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Tutte le guerre sono una sconfitta

gUERNICA DI pICASSO (PART.)

Guernica, di Picasso (part.)

di Vincenzo Guarrasi [*]

                                   “Considerate la vostra semenza:

fatti non foste per viver come bruti…”

(Inferno, Canto XXVI)

Qualcosa di umano 

La guerra è qualcosa di umano. Gli alberi non si fanno la guerra. Gli animali non si fanno la guerra. Cosa vuol dire allora che “la guerra è qualcosa di umano”? Che essa appartiene alla natura umana? No, la guerra non appartiene alla natura, neppure alla natura umana. E allora? Se non appartiene al mondo naturale, non può che attenere alla sfera della cultura. Qualcosa di appreso – ovvero, non trasmesso geneticamente – che impariamo nel corso della storia. Qualcosa che impariamo gli uni dagli altri. La violenza genera odio, l’odio genera violenza. Ecco come si attiva la spirale della guerra. Ecco come la guerra genera guerra [1].

Sul vocabolario Treccani leggiamo: «La guerra è un conflitto armato tra due e/o più comunità politiche sovrane che si svolge secondo una precisa linea di demarcazione tra interno e esterno». Ho evidenziato le parole-chiave di questa definizione: un conflitto armato presuppone la presenza di eserciti e un’economia volta alla produzione, circolazione e consumo di armi; come la storia ci insegna, la guerra presuppone il conflitto tra comunità politiche sovrane (Città-stato, Imperi, Stati nazionali), che esercitano ciascuna la sovranità sul proprio territorio, ovvero una porzione della terra, delimitata da una frontiera, cioè una precisa linea di demarcazione. Al di qua e al di là di tale linea si suole pensare che ci siano popolazioni umane dotate ciascuna di una distintiva identità culturale, soprattutto da quando parliamo di Stati nazionali. Quindi interno e esterno si contrapporrebbero in virtù di una netta distinzione tra identità e alterità: noi e gli altri. Nell’affrontare la questione, come il lettore avrà inteso, ho fatto spesso ricorso all’uso del condizionale, perché ritengo sulla scorta della letteratura più avvertita (Bhabha, 1997) che a fondamento dell’idea stessa di “nazione” operi un dispositivo impregnato di un potente immaginario, capace di influenzare il sentire profondo di vaste comunità umane e dei loro rispettivi referenti politici: l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e il conflitto israelo-palestinese ne costituiscono la più drammatica evidenza contemporanea. 

linee-bhabha-nazione-narrazioneLa Palestina e il paradosso della storia 

Nel caso del conflitto israelo-palestinese ci troviamo in presenza di un vero e proprio paradosso della storia: in un mondo scandito e articolato in un mosaico di Stati nazionali, una tessera del mosaico ha uno statuto del tutto eccezionale. Sono tante le porzioni del pianeta terrestre contese tra diverse comunità politiche, tante le cosiddette “nazioni senza stato” (pensiamo ad esempio ai Curdi), tanti, purtroppo, i conflitti in atto ma quello, di cui intendiamo occuparci adesso, ha una specificità tale da indurci a parlare di unicità. In esso persino la geografia e la storia – le discipline sorelle – sembrano entrare in contrasto l’una coll’altra. Due comunità politiche distinte e contrapposte aspirano a esercitare la propria sovranità sul medesimo territorio, considerandosene ciascuna legittimamente titolare: una, gli israeliani, per esserne stati scacciati a forza due millenni fa, gli altri, i Palestinesi, per essere stati sempre lì. 

Gli Imperi e l’arbitrio del potere 

La frattura tra la storia e la geografia, nel caso della Palestina, è stata determinata da atti di arbitrio territoriale che sono consentiti solo agli Imperi: fu un Impero, quello Romano, infatti, nel Settanta d. C. a distruggere il Tempio di Gerusalemme e a cacciare gli Ebrei da quel territorio, dove erano approdati dopo secoli di lunghe e travagliate peregrinazioni. E fu un altro, Impero, quello britannico, che con un gesto egualmente arbitrario, si è arrogato il diritto, dopo la caduta dell’Impero Ottomano e aver esercitato sulla zona il suo protettorato, di assegnare agli ebrei una porzione di territorio, espellendone ad un tempo un altro popolo. Un evento che da una parte viene ricordato come la creazione dello Stato di Israele e dall’altra come Nakba, l’esodo forzato della popolazione araba palestinese. Da allora, si snoda una tragica successione di eventi, che inevitabilmente genera due narrazioni distinte e contrapposte. 

978880615511graUn’asimmetria insostenibile 

Le guerre contemporanee sono caratterizzate da un tratto così marcato, l’asimmetria, che facciamo persino fatica a chiamarle guerre. Ciò è drammaticamente evidente nel rapporto tra Palestina e Israele. È in atto una guerra? Tale è lo squilibrio tra le forze in campo che parlerei piuttosto di una carneficina.

Ma c’è un altro motivo, per cui l’asimmetria attuale è insostenibile: stiamo assistendo al declino sempre più evidente dell’unica potenza mondiale superstite a quello che è stato chiamato “equilibrio del terrore” [2]  (Viola, 2000): gli Stati Uniti d’America. Anche l’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina sarebbe stata impensabile se non si tenesse conto dello stato agonico dell’egemonia armata degli USA (e della NATO) sul mondo. Nessuna altra potenza appare in grado oggi di sostituirsi agli Stati Uniti. Ci viene in mente la Cina di Xi Jimping, lo so, ma non ci siamo proprio. Un discorso a parte merita l’attuale tentativo dei BRICS di modificare l’asse dei rapporti internazionali a loro favore. Su questo processo è ancora presto per giudicare. 

La storia dell’altro, ovvero le due narrazioni inconciliabili 

Ed è proprio da qui che vorrei partire. Da questa frattura insanabile nel flusso della storia. Chi lavora per la pace e persegue la via dei negoziati raccomanda sempre, lo so, che andare indietro nel tempo non è costruttivo ai fini della pace e della convivenza. Si afferma che, sottolineando ciò che avvenne nel passato, si rischia di radicare sempre più ogni contendente nella “verità” della sua ricostruzione dei fatti. Eppure, secondo me, il percorso della riconciliazione passa proprio per l’ascolto della narrazione dell’altro. Per questo, attribuisco un grande significato al lavoro svolto dal Peace Research Institute in the Middle Est quando ha costruito un manuale per le scuole con due narrazioni, due “verità” che corrono parallele nella stessa pagina: l’impresa straordinaria di un gruppo di insegnanti israeliani e palestinesi. 

«Il fatto essenziale e nuovo, assolutamente nuovo, è l’esistenza stessa di questo testo. – dice Pierre Vidal-Naquet nella prefazione – I professori che hanno redatto queste pagine l’hanno fatto nel rispetto reciproco dell’altro. […] Gli autori hanno scelto tre momenti di questa lunga storia: la dichiarazione Balfour che, nel novembre 1917, ha dato inizio alla realizzazione dell’utopia sionista, che si concretizza poco a poco fino al Libro bianco del 1939 che, in una data drammatica, segna una battuta d’arresto; la guerra del 1948, che è per gli uni una guerra di Indipendenza e, per gli altri, l’anno della Catastrofe; terzo momento infine, l’Intifada che, dal 9 dicembre 1987, ha scosso i Territori occupati e comportato gli accordi precari di Oslo.
C’è in ogni storia nazionale qualcosa di irrimediabilmente soggettivo e sarebbe infantile stupirsene e, ancora di più, indignarsene. Per quale ragione il vissuto dei due popoli non sarebbe incompatibile? Per i Palestinesi, questa storia è quella di una conquista di cui sono stati vittime, di una doppia espulsione, quella del 1948 e quella del 1967, sventura che è senza dubbio un po’ facile attribuire a una cospirazione, ma che non è per questo meno reale e drammatica. Per gli Israeliani, non si tratta di una conquista ma di un ritorno. Sento ancora Golda Meir alla fine del giugno 1967 ripetere instancabilmente: “When we came back”, quando siamo tornati, come se niente fosse successo fra l’antica diaspora ebraica e il “ritorno” dopo più di 2000 anni di “erranza”, come se niente fosse successo se non un lungo soggiorno nella “valle del pianto”. […] Sarebbe puerile chiedere loro di scrivere la stessa storia. È già ammirevole che accettino di coesistere in due racconti paralleli» (Vidal-Naquet, 2003). 

