e riante si presentavano alla massaia legati tra loro con una corda che la donna scioglieva, simbolicamente liberandoli dal loro impegno.

Il ritorno in paese era una festa. In vista dell’abitato, i mietitori scendevano dai traini e avanzavano a piedi, con le falci in pugno, serrati in buon ordine, preceduti dall’antieri che teneva in mano, come un trofeo, un mazzo di spighe, e intonava il canto della tomma, mentre gli altri gli rispondevano, vigorosamente, in coro, tendendo in aria le falci; il corteo si muoveva nelle vie principali e sostava per una bevuta di vino. Qualche volta il loro percorso si allungava per consentire il passaggio nelle vie in cui abitavano le fidanzate dei giovani non sposati e, di conseguenza, le brevi strofe (quartine costituite da settenari e quinari alternati) si moltiplicavano, grazie alla capacità di improvvisazione dell’antieri, o di qualche altro mietitore.

Raeli riporta tre strofe del canto e una rapida trascrizione musicale del ritornello. Dopo il primo distico interviene il coro, e così dopo il secondo, quindi la strofa viene ripetuta per intero e nuovamente interviene il coro:

Antieri:
Aggiu metutu jeu
sutt’a Puzanu
Coro:
oh bella tomma!
Antieri:
addiu Ninella mia
dammi la manu
Coro:
oh!
Antieri:
Aggiu metutu jeu
sutt’a Puzanu…
addiu Ninella mia
dammi la manu
Coro:
oh bella tomma
! [2] (ivi: 278)

Le altre due strofe, la cui esecuzione segue il medesimo sviluppo, sono le seguenti:

Bella ca su bbanutu
a quai me fermu…
cu la cridenzia toa
saziai lu munnu.
La vurpe cudi longa
e curtu pilu…
Nu ne sciamu de quai
ci nu bbavimu
[3] (ivi:279).

Il nostro autore opera, infine, la trascrizione musicale del ritornello:

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Franco Pinna, Mietitura, 1956 (Ruoti)

Prima di proseguire, ci conviene correggere la notazione metrica di Raeli; è opportuno considerare il settenario e il quinario di cui egli parla due emistichi di un unico verso, per cui la strofa si riduce a una coppia di endecasillabi a rima o assonanza baciata. Ciò aiuta molto la comprensione del testo, sia per la forma che per il contenuto, perché abbiamo a che fare con i famosi “stornelli” che i cantori traggono dal loro repertorio adattandoli all’occasione e al ritmo musicale (serenate, canti a dispetto, stornellate, danze…). È inutile, quindi, cercare una coerenza tra le parti del testo, perché non c’è. I distici di endecasillabi possono derivare dallo smembramento di canti più lunghi, ma soprattutto costituiscono elementi che possono essere montati per dar vita ad altre composizioni la cui lunghezza dipende dalla maestria degli esecutori.

Il canto della tomma è arrivato fino a oggi, sebbene la meccanizzazione della mietitura abbia cancellato le figure dei mietitori, le relative specializzazioni, le loro migrazioni stagionali. Tra le persone anziane di Tricase alcuni lo ricordano; Pina Scarcella, studiosa e cultrice di storia e cultura locale, ne ha registrato tempo fa una versione su un nastro, riposto in chissà quale recesso insondabile, della quale ha trascritto due strofe che coincidono quasi esattamente con la prima e la terza di Raeli:

Aggiu metutu ieu sutt’a Puzzànu
osete, beddhra mia e damme la manu
[4]
damme la manu.
La vurpe è cudilonga e cortupilu,
nùnne sciamu de cquai
ci no bbavimu
ci no bbavimu.

Ella aggiunge che il termine tomma indica il campo da mietere e deriva dalla voce vernacolare tùmmunu (altrove si dice tùmminu, ma le varianti locali sono più di una), tòmolo, o da tummanata, che stanno a indicare, rispettivamente una superficie di 85 e 48-66 are.