storia-altro-cop-lrLa via della riconciliazione è un percorso accidentato, in certi frangenti disastrato. Quando rullano i tamburi della guerra, le parole di pace hanno scarsa probabilità di giungere al cuore di chi è direttamente coinvolto in tale tragedia. Eppure non vi è altra alternativa praticabile. Questa è l’unica strada da perseguire. Nel processo che portò nel 1948 alla costituzione dello Stato di Israele e alla nascita della questione palestinese vi è un forte coinvolgimento, sin dall’inizio, della comunità internazionale. Nessuno è innocente. Non lo è l’Occidente, che ha legittimato, fuori tempo massimo, quella che agli occhi di tanti osservatori, compreso il già citato Pierre Vidal-Naquet, appare come un’impresa dal forte carattere coloniale. Non lo sono gli stati arabi del Medio Oriente che hanno a lungo giocato un ruolo di grande ambiguità, sostenendo la causa palestinese solo al fine di contrastare, senza successo, l’ascesa politica e militare dello Stato d’Israele e, puntualmente, lasciando i Palestinesi al loro destino, quando essi apparivano massimamente bisognosi del loro sostegno.

La cosa non sorprende perché, com’è tipico di tutto ciò che accade nel mondo contemporaneo, il conflitto si sviluppa su più piani – con una forte refluenza della dimensione mediatica sul piano della realtà – e su più scale: dal locale (Israele vs Palestina) a quella regionale (Medio Oriente) e globale (geopolitica planetaria; competizione per la leadership; Nazioni Unite, ecc.). A quest’ultimo livello, di grande interesse sono le ripercussioni in sede ONU, su cui ritorneremo in seguito. 

Brandelli di storia 

La storia degli ebrei è così peculiare che essa può essere raccontata soltanto facendo ricorso a parole come diaspora, Sionismo, ghetto, Shoah. Sono parole a tutti note, ma così intrise di tragedia da suscitare in ciascuno di noi una ridda di emozioni, arricchita e alimentata da fiumi di inchiostro e di pellicole cinematografiche atti a tratteggiare un destino che appare unico e irripetibile [3].

Basta in effetti la parola “Sionismo” per riportare una vicenda così peculiare, come quella degli ebrei, entro il solco della storia. Perché il Sionismo altro non è che l’aspirazione degli ebrei a riconoscersi come nazione tra le nazioni. E, in effetti, tale aspirazione comincia ad affermarsi proprio nell’epoca del trionfo del nazionalismo a scala europea [4]. Theodor Herzl al Congresso di Basilea del 1897 ebbe ad affermare: «Gli ebrei devono difendersi da soli, avere un esercito, assurgere a nazione tra le nazioni» (Viola, 2000).

Possiamo dunque affermare che il nazionalismo sionista altro non sia che il frutto tardivo di un processo di affermazione degli Stati nazionali, progressivamente diffusosi dall’Europa al mondo intero. Altrettanto tardivo viene considerato il nazionalismo all’interno della cultura araba. La riscossa delle disperse tribù arabe animata dalla diffusione del primo islamismo era stata orientata per secoli, piuttosto, verso un accentuato universalismo. Tale è la Umma, la comunità dei credenti. La nascita di un vero e proprio nazionalismo è stata promossa da figure leggendarie come Lawrence d’Arabia, e fu dapprima una reazione alla dominazione dell’Impero Ottomano, per poi tramutarsi in un’efficace azione di contrasto opposta all’espansione dell’imperialismo britannico.

6113ffbf88384145373991Il momento di conflagrazione tra questi due nazionalismi avviene proprio in occasione del repentino processo di formazione dello Stato di Israele, cui si accompagna una serie di guerre arabo-israeliane finalizzate da una parte a contrastare il passo degli Israeliti nella regione e da questi ultimi orientate ad affermare nel Medio Oriente un nuovo protagonismo. In gioco non c’era allora soltanto, per gli uni e per gli altri, la supremazia a livello regionale, ma anche le sorti di vecchi e nuovi imperialismi a scala globale. Avviene così che gli israeliani da oppressi, nel contesto specifico, divengono a loro volta oppressori ed espressione regionale degli interessi anglo-americani:

«Come Berlino Ovest, Israele diventò un elemento centrale per il controllo del Medio Oriente» (Viola, 2000: 267). Non sfugge agli storici più avvertiti la sincronia di eventi lontani nello spazio come l’aggressione israeliana, francese e inglese nei confronti dell’Egitto di Nasser, che avviene, proprio nel 1956, in corrispondenza dell’invasione sovietica dell’Ungheria: 

«La potenza ebraica era diventata oggetto di ostilità da parte del blocco socialista e dei Paesi ‘non allineati’ oltre che dei Paesi arabi … quindi della grande maggioranza delle Nazioni Unite. Ma allo stesso tempo si trasformava in un avamposto degli Stati Uniti. Il suo esercito divenne uno dei meglio armati e efficienti del mondo e da allora dotato di armamento nucleare. [Per converso] La questione palestinese non era un problema limitato allo scontro tra due nazionalismi in lotta per una stessa terra, ma uno dei grandi scenari del conflitto tra capitalismo e ‘antimperialismo’» (Viola, 2000: 433). 

Così leggiamo in Novecento di Paolo Viola e più avanti lo stesso autore esplicita il ruolo dei Paesi arabi a contorno: 

«Tanto quanto Israele i Paesi del nazionalismo arabo non avevano alcun interesse a risolvere pacificamente il problema palestinese. Al contrario, il loro prestigio internazionale, la loro possibilità di ricevere aiuti dall’Unione Sovietica si fondava sullo stato di tensione con la potenza ebraica» (Viola, 2000: 434). 

È forse ingenuo, ma sconvolgente, osservare che pur al cambio dei regimi politici i pezzi sulla scacchiera e i loro movimenti reciproci sono improntati ora come allora alle stesse logiche: Stati Uniti d’America, Russia, ONU, Paesi arabi giocano un ruolo tale da mantenere lo status quo favorevole a Israele e che ha portato al progressivo isolamento dei palestinesi. Comprendiamo così perché Edward Said, uno di più grandi intellettuali del secolo scorso, ebbe a sottolineare in modo sconfortato nel suo La questione palestinese «la tragedia di essere vittima delle vittime» (2020: quarta di copertina) e un’altra grande intellettuale contemporanea, Judith Butler, nel suo La forza della non violenza richiama la nostra attenzione sugli «schemi razziali che presiedono alla grottesca distinzione tra le vite che contano (e dunque sono degne di lutto se muoiono) e le vite che non contano» (2020).

Lo Stato di Israele, in effetti, si comporta come se alla morte di un israeliano debba corrispondere la morte di decine di palestinesi. La stessa logica pare presiedere persino allo scambio di prigionieri: quando essa è avvenuta, essi non sono mai stati in numero pari [5]. 

la-forza-della-nonviolenza-judith-butlerLa risoluzione ONU n. 242 

La Risoluzione dell’ONU n. 242 nel 1967 prescriveva il diritto di tutti gli Stati della regione, Israele compreso, a vivere “entro confini sicuri” e di tutti i popoli, compreso quello palestinese, ad autogovernarsi. Agli Israeliani l’ONU ingiungeva di ritirarsi dai territori occupati ed è rimarchevole il fatto che dopo un’altra guerra, nel 1973, il successore di Nasser, Anwar al-Sadat, ebbe il coraggio di proporre la pace, proprio sulla base della Risoluzione ONU 242, ma non convinse né la Siria né l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

Come più volte è accaduto e accadrà in un contesto così avvelenato dalla logica della guerra, Sadat nel 1981 fu assassinato [6]. Nel 1970 i guerriglieri palestinesi dell’OLP tentarono con le armi di prendere il potere in Giordania. Negli anni seguenti, cercarono di prendere il controllo del Libano, dove erano stati espulsi. E ciò spiega in qualche misura la diffidenza che i Paesi arabi confinanti hanno storicamente espresso nei confronti di questo popolo in armi. Nelle loro fila la guerra di liberazione si trasformò progressivamente in gesti di puro terrorismo nei confronti dello Stato di Israele (razzi sparati oltre il confine, bombe sugli autobus e nei mercati). Progressivamente si è così indebolita la leadership dell’OLP e si sono creati spazi per l’estremismo islamico entro una popolazione, connotata piuttosto da un prevalente laicismo.

Gli Israeliani, a loro volta, hanno via via accentuato la repressione anche a discapito di alcune acquisizioni della civiltà giuridica: il rispetto della persona umana, la presunzione di innocenza, il rifiuto della responsabilità collettiva. Finendo persino con il legalizzare la tortura e la demolizione delle abitazioni palestinesi (Viola, 2000: 436). Se leggiamo certe pagine di Edward Said, scritte nel 1992 e ripubblicate nel 2011, riscontriamo i tratti di una sorprendente continuità del comportamento israeliano nei confronti dei Palestinesi: 

«La politica israeliana degli attacchi punitivi (o, più esattamente, la pratica del terrorismo di Stato) sembra consistere nel cercare di uccidere dai cinquanta ai cento arabi per ogni vittima ebraica. La devastazione dei campi profughi libanesi, degli ospedali, di scuole, moschee, chiese e orfanotrofi; gli arresti arbitrari, le deportazioni, la distruzione di case, le mutilazioni e le torture inflitte ai palestinesi della Cisgiordania e di Gaza; l’uso di una retorica disumanizzante e velenosa da parte di politici israeliani, alti ufficiali, diplomatici e intellettuali per bollare come atti di terrorismo qualunque forma di resistenza e presentare così i palestinesi come esseri non umani (‘scarafaggi’, ‘cavallette’, ‘parassiti a due gambe’, ecc.); tutto ciò unito al gran numero di morti, alle enormi perdite materiali e alle privazioni politiche, fisiche e psicologiche subite, supera di gran lunga i danni causati dai palestinesi agli israeliani» (Said, 2011: 31). 

9788807171710_137169365_0_536_0_75Lo schema razziale e l’asimmetria nei rapporti di forza tra israeliani e palestinesi appaiono come una costante e ci riportano brutalmente all’attualità: le vittime palestinesi dal gennaio 2008 al settembre 2023 sono state, infatti, 6407 contro 308 vittime israeliane. A fronte di quanto è stato detto appare superficiale e rozza la rappresentazione di Hamas tout court come di una formazione terroristica [7]. La sua realtà e la sua relazione con il popolo palestinese e con il contesto regionale, in cui opera, è molto più complessa. Come ha dimostrato inequivocabilmente Paola Caridi nel suo volume dal titolo Hamas. Dalla resistenza al regime (2023): ci troviamo in presenza di un’organizzazione politica e militare palestinese, islamista, sunnita e fondamentalista fondata nel 1987, nel pieno della prima Intifada: «Hamas [8] non è un movimento terrorista, bensì un movimento che ha usato il terrorismo, soprattutto in una particolare fase della sua storia ormai ventennale» (Caridi, 2023: 16-7). Ed ecco di seguito spiegato il rapporto tra gli eventi del 7 ottobre e quelli immediatamente successivi e la nuova edizione di un libro che era apparso nel 2009: 

«… questo libro cresciuto e aggiornato su cui ho lavorato in questi ultimi due anni tornando di nuovo in Israele/Palestina. Un libro su cui il 7 ottobre 2023 è piombato all’improvviso, come tutte le cesure della storia. Il 7 ottobre, l’attacco dei miliziani di Hamas e del Jihad islamico dentro Israele, nelle zone confinanti con la recinzione e il muro che cinge Gaza, il massacro di millequattrocento israeliani e di altre nazionalità, la massima parte civili, il ferimento di migliaia di persone, la cattura come ostaggi di almeno duecentoquaranta israeliani e stranieri, secondo i numeri di fonte israeliana. Terrorismo, crimini di guerra. E l’immediata reazione di Israele su Gaza: i bombardamenti a tappeto sulle zone residenziali, la distruzione di interi quartieri, le migliaia di civili uccisi o dispersi sotto le macerie dei palazzi, bambini, donne, anziani, uomini, il trasferimento forzato di oltre un milione di palestinese. Crimini di guerra» (Caridi, 2023: 12-3). 

Ho preferito lasciare a lei la parola perché si tratta di materiale incandescente che necessita di mani esperte per essere trattato in modo appropriato. L’espressione usata da Caridi, “cesura della storia” ci pone, infatti, immediatamente sull’avviso. Tale cesura separa una guerra a bassa intensità, che colpevolmente la comunità internazionale ha finto di ignorare, e il crescendo attuale il cui epilogo tragico non è ancora dato prevedere.

Non possiamo ignorare, comunque, il fatto che, come afferma Mhawish su l’Internazionale «Israele conduce una guerra contro il popolo palestinese da più di settant’anni attraverso la pulizia etnica, l’occupazione, l’apartheid e l’assedio a Gaza [e che, quando regna la calma a Gaza] Gaza è bombardata, mentre i villaggi e le città del resto delle nostre terre sono invase, le case demolite, i giornalisti uccisi, le ambulanze attaccate, le moschee vandalizzate[9], le scuole colpite con i lacrimogeni e i palestinesi massacrati» (2023: 29).

Tutto questo avviene in un territorio, la Striscia di Gaza, di appena 360 kmq, abitato da più di due milioni di persone, di fatto sotto assedio dal 2007 e passato sotto il controllo dell’autorità nazionale palestinese quando «l’11 settembre 2005 fu ammainata l’ultima bandiera israeliana sulla Striscia di Gaza. Dopo aver mandato via i coloni che si erano stabiliti lì, le truppe dello Stato ebraico abbandonarono quel territorio, conquistato nel 1967 durante la guerra dei Sei Giorni» (Barthe, 2023: 22). Ma cosa avviene tra il 2005 e il 2007? Ce lo ricorda Paola Caridi: 

«Negli anni precedenti, erano scomparsi i due leader riconosciuti per i palestinesi, prima sheikh Ahmed Yassin, ucciso a Gaza in un omicidio mirato extragiudiziale compiuto dagli israeliani nel marzo 2004, e nel novembre dello stesso anno era morto in un ospedale di Parigi Yasser Arafat. Hamas aveva deciso di partecipare alla transizione politica e di candidare una sua lista alle elezioni per il Parlamento dell’Autorità nazionale palestinese (ANP) nel territorio palestinese occupato, cioè in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza: era il gennaio 2006, aveva vinto in maniera sorprendente anche per i membri del movimento islamista. La comunità internazionale, compresi i Paesi occidentali, aveva aiutato, sostenuto e benedetto quelle elezioni, e mandato persino molti osservatori internazionali. Eppure c’era Hamas, e questo non era stato un problema. La comunità internazionale decise, però, troppo rapidamente, di avviare un braccio di ferro con i nuovi arrivati al potere. E di stabilire, altrettanto rapidamente, l’embargo politico ed economico» (2023: 11). 