Prendendo in esame l’articolo di Raeli, Irene Maria Malecore, ormai oltre mezzo secolo fa, leggeva nel corteo che egli ha descritto una rappresentazione drammatica con finalità propiziatorie, secondo un canone interpretativo a cui faceva ripetutamente ricorso (Malecore 1967); più interessante è invece, per me, il richiamo che l’autrice fa a una versione della canzone epico-lirica Verdeoliva, raccolta in Molise, nella campagna di Agnone, e pubblicata nel 1920 dal medico Michele Gerardo Pasquarelli come Cantata di mietitori e spigolatrici durante la messe nell’agro Agnonese: il canto è a due voci, la seconda delle quali interviene con l’intercalare thomma, bella thamma (nella grafia usata da Pasquarelli) alle quali si aggiunge il coro nel ritornello Tantantà ti ne tantantà, ti ne tantantà ti re Thomma e nella strofa finale, con la quale viene rivolto un ringraziamento alla padrona, incluso un brindisi, quasi certamente, da parte dei braccianti soddisfatti dopo aver consumato il pasto che ha preparato per loro a chiusura del lavoro:

1. E mèu c’havàime vìvete e magniète
2. Thomma bella thamma!
1. Faccèime nu sunette a la patràuna
Faccime nu sunette
2. Thomma!
1. Alla patràuna
2. Thamma!
Tutti a coro: ‘N chesta tàura ne c’è mancheàta niente
salèute alla patrùna e ari pariente.
Tantantà ti ne tantantà, ti ne tantantà ti re Thomma
[5].

La vicenda di Verdeoliva è ampiamente nota e sono molto numerose le versioni registrate (cfr., tra gli altri, Casetti, Imbriani, 1871-1872; Bronzini 1956): la ragazza, che nel canto molisano si chiama Pentaoliva, va in sposa contro la sua volontà a Contemarche, ottiene di non essere toccata dal marito la prima notte di nozze perché ha fatto un voto a santa Margherita e, mentre il marito dorme, scappa e va a raggiungere Conteacine, di cui è innamorata. Stando a Pasquarelli, la canzone di Pentaoliva accompagna il lavoro dei mietitori, ma la sua parte conclusiva restituisce un contesto conviviale, come dicevamo.

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Giuseppe Palumbo, Mietitori, 1909 (campagna salentina)

Canti della tomma

Il complesso rituale dei mietitori di Tricase, che comprende il corteo, il canto, la danza collettiva con la falce in pugno, le bevute di vino, il trasporto del covone, talora la slegatura prima della partenza per il ritorno, richiama in qualche misura il cosiddetto gioco della falce, rilevato e ricostruito in Basilicata, a San Giorgio Lucano, nel giugno del 1959, dall’etnologo Ernesto de Martino e dal fotografo Franco Pinna, e oggetto di un documentario di Lino Del Fra (1960) [6].
Il gioco, lo chiameremo anche noi così, ha due momenti fondamentali che qui riassumerò in pochissime parole: innanzitutto, la mietitura viene mascherata dalla caccia a un animale che si nasconde nel grano, e per catturarlo è necessario tagliare le spighe; un contadino, nelle vesti di un capro o di una lepre, viene stanato e ucciso; questa simulazione serve a evitare che la terra, risentita per lo scempio a cui è costretta, si rifiuti di dare ancora i suoi frutti: si tratta, insomma, di una vera e propria finzione rituale che ripete un modello di cui si ha notizia già nella più antica mitologia di area mediterranea (de Martino 1983).

Il secondo momento consiste in una teatrale aggressione al padrone del campo da parte delle squadre dei mietitori: alla fine del lavoro, essi avanzano compatti in corteo, con i loro attrezzi in mano, al seguito di una donna che tiene posato sulla testa un covone di grano, si dirigono verso il padrone e abilmente lo spogliano dei suoi abiti usando la punta delle falci; questi offrirà loro da bere e da mangiare. Le fotografie di Pinna ritraggono nel gruppo un suonatore di zampogna e alcuni lavoratori che cantano in gruppo. Cosa cantino non lo sappiamo.

Il tema del conflitto tra padrone e contadini, drammaticamente rappresentato a San Giorgio Lucano, compare in un coevo canto della tomma registrato da Alan Lomax e Diego Carpitella nel 1954 a Locorotondo, in Puglia, e tuttora inedito, a quanto mi risulta[7]. Lo eseguono due voci femminili che si alternano. Ne trascrivo il testo, con qualche imprecisione, temo, poiché conosco poco la lingua locale:

1. Stu camp ci ste nnant cu passi rieta
2. Ohi tomme cu passi rieta
1. Stu camp ci ste nnant
2. Tomme belle
1. cu passi rieta
2. E brave
1. E a ci l’ha semenate e cu se lu mieta
2 E cumannu [cumë a nu] tomme a tomme e a n’ate tomme
1. Quantu vulevu nu piattu te maccarune
2. Ohi tomme te maccarune
1. Quantu vulev nu piattu
2. Tomme belle
1. te maccarune
2. E sì
1. E ca mu lu salutame lu nostru patruna
2. E cumannu cumannu [cumë a nu] tomme a tomme lu nostri patruna

Le altre due strofe, che vengono eseguite nello stesso modo, sono le seguenti:

Patrunu vene e pigghi… ca vae la figghia
e patrunu va la figghia e la menza pigghia
Non ci anu state mai do cuoramata e ca nu me stanu duaie cuore abbracciata [8].

Non serve cercare e individuare una coerenza tra le varie strofe, perché, come dicevo sopra, i cantori si sentono abbastanza liberi di associare coppie di versi tra loro, indipendentemente dal significato. Però, in questo caso, mi pare che emerga la polemica contro il padrone, almeno nei primi tre distici: chi ha seminato il campo dovrebbe raccoglierne i frutti, ma il padrone comanda, non farà un passo indietro, né si sporcherà le mani, né farà alcuna fatica. La figura del padrone è associata al potere, ai maccheroni, al benessere alimentare, conviene salutarlo per bene, perché ne offrirà ai lavoratori, a lavoro finito.

Abbiamo lasciato implicita la durezza delle giornate dei mietitori, sotto il sole estivo e il controllo occhiuto dei proprietari o dei loro uomini, costretti a tenere un ritmo costante nel tagliare e legare, in un ambiente arido, tenendo una posizione curva tutt’altro che comoda. In particolare, coloro che si spostavano lontano da casa, se avevano già stretto un accordo con i proprietari terrieri, trascorrevano le ore della notte in ripari di fortuna nelle masserie oppure senza alcun ricovero, dipendevano per il cibo dal padrone, e non avevano la possibilità di darsi una ripulita; gli altri, i braccianti in cerca di lavoro, si fermavano a dormire direttamente sul selciato nelle piazze dei paesi per essere pronti alla chiamata dei fattori che giungevano prima dell’alba [9].

Torniamo in Puglia. Un canto dei mietitori raccolto a Laterza (Taranto) comincia con gli stessi versi di quello di Locorotondo; anche in questo caso sono due donne a eseguirlo, ma non possediamo notizie sull’andamento musicale, se le voci si alternavano, se era previsto l’intervento di un coro; in questo caso non abbiamo alcun riferimento all’espressione che ormai ci è familiare – tomma, bella tomma – né, esplicitamente, alla figura padronale, alla quale, però, è certamente riferibile l’incipit, come per il canto riportato più sopra.

U campe ci stêje nnande fatte rète
ca ci t’ha semenête l’ava mète
La madre piangeva a braccia aperta,
ché eri tanto bella e môe sì morta.
E tu, tramundanella, de lu lijànda
defrìscéche u metetòre e lu lijànda.
Staccamurella mìja, staccamurella
e t’àgghje mise la vriglia e ango la sella,
E t’àgghje mise la vriglia ango la sella,
a poco a poco mi metto a cavallo [10].

Colpisce il secondo distico che tocca il tema della morte di una figlia, vedremo più avanti di dedicarvi una breve riflessione, sempre che sia il caso, considerando che, come dicevamo, l’accostamento delle coppie di versi può avvenire in modo arbitrario; c’è poi l’invocazione al vento fresco, che dia sollievo ai lavoratori, purché non soffi molto forte (tramontanella) perché renderebbe difficoltoso l’atto del mietere.
Decisamente dirette contro il padrone sono le strofe del canto Tòmma tòmma raccolto a Fasano (Brindisi), il cui contenuto, tuttavia, non riguarda direttamente il lavoro dei mietitori, ma dei braccianti, più in generale; gli autori della ricerca, pubblicata nel 1991, traducono in italiano il titolo con lemme lemme (piano piano), dimostrando che il collegamento con quella realtà oggi è ormai sfilacciato, se non dimenticato:

Tòmma tòmma
Ahi! tòmma bèlla tòmma
Da do tí lí mené
na palla d’àure
recevatìlle tù, préime amáure.
Ahi! tòmma bèlla
tu pàsse ca sté nànde
je pàsse ríte
a ce t’à semenâte, cu te míte.
Ahi! tòmma bèlla tòmma
U sáule mùnte mùnte
scínne patróume c’amà fé li cùnte
i cùnte c’ama fé
i fateiâte i m’a paghé.
Ahi! tòmma bèlla
aqquanne u sáule jèsse
u patróume vé de prèsse
aqquànne u sáule pònne
u patróume se nascònne.
Ahi! tòmma bèlla tòmma
Patróume scapuléime
all’áure de menzadì
ne presentéime alla mèssarì.
Ahi! tòmma bèlla
alla méssarì d’Autóure
tùtte patróume tùtte fattóure
aqquànne jì l’áure de scápulé
nescióume patróme se fâsce acchié.
Ahi! tòmma bèlla tòmma
i megghièreme sâpe fé,
i sâpe fé
i megghièreme sâpe fé,
… i récchie de prìvete.
Ahi! tòmma bèlla
i patróume ve la pìgghe
i ve la pìgghe…
i patróume ve la pìgghe
nu rezzóule d’àcque.
Ahi! tòmma bèlla tòmma [11].
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Giuseppe Palumbo, Veduta di un’aia, 1910 (campagna salentina)

Insomma, abbiamo a che fare con una vera e propria invettiva nei confronti del padrone che vive grazie a fatiche altrui, la mattina all’alba mette già fretta ai braccianti, ma al termine della giornata la tira per le lunghe e non si fa trovare (Colazzo, Imbriani, Mengoli 1991); infine, con un gioco di parole, viene invitato a prendersela in quel posto (padrone, vattela a prendere… la brocca). È molto interessante, poi, l’allusione vagamente oscena a quel che sa fare la propria moglie. Per quanto riguarda l’uso e il significato dell’espressione tòmma, nell’area di Brindisi, troviamo soccorso nel Dizionario del dialetto di Ostuni di Tommaso Nobile, in cui troviamo, sub voce: «tòmma, s. f.: ammasso, cumulo, colmo, pieno; fèscëra na tomma dë mannùcchjë ‘fecero un grosso carico di covoni’»; l’autore rinvia a tùmmënë, tùmënë, tomolo, la misura di capacità degli aridi e di superficie, come sappiamo; a ttomma si dice del carico molto (di fascine, paglia covoni…) di un carro e di un recipiente stracolmo (Nobile 1999: 666).

Una versione più recente del canto, U tomma tommë, eseguita da due voci femminili che si alternano, è stata registrata da Massimiliano Morabito a Cisternino (Brindisi) nel 2003: il testo è diverso dagli altri, perché riferisce sulle fasi della lavorazione del grano, dalla mietitura alla macinatura (taglio, legatura, trebbiatura, ventilazione, trasporto di paglia nella stalla, molitura):

 – Lu cambë cha stè innanda ccu passë reta
– Ai tommë cu passë reta
– E lu cambë ca stè innandë
– Tomma bellë
– Ccu passë retë
– E sina
– E ma ci la sëmënata bellë è cu ssì lù meta
– E cummë a nu tomma tomma e ca si lu meta
– Ma tu ca ve reti attacchë li mannocchia
– Ai tommë attacchë li mannocchjrë
– E ma tujë cha ve retë
– Tomma bellë
– Attacchë li mannocchië
– E bravë
– E ma quannë nu finimë allë ritirë porta
– E cumë a nnu tomma tomma e ca te li porta
– E ma tuja cumë affeja të li pëseja
– E cumë a nu tomma tomma e ca l’ha pëseja
– E mittë lu cavalla co tre pësara
– E cumë a nu tomma tomma e pë tre pësera
– Giacchè ca tuj tjinë da vënduleja
– Aij tommë da vinduleja
– E ma cucinë la chëcuzza e lu vjindë t’ajuteja
– E cumë a nu tomma tomma e ca t’ajuteja
– E ma purtë li cavallë ma ’nd’alla stalla
– Ajë tommë jindë alla stalla
– Ma purtë li cavaddë
– Tomma bellë
– Jindë alla stallë
– E bravë
– E piccè am’anghì la pagghiera
– E ma di la paglia
– E cumë a nu tomma tomma
– E ma di la paglia
– Ma tu cavallë tuji ch’a lavurata
– Ai tommë ca ha lavorata
– E ma jindë all’erë më li fatta e ma li candata
– E cumë a nu tomma tomma
– E ma li candata
– E ma ji agghià purtè lu grane ma pë mangeja
– Oijë tommë pë mangeja
– Ma ji agghia vundëlè lu granë
– Ma pë mangeja
– Tomma bellë
– E ma a lu mulinë sta e ma pë sparneja (fare la farina
dal grano)
– E cumë a nu tomma tomma e ma pë sfarneja
– Cumë a nu tomma tomma
– E dindirindin ce bellë tommë
– E dindirindin ce bellë tomma
– Cumma nu tomma tomma
– E dindirindin ce bellë tommë
– E dindirindin la cumbagnia
– la cumbagnia, la cumbagnia [12].