La successione degli eventi è micidiale: Israele abbandona la Striscia nel 2005; vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 e successivo embargo politico ed economico da parte della comunità internazionale; dal 2007 assedio di fatto da parte di Israele dei palestinesi della Striscia di Gaza. Anche le mosse di Hamas sono per certi versi imprevedibili e dimostrano, come osserva Caridi, una certa duttilità politica: lascia di fatto la Cisgiordania sotto il controllo di un esausto leader, Mahmud Abbas, ormai privo di consenso e legittimazione popolare, e concentra la sua azione sulla Striscia, dove con un colpo di mano afferma il proprio potere.

Siamo ben lontani, come risulta evidente, dalla logica imposta dall’ala militare di Hamas alla stessa ala politica del Movimento, tenuta all’oscuro, come pare, di quanto si ha in animo di fare il 7 ottobre. Avviene così che a partire dal 7 ottobre, da una parte e dall’altra si restringono gli spazi della dialettica politica e democratica e assumono il comando delle operazioni gli apparati militari: all’azione di Hamas risponderà il Gabinetto di Guerra, istituito in Israele a sostegno anche in questo caso di un leader esausto in termini di consenso e di credibilità politica, Benjamin Netanyahu intendo, destinato a sopravvivere a se stesso finché sarà in atto questo dirompente conflitto bellico a senso unico. Tale è la disparità delle forze in campo che l’uso della parola “guerra” risulta del tutto inappropriato. 

Il conflitto in atto, la logica della forza e della violenza e l’assordante propaganda bellicista hanno già lasciato sul terreno, oltre alle innumerevoli perdite umane, due vittime: la democrazia e le pratiche ispirate alla non violenza e alla pace. 

L’efferato attacco di Hamas e il trionfo della logica della guerra 

Anche il massacro del 7 ottobre rappresenta qualcosa che non può essere spiegato alla scala regionale se non lo si concepisce all’interno del tentativo di rivalsa delle autocrazie (dall’Iran alla Russia) nel momento di massima fragilità degli assetti politici ed economici mondiali. È stata, piuttosto, la cieca esplosione di violenza da parte dello Stato di Israele[10] a rischiare di compromettere seriamente l’intero assetto degli equilibri alla scala planetaria. Quanto è avvenuto in sede ONU non ha precedenti. Mi riferisco all’equilibrato discorso di Antonio Guterres, presidente dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e alla susseguente richiesta delle sue dimissioni da parte del Rappresentante dello Stato di Israele.

Dopo averli deprecati in modo inequivocabile, Guterres ha affermato che: «…gli attacchi di Hamas non sono arrivati dal nulla…» ed è bastato questo per fare saltare i nervi ai rappresentanti politici dello Stato di Israele. Anche quanto è successo dopo alle Nazioni Unite non è altro che la manifestazione di una crisi profonda dell’ordine mondiale: veti incrociati di americani e russi sulle rispettive mozioni e, infine, l’approvazione a maggioranza della mozione presentata dalla Giordania (con astensione, tra gli altri di Stati Uniti e Italia). 

9788807034084_0_536_0_75Nulla nella storia umana viene mai dal nulla 

Ciò mi pare evidente. Anche se c’è un vuoto della politica da rimarcare. A livello mondiale, intendo. Sulla questione palestinese, abbiamo tutti voltato lo sguardo da un’altra parte. L’esplosione di violenza attuale da parte di Israele, che ha portato alcuni osservatori ad usare la parola “genocidio” non sarebbe comprensibile se non si tenesse conto del permanente stato di oppressione – e di compressione nello spazio – di cui da decenni soffre il popolo palestinese. 

Lo scontro Israele-Guterres all’ONU 

Il Segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres ha suscitato una forte e risentita reazione da parte degli esponenti israeliani, affermando che gli attacchi di Hamas contro Israele «non sono arrivati dal nulla» in quanto il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione. Le sofferenze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas ma neanche questi attacchi possono, a loro volta, giustificare la punizione collettiva dell’intero popolo palestinese. La posizione espressa dal Segretario generale ha indotto l’ambasciatore israeliano all’ONU, Gilad Erdan, a chiedere le dimissioni del Segretario generale, sostenendo che il suo intervento di fatto costituirebbe una sorta di giustificazione “scioccante” del terrorismo e dell’omicidio, dimostrando come egli sia stato «completamente disconnesso dalla realtà della nostra regione». Quest’ultima argomentazione merita una sottolineatura: non è permesso a nessuno discostarsi dalla “realtà della nostra regione”, cioè nella nostra visione delle cose, dalla narrazione fondativa dello Stato di Israele. Pur essendo chiara da parte di Guterres la condanna dell’esecrabile attacco di Hamas del 7 ottobre, ciò non è sufficiente agli occhi degli israeliani, che tendono piuttosto a stravolgere la sua posizione e a chiederne la rimozione dal prestigioso incarico. 

Il sì alla risoluzione giordana sulla tregua 

La divaricazione tra gli intendimenti dell’ONU e la strategia politica e militare di Israele si accentua quando l’Assemblea generale perviene all’approvazione della bozza di risoluzione proposta dalla Giordania a nome di un gruppo di 22 Paesi arabi per un “cessate il fuoco a Gaza” al fine di garantire l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia. La mozione viene approvata con 120 voti a favore, 14 contrari (tra cui USA e Israele) e 45 astenuti (tra cui l’Italia). La bozza votata il 27 ottobre non corrisponde però a quella originale. Invece del cessate il fuoco vi appare l’espressione «tregua umanitaria immediata, duratura e prolungata che conduca alla cessazione delle ostilità». È significativa la posizione espressa dal Canada, che in qualche modo riflette anche quella degli Stati Uniti, secondo la quale la mozione non possa essere votata perché non contiene due parole chiave, “Hamas” e “ostaggi”, finendo per autorizzare con tali omissioni la brutalità di Hamas (Angieri, 2023). 

L’allarme di Guterres e il ricorso all’Art. 99 delle Nazioni Unite 

Coerente con la sua posizione iniziale il Segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres fa appello all’articolo 99 dello Statuto delle Nazioni Unite per invocare un intervento deciso della comunità internazionale prima che il conflitto si estenda ulteriormente nella regione e giunga a destabilizzare gli equilibri geopolitici alla scala globale: «È la prima volta durante il mio mandato da Segretario generale» ha sottolineato Antonio Guterres in un post su X in cui dà notizia di aver invocato l’articolo 99 dello Statuto delle Nazioni unite. «Il Segretario generale – recita l’articolo – può richiamare l’attenzione del Consiglio di sicurezza su qualunque questione che a suo avviso possa minacciare il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale». Nella sua lunga lettera al presidente di turno del Consiglio – l’ecuadoregno José Javier De La Gasca Lopez Domínguez – Guterres ricapitola quanto ha più volte ripetuto in questi due mesi di guerra: la condanna dell’attacco di Hamas al sud di Israele, la cattura degli ostaggi, le «agghiaccianti» violenze sessuali subite dalle donne israeliane (a cui l’Onu ha prestato attenzione con grande ritardo). Per poi invocare l’intervento della comunità internazionale sul «rischio del collasso umanitario» a Gaza che sotto «bombardamento continuo delle Idf (Israel Defence Forces)» va incontro, scrive Guterres, a «condizioni disperate in cui anche la fornitura di aiuti umanitari minimi diventerà impossibile». Potrebbe seguire una situazione «ancora peggiore», incluso lo scoppio di epidemie e «sfollamenti di massa nei Paesi vicini».

All’appello di Guterres – a cui Israele ha prontamente risposto che è lui la minaccia alla stabilità internazionale – si sono subito uniti l’Alto rappresentante per gli affari Esteri dell’Unione Europea, Josep Borrell, e Tedros Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità. Il portavoce della Commissione UE ha indirettamente risposto a Tel Aviv affermando «non sono a conoscenza di alcun Paese membro dell’UE che sia contrario al segretario generale» (Branca, 2023). Ma ancora una volta, l’azione di Guterres verrà stoppata del veto espresso dagli Stati Uniti in seno al Consiglio di Sicurezza, evidenziando una volta di più l’elemento di debolezza e di anacronismo dello Statuto dell’ONU, che continua a riservare una posizione privilegiata a un ristretto numero di Paesi. 

9788821113871La democrazia impossibile in un mondo dominato dalla logica della guerra 

Un regime veramente democratico non è compatibile con un mondo – o con un Paese – dominato dalla logica della guerra. Ne registriamo tante evidenze: dalla Russia di Putin alla stessa Ucraina di Zelenski, dallo Stato di Israele Benjamin Netanyahu alla Palestina in mano ad Hamas. L’Occidente stesso, a mio giudizio, ha prosperato sulla base del terrorismo atomico, ma non ha potuto dispiegare tutto il potenziale di una vera democrazia. Con riferimento alle nostre, parlerei piuttosto di democrazie imperfette. Non sorprende, comunque, l’impetuosa avanzata delle destre più estreme in Italia e un po’ dovunque nel mondo. Rattrista purtroppo l’omicida impermeabilità delle frontiere attuali, espressione evidente, esse stesse, della logica della guerra (Guarrasi, 2023).

La pressione della forza e la violenza hanno avuto, come abbiamo visto, un effetto devastante sulla dialettica democratica nella Palestina occupata, determinando la crisi della leadership di Mahmud Abbas (per noi, Abu Mazen) e di Fatah, la sua organizzazione politica, la trasformazione di una forza di resistenza come Hamas in un regime e, infine, il predominio dell’ala militare su quella politica all’interno di quel movimento.  Qualcosa di analogo, in forme più gravi, accade anche nel caso di Israele. Nel suo caso Alessandra Algostino parla di quattro veri e propri cortocircuiti: 

«Il primo cortocircuito della democrazia in Israele è nella tensione presente nella Dichiarazione di Indipendenza, laddove lo Stato è definito “ebraico e democratico”[11].
Il secondo cortocircuito è nella negazione dell’essenza della democrazia, l’uguaglianza. In Israele e nei territori occupati vigono regimi differenti, che concretizzano la definizione di apartheid come di colonialismo, sia in relazione alla legislazione e giurisdizione sia nelle discriminazioni in materia di diritti. (dagli espropri ed assegnazioni delle terre alla libertà di circolazione al riconoscimento della cittadinanza all’allocazione delle risorse per servizi e diritti sociali alle privazioni arbitrarie della libertà personale). E poi, come può definirsi democratico un sistema che esercita poteri di governo senza riconoscimento di diritto di voto ai governati (come è per i 5.5 milioni di persone, su 14.5 milioni, che risiedono nei territori occupati)?
Il terzo cortocircuito è reso dall’assenza del concetto di limite. Non vengono riconosciuti limiti per quanto riguarda il territorio (occupazioni, insediamenti, frammentazione delle terre palestinesi, il muro in Cisgiordania dichiarato illecito dalla Corte Internazionale di Giustizia); non è rispettato il limite del diritto internazionale [12].
Infine, il quarto cortocircuito, la guerra. La guerra è violenza, distruzione e sopraffazione, sempre; la guerra condotta contro Gaza (quanto sta accadendo è una guerra contro gli abitanti di Gaza non solo contro Hamas) è una violenza cieca ad ogni rispetto dell’umano. La violenza bellica, la sua disumanizzazione, l’arruolamento e la repressione di ogni dissidenza, si riverberano, offuscandole anche sulle democrazie più solide: laddove la democrazia sia già minata, o, più correttamente, negata, da ossimori come democrazia identitaria, etnica, coloniale, resta il buio, il buio che avvolge Gaza. La speranza è che, come tante voci si sono levate in Israele a difendere la democrazia contro la riforma giudiziaria, così si levino a chiedere un immediato cessate il fuoco e la fine di violente politiche coloniali» (Algostino, 2023). 

La martoriata Palestina e le forme della resistenza non violenta 

Il Presidente Esecutivo Rete italiana Pace e disarmo, Mao Valpiana, parla della sconfitta della non-violenza incompiuta:

«C’è stato un tempo in cui la nonviolenza abitava in Palestina. Dal 1983 il Palestinian Centre for the Study of Nonviolence (PCSN) ha agito nella tradizione della lotta di liberazione gandhiana e sulla scorta degli studi del politologo Gene Sharp, individuando 120 tecniche nonviolente di resistenza all’oppressione israeliana. I coloni sradicavano ulivi centenari, e gruppi misti di palestinesi e israeliani nonviolenti di notte ne ripiantavano il doppio. In questo modo migliaia di acri furono salvati dall’occupazione. La nonviolenza aveva finalmente trovato una via nuova per radicarsi nel mondo arabo, proseguendo la straordinaria esperienza di Abdul Ghaffar Khan, il Gandhi musulmano, capo indiscusso dei pashtun che nel 1929 fondò un esercito nonviolento di centomila Servi di Dio contro il colonialismo britannico. I suoi testi furono tradotti in arabo e diffusi a Gaza dove molti musulmani apprezzavano il fatto che la nonviolenza fosse parte integrante dell’Islam.
Nel 1987 le autorità israeliane accusarono Mubarak Awad, il leader del Centro palestinese per lo studio della nonviolenza, di violare le leggi del Paese incitando alla rivolta e organizzando la disobbedienza civile; gli fu intimato di lasciare il Paese e venne espulso. Oggi vive negli Stati Uniti e si è rivolto ai leader di Hamas e al governo di Tel Aviv chiedendo loro di “accettare un cessate il fuoco immediato, compresa la cessazione degli attacchi missilistici contro Israele e degli attacchi militari contro Gaza”. I semi di nonviolenza che erano stati piantati in Palestina quarant’anni fa, sembrano non essere più in grado di germogliare.
Il pessimismo è condiviso dalla palestinese Nivine Sandouka, direttrice esecutiva della Ong Our Rights di Gerusalemme: “56 anni di occupazione e 15 anni di assedio a Gaza, hanno fatto crescere enormemente la radicalizzazione, e tolto spazio all’umanizzazione: la maggioranza dei giovani guarda a chi dice di difenderli con le armi. Ma l’unica nostra possibilità – prosegue Sandouka-– è dimostrare che solo il dialogo e la pace difenderanno davvero i diritti della Palestina”[13]. 
La via d’uscita è nelle mani di chi romperà la spirale di odio, rifiutando la logica perversa della guerra. Solo i civili israeliani e palestinesi che sceglieranno la via della nonviolenza, dell’agire comune per la pace, potranno ridare speranza al futuro della regione.
L’organizzazione mista israelo-palestinese The Parents Circle – Families Forum (PCFF), riunisce più di 600 famiglie in lutto che hanno avuto vittime nel conflitto; ha pronunciato parole inequivocabili: “I nostri cuori sono spezzati. È un tempo di grande dolore. Il costo della violenza non si conta con i numeri, si conta in sogni frantumati. È il momento per tutte le parti coinvolte di riflettere sull’insensatezza di questo conflitto e riconoscere l’umanità condivisa che ci lega tutti”.
Siamo arrivati all’oscenità macabra della solidarietà misurata in numero di morti, come se un cadavere contasse meno di dieci cadaveri. Come se 1400 vittime identificate avessero più dignità di 8000 vittime anonime.
L’unica conta dei morti possibile è la somma per denunciare quante vite spezzate produce il mostro della guerra. I 3018 i bambini morti nei primi giorni di guerra dall’attacco del 7 ottobre, sono di Israele, Gaza, Cisgiordania. Ogni ora crescono. Quei bambini non hanno bandiere, solo un sudario bianco. La guerra è questo: che sia guerra santa per la jihad, o guerra per l’esistenza milchamà, guerra di difesa o guerra di attacco, la catena va spezzata. Non è la lotta del bene contro il male. È odio contro odio. Solo la pace è il bene, per tutti, e la guerra è il male assoluto. Benedetto quel bambino che risponderà all’odio con umanità, che non ucciderà, che ci permetterà di ricominciare la conta dei vivi» (Valpiana, 2023). 
Parent Circle