immagine-n-4_page-0001Incanata?

Dopo questo excursus possiamo dire che il significato di tomma oscilla tra estensione di un campo coltivato a frumento e raccolto, carico abbondante; nei testi ci è agevole isolare il tema della protesta contro il padrone, talvolta diretta, oppure mascherata dal sarcasmo, che non è, ovviamente, esclusivo dell’ambito riguardante la mietitura, e che in altri documenti troviamo rivolta nei confronti del fattore e dello stesso antieri, se impone un ritmo sostenuto alla paranza o compagnia, o della maestra da parte delle tabacchine.

La questione che mi pongo è se sia plausibile considerare il canto della tomma come una espressione e una testimonianza della incanata ricostruita, in particolare, da Alfonso Di Nola; essa consisteva in manifestazioni di ostilità e di aggressività da parte dei mietitori e dei vendemmiatori (poteva accadere durante la raccolta delle olive, della canapa, la tosatura) che colpivano coloro che passavano nei pressi dei campi in cui lavoravano, oltre che gli stessi proprietari, e non di rado si traducevano in atti violenti. Le fonti che raccontano episodi del genere sono sovrabbondanti, riguardano vari Paesi europei e alcune risalgono fino agli albori dell’età moderna; provocazioni, insulti e oscenità varie potevano essere lanciati in modo molto libero, oppure con i canti, magari con lo stimolo di qualche sorso di vino. Tra le altre cose, è piuttosto interessante quel che accadeva in Campania, nell’area di Pignataro, che in qualche misura si avvicina alla scena di San Giorgio Lucano raccontata da de Martino; la Domenica delle Palme, il padrone collocava in mezzo al campo un ramoscello d’ulivo, al tempo della mietitura i lavoratori che lo trovavano, dopo averlo adornato di spighe intrecciate e papaveri, glielo portavano in processione e glielo consegnavano facendogli gli auguri e chiedendo da bere; se quello si rifiutava lo coprivano di insulti finché non cedeva:

«Dopo aver bevuto, si compivano atti di denudamento, il cosiddetto “salatiello”, e di solito erano le donne a denudare i maschi, anche con violenza perché gli abiti erano strappati di dosso. Era anche presente un cerimoniale di morte carnevalesca, nel corso del quale alcune braccianti stendevano a terra una bracciante che si fingeva morta. Le altre presenti la circondavano e la piangevano “a muorte”, vale a dire secondo l’uso proprio del pianto funebre, per poi sollevarla improvvisamente reggendola distesa sulle loro braccia» (Di Nola 1983:126).

Non sono sicuro se i versi del canto di Laterza, che ho sopra segnalato, in cui si fa riferimento alla figlia morta, siano accostabili a una rappresentazione della morte, come avviene a Pignataro, o a una pratica di stampo carnevalesco; sottolineo tuttavia, rapidamente, che la morte è presente, eccome, nel gioco di San Giorgio Lucano: è l’epilogo della caccia a un animale, o forse la restituzione in forma drammatica di un sacrificio, l’omicidio di uno straniero che passi da quelle parti, vittima reincarnata dell’antico mietitore Lityerses, a sua volta ucciso da Eracle; a partire dalle più antiche opere letterarie e monumentali realizzate nelle civiltà del Mediterraneo, la morte e la lamentazione funebre sono intensamente legate al raccolto (de Martino 1983; Bessi 2020). Per mille vie e altrettanti balzi, scarti, deviazioni, Litierse, Eracle, Demetra, Osiride si sono fermati alle pendici del Pollino. Oggi, nei paesi dell’area, Episcopia, Noepoli, Teana, San Paolo Albanese, anche altri, i fedeli offrono ai santi venerati complesse strutture realizzare con spighe di grano intrecciate (Ferrarini, Scaldaferri 2020). Il gioco della falce torna a San Giorgio Lucano in versione patrimonializzata, riproposta a metà agosto nella piazza del paese e, durante l’estate, secondo il progetto presentato alla Regione Basilicata, in altre località della Val Sarmento [13].

Ma conviene tornare, rapidamente, al punto da cui siamo partiti e a una questione avanzata poco sopra: la marcia dei mietitori di Tricase possiamo intenderla in termini di una incanata? Alcuni elementi lo lascerebbero intendere, come la compattezza del gruppo, il fatto che gli uomini brandiscano la falce, soprattutto la pretesa di ottenere da bere; abbiamo altresì notato che il corteo si traduce in un omaggio alle innamorate, e questo sfugge al canone dell’aggressione, seppur simulata.
Mi son fatto l’idea che quei contadini trasferissero per le strade del paese un rituale in uso nelle masserie e nei poderi delle province di Taranto o di Brindisi, se non della Basilicata, dove si recavano a mietere, e dove il fattore o il padrone costituivano il bersaglio delle invettive o la controparte degli accordi stilati. Ribadisco che anche nel Capo di Leuca i rapporti tra lavoratori e proprietari raramente sfuggivano alla norma dello sfruttamento, ma qui parliamo di un caso specifico di cui, come sappiamo, il nostro testimone privilegiato, Vito Raeli, non conosce esempi nella zona. Per le strade di Tricase, quindi, si mette in scena una replica che vale alla stregua della liturgia del rientro, una celebrazione festosa del ritorno, dopo un periodo di lontananza durato, generalmente, oltre un mese. Tutta la comunità ne è coinvolta, come era stata interamente toccata dalla partenza e dalla assenza di quegli uomini. Non credo sia necessario scomodare Van Gennep per arrivare a questa conclusione: si tratta di un modo complicato per affermare, nel modo più assertivo possibile, eccoci, siamo tornati, siamo qui.