The Parent Circle- Families Forum

Le voci che si levano in difesa della pace e della convivenza dei popoli non possono essere ridotte al silenzio. Di particolare rilievo è ai nostri occhi l’appello scritto in forma di Lettera Aperta da un gruppo di intellettuali ebrei (vedi Appendice). Si tratta di più di mille scrittori, giornalisti, attori, artisti e attivisti tra cui Judith Butler, Keith Gessen, Nat Goldin, David Grossman, Naomi Klein, Adam Shatz. Il tono è perentorio fin dall’incipit, che riportiamo: 

«Siamo scrittori, artisti e attivisti ebrei che respingono l’idea diffusa che qualsiasi critica a Israele sia intrinsecamente antisemita. Israele e i suoi difensori usano da tempo questa tattica per sollevare il Paese dalle sue responsabilità, nobilitare l’investimento multimiliardario degli Stati Uniti nell’esercito israeliano, oscurare la micidiale realtà dell’occupazione e negare la sovranità palestinese. Ora questo insidioso bavaglio alla libertà di espressione è usato per giustificare i continui bombardamenti su Gaza e mettere a tacere le critiche della comunità internazionale». 

Le angherie quotidiane di cui soffrono nel West Bank come nella Striscia di Gaza da parte dei coloni e dell’esercito israeliano trapelano soltanto grazie alle testimonianze di cooperatori e delle organizzazioni non governative che operano con gravi rischi su un campo così travagliato (penso al CISS di Palermo, ad esempio, e agli accompagnatori dell’Operazione Colomba) (cfr. Sarura – Il futuro è un luogo sconosciuto). 

Conclusioni 

In un post di Domenico Gallo leggiamo: 

«Siamo entrati nella terza settimana di guerra e la tempesta di fuoco scagliata da Israele contro la Striscia di Gaza non accenna a diminuire, anzi si intensifica con l’ingresso di mezzi corazzati e truppe di terra. Non si riesce a comprendere quale disegno politico guidi la reazione di Israele al di là dello spirito di vendetta per i massacri subiti dalla sua popolazione il 7 ottobre. Certamente non aiuta a capirlo quanto affermato da Netanyahu nella sua prima conferenza stampa dall’inizio del conflitto. Il 29 ottobre Netanyahu ha dichiarato che si tratta di “una battaglia del bene contro il male”. La guerra sarà lunga ma si concluderà con la vittoria del bene. Gli obiettivi ufficialmente perseguiti sono due: “demolire Hamas e riportare indietro gli ostaggi”. Il secondo obiettivo è meramente di facciata perché non è coerente con il primo. In realtà se si pretende di demolire Hamas, vuol dire che si è deciso di abbandonare gli ostaggi al loro destino [14].
La parola genocidio è troppo pesante per essere utilizzata a cuor leggero, anche perché sovente è strumentalizzata dalla politica e quindi banalizzata. Tuttavia, se l’obiettivo perseguito è quello della guerra per distruggere Gaza, identificata come il male assoluto, la condotta di Israele, anche in senso tecnico-giuridico, rientra nel concetto di “genocidio” come definito dalla Convenzione Onu del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio [15].  Quello che qualifica come genocidio è l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, quali sono indubbiamente gli abitanti che popolano la striscia di Gaza.
Orbene è per tutti evidente che non si può invocare il diritto di difesa di Israele per giustificare attacchi così massicci ed estesi a un gruppo nazionale che possono sfociare in un genocidio. Non ha senso progettare ipotetiche Conferenze internazionali di pace per invocare un’ancora più ipotetica soluzione del conflitto fondato sul principio “due popoli, due Stati”, quando non si ha il coraggio di chiedere il cessate il fuoco perché bisogna lasciare libero Israele di continuare la sua punizione collettiva contro la popolazione di Gaza». 

Fermiamo il genocidio in atto. Nessun’altra espressione ci appare appropriata. Aderiamo all’Appello promosso da Emergency, dal Laboratorio ebraico antirazzista, da Mediterranea e da Assopace Palestina e firmato da tanti cittadini italiani e tante altre associazioni della società civile: 

«La fragile tregua ottenuta per Gaza è il frutto di una lunga mediazione internazionale, ma servono un cessate il fuoco permanente e una vera soluzione politica per una prospettiva concreta di pace e giustizia.
Il 7 ottobre Hamas ha ucciso e rapito civili inermi nelle loro case, per strada, a un festival sottraendoli alle loro famiglie. È stato un attacco che ha colpito prevalentemente civili ebrei israeliani, tra cui bambini, anziani, attivisti storici per la pace e contro l’occupazione ma anche lavoratori migranti, palestinesi con passaporto israeliano o residenti in Israele. Sono seguite settimane di bombardamenti indiscriminati da parte del governo israeliano contro la popolazione di Gaza, con scuole ed ospedali divenuti cimiteri. Più di un milione di palestinesi è stato costretto a lasciare le proprie case per dirigersi nel sud di Gaza, che non è più un luogo sicuro.
Non ci sono corridoi umanitari adeguati, acqua, cibo, energia. In Cisgiordania è cresciuta esponenzialmente la violenza da parte di coloni armati contro la popolazione civile palestinese […].
Rivendichiamo il diritto e il dovere di guardare la guerra sempre dal punto di vista delle vittime, perché sono loro l’unica certezza di ogni conflitto.
La protezione dei civili, senza distinzione di nazionalità, residenza o religione, e degli ospedali, deve essere il primo obiettivo di un’azione diplomatica della comunità internazionale e delle forze della società civile.
Chiediamo la fine definitiva del massacro a Gaza, l’avvio di corridoi umanitari adeguati e la liberazione di tutti gli ostaggi. In Israele oltre mille palestinesi sono trattenuti in detenzione amministrativa, tra cui centinaia di minori, di cui chiediamo il rilascio. È necessaria una soluzione politica a partire dalla fine del regime di apartheid e delle politiche di colonizzazione e di occupazione militare israeliane. Non potrà mai esserci sicurezza – per i palestinesi, per gli israeliani, per nessuno di noi, – senza eguaglianza, diritti e libertà»

Ho riportato integralmente l’Appello in Appendice perché ritengo che sia utile firmarlo e diffonderlo in ogni sede finché non cessi il fuoco e si affermi la necessità di una soluzione politica, equa e solidale.

Guernica, di Picasso (part.)

Guernica, di Picasso (part.)