Dialoghi Mediterranei, n. 43, novembre 2020
Note
[1] Si spostavano anche oltre, in realtà, fino alle alture della Basilicata, dove le messi maturavano in ritardo rispetto alla pianura. Sull’articolo di Raeli cfr. anche Polito 2017.
[2] Traduzione: Ho mietuto, io, a Pulsano [località nei pressi di Taranto], addio Ninella mia, dammi la mano.
[3] Trad.: Bella, sono venuto e qua mi fermo, grazie al tuo credito ho saziato il mondo [l’onestà della donna amata è risaputa dappertutto]. La volpe ha coda lunga e pelo corto, da qui non ce ne andiamo se non avremo bevuto.
[4] Trad.: Alzati, bella mia, e dammi la mano.
[5] Trad.: E adesso che abbiamo bevuto e mangiato, facciamo un sonetto alla padrona: in questa tavola non ci è mancato niente, salute alla padrona e ai parenti: cfr. Pasquarelli 1987, 463-464; l’autore afferma di aver trascritto la canzone dalla rivista «Giambattista Basile».
[6] Ernesto de Martino pubblicò un articolo su «L’espresso mese» (agosto 1960) poi confluito in Furore simbolo valore (1962) (cfr.de Martino 2013). Il film di Lino Del Fra si intitola Passione del grano (1960).
[7] Le registrazioni effettuate in Puglia nel corso dell’esplorazione etnografica di Lomax e Carpitella costituiscono la Raccolta 24-B conservata presso gli Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma (Cfr. Plastino 2002; Agamennone 2017); Agamennone si sofferma anche sull’articolo di Raeli.
[8] Trad.: Nel campo chi sta avanti passi indietro / e chi lo ha seminato se lo mieta // Quanto vorrei un piatto di maccheroni / e lo salutiamo il nostro padrone // Padrone vieni tu a prenderla [ma forse si può intendersi anche: padrone vattela a prendere… in quel posto; cfr. anche più oltre, nel testo], va la ragazza a prendere la menza [contenitore di stagno per l’acqua] // Non ci sono stati mai due cuori amati / e non ci stanno due cuori abbracciati.
[9] Una eccellente ricostruzione di questa realtà in Mirizzi 1990. Si vedano le fotografie scattate da Arturo Zavattini nella piazza centrale di Tricarico, in Basilicata, a giugno del 1952, tra i braccianti che riposano la notte sul selciato (Cfr. Gallini, Faeta, 1999; Faeta 2003).
[10] Trad: Il campo chi è davanti si faccia indietro / ché chi lo ha seminato se lo deve mietere. // La madre piangeva a braccia aperte / perché eri tanto bella e adesso sei morta. // E tu tramontanella del levante / rinfresca il mietitore e il legatore. // Staccamurella mia staccamurella / ti ho messo la briglia e anche la sella // E ti ho messo la briglia, anche la sella, a poco a poco mi metto a cavallo (Bongermino 1985, 103); le informatrici registrate sono Antonia Petrelli, di 68 anni, ovviamente all’epoca della rilevazione, di Laterza (5 elementare), e Antonia Tamborrino, di 66 anni, anch’ella di Laterza, analfabeta. L’8 dicembre 1952 Diego Carpitella ed Ernesto de Martino hanno registrato a Pisticci (Basilicata) un breve canto Alla pisatura (della trebbiatura) che comincia Agghia dumete na stacca murella: cfr. http://www.teche.rai.it/2014/11/archivio-del-folclore-musicale-italiano-basilicata/; cfr. inoltre Documentazione e studi RAI 1977.
[11] «Lemme Lemme // Ahi tomma bella tomma / Da qui ti lancerò / una palla d’oro / prendila tu, primo amore // Tu passa che stai avanti, io passo indietro / e chi ti ha seminato / che ti mieta // Il sole tramonta dietro i monti / vieni padrone, facciamo i conti / i conti che dobbiamo fare / io ho lavorato e mi devi pagare // Quando spunta il sole / il padrone ha fretta / quando il sole tramonta / il padrone si nasconde // Padrone smettiamo di lavorare / domattina cominciamo prima / a mezzogiorno ci presentiamo alla masseria // Alla masseria di Arturo / tutti padroni e tutti fattori / quando è l’ora di lasciare il lavoro / nessun padrone si fa vedere // E mia moglie sa fare / sa fare… / Le orecchiette // E padrone vattela a prendere / vattela a prendere… / una brocca d’acqua»: Latorre, Legrottaglie, Palasciano 1991: 51-52.
[12] Cfr. http://www.perledimemoria.it/canti-sonori/; una veloce notazione culinaria: viene evocata la cottura della zucchina (cucinë la chëcuzza), non i più appetibili maccheroni. Per l’ascolto: http://www.archiviosonoro.org/archivio-sonoro/archivio-sonoro-puglia/fondo-morabito/anna-palmisano/46-u-tomma-tomme.html; l’andamento musicale del canto di Locorotondo, sopra citato, è molto simile a questo di Cisternino.
[13] Cfr. https://patrimonioculturale.regione.basilicata.it/rbc/form.jsp?bene=541&sec=5
 Riferimenti bibliografici
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– 1983, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino: Boringhieri  (I ed. 1958).
Di Nola A. M. 1983, L’arco di Rovo. Impotenza e aggressività in due rituali del Sud, Torino: Boringhieri.
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Faeta F. (ed.) 2003, Arturo Zavattini fotografo in Lucania, Milano: Federico Motta.
Ferrarini L., Scaldaferri L. 2020, Sonic Ethnography: identity, heritage and creative research practice in Basilicata, southern Italy, Manchester: Manchester University Press (in corso di stampa).
Gallini C., Faeta F. (eds.) 1999, I viaggi nel Sud di Ernesto de Martino, Torino: Bollati Boringhieri.
Latorre A., Legrottaglie L., Palasciano G. 1991, Amáure mì sâpe cantè. Canti popolari di Fasano, Fasano: Crsec.
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Sitografia
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Eugenio Imbriani, professore associato di Antropologia culturale e Storia delle tradizioni popolari presso l’Università del Salento (Lecce), afferisce al Dipartimento di Storia, società, studi sull’uomo. I suoi interessi sono orientati allo studio del folklore, ai temi della cultura popolare, della scrittura e dell’esperienza etnografica, ai rapporti tra memoria e oblio nella produzione dei patrimoni culturali e delle identità locali. Ha prodotto numerose pubblicazioni, monografie, saggi apparsi su riviste, in volumi collettanei, atti di convegni; è direttore della rivista “Palaver”; dirige la Sezione etnografica del Museo Civico di Giuggianello (Le). Ha conseguito l’abilitazione nazionale alla prima fascia della docenza.

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