Chiudo queste poche, sofferte, pagine con una nota personale. Il lettore avrà notato che man mano il discorso andava avanti ho preferito cedere sempre più ad altri la parola. Devo confessare che più vedevo affermarsi la logica della guerra senza esclusione di colpi e aumentare il massacro di civili, più la mia mente e il mio cuore vacillavano. Considerate questo testo niente più che una preghiera laica offerta alla lettura di pochi amici partecipi. Di fronte all’orrore che provo, le scarne parole che riesco a mettere insieme, sono veramente poca cosa. La mia piena solidarietà va al popolo palestinese e al suo dramma incommensurabile. Ma il mio cuore batte da una parte soltanto e sono tutte le vittime di questo conflitto e di ogni guerra. Pochi fotogrammi di questa immane tragedia mi rimbalzano ossessivamente nella testa: due bambini molto piccoli che fuggono i bombardamenti, un maschietto e una femminuccia, il maschietto ha una bandiera bianca in mano. Salviamo quei bambini, fermiamo questa guerra prima che si ottunda in noi ogni lume di ragione. Prima che si estingua ogni barlume di umanità. 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 
[*] La scrittura di questo testo è stata molto impegnativa per me. Ringrazio, oltre a Giovanna Soffientini, custode di emozioni e pensieri condivisi, gli amici Antonino Cusumano, Maria Rosaria Di Giacinto, Chiara Giubilaro, Annibale Raineri e Cecilia Francaviglia,, Ola Söderström e Riccardo Talamo per la lettura partecipe e i preziosi consigli. Il testo è stato chiuso il 15 dicembre 2023. 
Note
[1] La guerra ha una logica, non dimentichiamolo, un’economia fondata sulla produzione e il consumo di armi, una cultura ed esprime una politica ad esse conforme. Contrastarla vuol dire non soltanto interromperla, quando esplode, ma soprattutto fondare un’altra logica, un’altra economia, un’altra cultura, ecc. 
[2] Le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto del 1945 non hanno segnato la fine della seconda guerra mondiale – di fatto, essa era già finita – ma l’inizio di una nuova epoca, quella del terrore atomico, in cui due blocchi, entrambi dotati di armamenti nucleari, si fronteggiavano, senza mai dare luogo a conflitti aperti, alimentando piuttosto una miriade di conflitti locali o regionali. 
[3] Si tratta, per la verità, di un’illusione ottica e ciò è confermato dall’ampio ricorso ad esempio dell’uso della parola “ghetto” per descrivere tutti i fenomeni di emarginazione urbana e di segregazione territoriale, così diffusi nel mondo intero, o della parola “diaspora” per parlare dei tanti fenomeni di espulsione e di esodo forzato, che hanno interessato vaste aree di continenti come l’Asia e l’Africa.
[4] L’idea di nazione è, come sappiamo, un costrutto tipicamente europeo che si è diffuso dal Vecchio Continente a scala globale attraverso il veicolo del colonialismo, che ha finito poi per animare una serie di movimenti di indipendenza nazionale, come reazione generalizzata di rigetto degli oppressori europei, ma impregnata proprio degli ideali, che questi ultimi avevano contribuito a propagare. Il 1960 sarà l’anno in cui tale movimento di ribellione e d’indipendenza raggiungerà la sua acme, segnando di fatto la fine di un’epoca.
[5] Il caso più clamoroso è stato lo storico scambio tra Gilad Shalit, il giovane soldato israeliano sequestrato dal 2006 al 2011, e ben 1027 prigionieri palestinesi. In quell’occasione fu liberato tra gli altri Yahya Sinwar, uno degli attuali capi di Hamas. Ciò spiega ulteriormente perché la questione degli ostaggi costituisca un vero e proprio trauma nella storia israeliana (Bacque, Gurrey, 2023).
[6] Una trattazione a parte meriterebbero gli accordi di Oslo del 1993, siglati da due leader, che per questo atto sono stati insigniti del Premio Nobel per la Pace per il 1994: Yitzhac Rabin e Yasser Arafat. In questa sede, mi preme evidenziare che anche Rabin è stato assassinato come Sadat.
[7] Annibale Raineri a commento di questo testo, esprime un giudizio su Hamas e sull’attacco del 7 ottobre in piena assonanza con il mio pensiero in proposito: «Hamas è speculare al governo di Israele, il loro terrorismo, come quello dello stato ebraico serve anzitutto a garantire il potere interno, a bloccare qualsiasi trasformazione della coscienza delle persone, qualsiasi messa in discussione delle legittimità del loro “potere sovrano”. Un gruppo politico che diventa regime. A Gaza le donne non sono obbligate a portare il velo. Ma fino a quando se i gruppi fondamentalisti prendono, grazie alla guerra che loro stessi fomentano, come Israele, tutto lo spazio di pensiero. Non solo quindi dobbiamo criticare Hamas per la crudeltà del 7 ottobre, dobbiamo farlo per la logica che lo costituisce, la logica di guerra che mira a fondare un impossibile stato: Un solo apparato militare-burocratico centralizzato, un solo territorio, un solo popolo. Con lo sguardo delle vittime tutto questo perde di senso, resta solo la disposizione all’ascolto dell’altro, per provare a costruire un’altra convivenza».
[8] «Hamas è l’unico movimento che si richiama all’Ikhwan a usare la violenza. E non potrebbe essere altrimenti: Hamas deve affrontare un’occupazione. Tutti gli altri movimenti nazionali dei Fratelli musulmani hanno scelto da decenni la non-violenza”, così mi spiegava nel 2007 la specificità di Hamas – con una semplicità disarmante quanto precisa – uno dei leader più importanti dell’Ikhwan egiziano, il dottor Abdel Moneim Abul Futouh, poi protagonista della rivoluzione di Tahrir del 2011 e, come uno dei prigionieri politici più importanti, vittima della controrivoluzione di Abdel Fattah al Sisi. È proprio questa filiazione ineludibile, cioè il legame ideologico e programmatico di Hamas alla famiglia dei Fratelli musulmani, a rendere del tutto semplicistica la chiave interpretativa secondo la quale il movimento islamista palestinese è soltanto una organizzazione terroristica, null’altro. La lettura a tutto tondo della storia di Hamas, del Mujamma al Islami, dei Fratelli musulmani palestinesi dice, invece, anche altro. Ed è quanto emerge dalla letteratura scientifica che è ormai la più accreditata a livello globale» (Caridi, 2023: 359)
[9] In proposito, Alberto Stabile segnala un episodio di guerra occorso a Jenin, particolarmente ripugnante per l’impudenza dei militari in azione: «Alcuni soldati israeliani, in assetto di guerra, entrano in una moschea di Jenin e dal microfono collegato con gli altoparlanti esterni intonano canzoni e levano preghiere tipiche della festa dell’Hanukkah. che si concluderà il 15 dicembre. Hanukkah celebra la conquista di Gerusalemme e la consacrazione di un nuovo altare nel Tempio. Per cui sarebbe facile vedere nell’azione sconsiderata di quei militari un parallelismo, un richiamo con le drammatiche tensioni che attraversano il mondo ebraico e quello islamico in questi giorni. Il microfono aperto nel video messo in rete, a quanto pare, da un battaglione di riservisti, evidenzia il dileggio implicito nelle risatine di altri soldati sullo sfondo del sonoro e lo scopo intimidatorio del messaggio rivolto alla popolazione di Jenin, laddove afferma che «Israele non è disposta a tollerare oltre la presenza di terroristi in città. Con questo pretesto, la città martire per eccellenza dei Territori palestinesi sotto occupazione, sta subendo da tre giorni un attacco feroce che ha già prodotto 11 morti. Morti che si aggiungono ad altre decine di vittime (circa 289, oltre a 4000 arresti in tutta la West Banki, dal 7 ottobre) in quella che appare come la versione non dichiarata della guerra scatenata non soltanto contro Hamas nella Striscia di Gaza, ma anche contro i palestinesi della Cisgiordania in risposta al gravissimo attacco condotto da Hamas contro le comunità israeliane al confine con la Striscia di Gaza. Attacco al quale le formazioni militanti della West Bank sono rimaste del tutto estranee» (2023). 
[10] «[…] è un fatto che ben prima del 7 di Ottobre, a conferma della stretta nei confronti del movimento nazionale palestinese imposta dal nuovo governo di estrema destra guidato da Netanyahu, le forze di sicurezza avevano lanciato un’offensiva contro le formazioni armate della West Bank provocando 250 morti in meno di sei mesi ed effettuando centinaia di arresti. Operazioni spesso collegate alle aggressioni dei coloni nazionalisti e religiosi contro civili palestinesi, compiute per vendicarsi di attacchi subiti, o per spingere gli stessi civili palestinesi ad abbandonare i loro villaggi. Un fenomeno che ha assunto dimensioni talmente vaste e preoccupanti che persino la Casa Bianca, solitamente ben allineata e coperta alle posizioni israeliane, ha dovuto minacciare sanzioni contro i coloni, moltissimi dei quali godono anche della cittadinanza americana, e sono pertanto, da questo punto di vista, inattaccabili. Insomma, un’altra superflua esercitazione di indignazione puramente verbale da parte di Biden» (Stabile, 2023).
[11] Un’affermazione affinata in senso identitario ed escludente con la legge fondamentale del 2018, Israele, lo Stato-nazione del popolo ebraico, che insiste sul rafforzamento dell’«insediamento ebraico» e afferma che «l’esercizio del diritto all’autodeterminazione nazionale dello Stato d’Israele appartiene solamente al popolo ebraico». Una democrazia etnica e identitaria che si fonda sulla distinzione e l’espulsione dell’altro (il nemico) è una contraddizione in termini laddove la democrazia ha nei suoi geni l’uguaglianza e il pluralismo.
[12] Debole è il limite al potere della maggioranza (un contesto nel quale il potere giudiziario è un rilevante contrappeso, non a caso difeso da partecipate mobilitazioni contro la volontà riformatrice e accentratrice di Netanyahu); la logica dell’emergenza è utilizzata senza soluzione di continuità per legittimare la violazione dei limiti di uno stato democratico. Sono elementi che convergono emblematicamente nell’assenza di una costituzione (la cui ragione è la limitazione del potere): Israele non ha una costituzione ma solo alcune Leggi fondamentali (Basic Laws).
[13] Eran Nissan, attivista israeliano per la pace che vive a Jaffa, leader dell’organizzazione progressista Mehazkim, dice che la maggioranza dei suoi concittadini sono consapevoli che la soluzione non potrà essere militare ma politica: «Dopo il 7 ottobre, in Israele i partiti del controllo e dell’apartheid hanno fallito la loro narrazione, ora c’è la possibilità per il partito dell’uguaglianza, che è cresciuto enormemente con grandi manifestazioni maggioritarie, di offrire una via d’uscita, la coesistenza, per una terra che deve essere condivisa tra i due popoli».
[14] Il dichiarato intento di eradicare Hamas e di eliminare tutti i suoi miliziani è un obiettivo impossibile e assurdo. Impossibile perché non vi è un forte di Hamas da espugnare, non vi sono delle divisioni da affrontare e sconfiggere sul campo di battaglia. I miliziani di Hamas sono rifugiati in una selva che è la sfortunata popolazione della Striscia. Per eliminarli tutti bisognerebbe disboscare la selva. È quello che Israele sta facendo, distruggendo in modo massiccio le abitazioni, facendo fuggire la popolazione più a sud (dove peraltro continua a bombardare), togliendo il cibo, l’acqua, l’energia, anche agli ospedali, e spegnendo le comunicazioni. Non si può eradicare Hamas senza compiere un vero e proprio genocidio. È un obiettivo assurdo perché, dopo aver inflitto delle sofferenze così atroci, nulla può escludere che i giovani sopravvissuti alle bombe israeliane, alla fame, alla sete, alle malattie, alla morte dei loro genitori o dei loro coetanei, non sentano il bisogno di prendere le armi e di rimpiazzare i miliziani eliminati. Gli obiettivi politici perseguiti dal Governo di Israele sono imperscrutabili, ma il discorso di Netanyahu costituisce autorevole conferma di quanto dichiarato da Dror Eydar, ex ambasciatore di Israele a Roma dal 2019 al 2022: «L’obiettivo è distruggere Gaza, questo male assoluto».
[15] L’art. 2 della Convenzione recita: «Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale […]». 
Riferimenti bibliografici 
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Barthe, B., “Senza scampo”, Internazionale, 20 ottobre 2023: 22-3.
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Kaye, D., D., “Se il conflitto si allarga”, Internazionale, 27 ottobre 2023: 22-26.
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Mhawish, “Nella Striscia di Gaza sotto assedio”, Internazionale, 13 ottobre 2023: 29.
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Salerno, E., “L’alternativa palestinese non salirà mai sui carri armati di Netanyahu”, Il Manifesto, 31 ottobre 2023.
Salih, R., “Gaza e Israele; Ripensare l’umano tra guerra, violenza e trauma coloniale” in Global Project, 10 ottobre 2023.
Said, E., La questione palestinese, Saggiatore, Milano, 2011.
Sarura – Il futuro è un luogo sconosciuto in streaming gratuito presso la piattaforma Open DDB.
Sonnet, J.-P., La città dove ogni uomo è nato, Marietti, Bologna, 2023.
Stabile, A., “La morale della guerra” in Facebook, 14 dicembre 2023.
Stefanini, A., “Stiamo normalizzando un genocidio?”, Gli asini, 24 ottobre 2023.
Valpiana, M., “La sconfitta della non-violenza incompiuta”, Il Manifesto, 2 novembre 2023.
Viola, P., Il Novecento, Einaudi, Torino, 2000. 
Yiftachel, O., Ethnocracy. Land and Identity Politics in Israel/Palestine, University of Pannsylvania Press, Philadelphia, 2006.

APPENDICE 

Un gruppo di intellettuali ebrei ha scritto una lettera aperta per respingere l’idea che criticare Israele sia antisemita
Questa lettera è stata firmata da più di mille scrittori, giornalisti, registi, attori, artisti e intellettuali ebrei, tra cui Judith Butler, Keith Gessen, Nat Goldin, David Grossman, Naomi Klein, Adam Shatz. L’elenco completo è su nplusonemag.com
 Siamo scrittori, artisti e attivisti ebrei che respingono l’idea diffusa che qualsiasi critica a Israele sia intrinsecamente antisemita. Israele e i suoi difensori usano da tempo questa tattica per sollevare il paese dalle sue responsabilità, nobili- tare l’investimento multimiliardario degli Stati Uniti nell’esercito israeliano, oscurare la micidiale realtà dell’occupazione e negare la sovranità palestinese. Ora questo insidioso bavaglio alla libertà d’espressione è usato per giustificare i continui bombardamenti su Gaza e mettere a tacere le critiche della comunità internazionale.
Condanniamo i recenti attacchi contro i civili israeliani e palestinesi e questa straziante perdita di vite umane ci rattrista profondamente. Ma pur nel nostro dolore, ci fa orrore vedere che la lotta all’antisemitismo è usata come pretesto per crimini di guerra con un dichiarato intento genocida.
L’antisemitismo è un aspetto terribilmente doloroso del passato e del presente della nostra comunità. Le nostre famiglie sono scampate a guerre, vessazioni, pogrom e campi di concentramento. Abbiamo studiato la lunga storia di persecuzioni e violenza contro gli ebrei e non sottovalutiamo il vero antisemitismo che mette a repentaglio la loro stessa sicurezza in tutto il mondo. A ottobre cadeva il quinto anniversario del peggior attacco antisemita mai commesso negli Stati Uniti: l’uccisione di undici fedeli nella sinagoga L’Simcha, a Pittsburgh, compiuto da un uomo armato convinto che gli ebrei fossero responsabili dell’arrivo dei migranti centroamericani. Così facendo disumanizzava entrambi i gruppi. Rifiutiamo l’antisemitismo in tutte le sue forme, anche quando si maschera da critica al sionismo o alle politiche di Israele. Ma riconosciamo anche che, come scriveva il giornalista Peter Bei- nart nel 2019, “l’antisionismo non è intrinsecamente antisemita e affermarlo sfrutta la sofferenza ebraica per cancellare quella palestinese”.
Troviamo questa retorica contraria ai valori ebraici, che ci insegnano a ri- parare il mondo, a mettere in discussione l’autorità e a difendere gli op- pressi contro l’oppressore. È proprio in base alla dolorosa storia dell’antisemitismo e alle lezioni dei testi ebraici che difendiamo la dignità e la sovranità del popolo palestinese. Rifiutiamo la falsa scelta tra la sicurezza ebraica e la libertà palestinese; tra l’identità ebraica e la necessità dell’oppressione dei palestinesi. In realtà, crediamo che i diritti degli ebrei e dei palestinesi vadano di pari passo. La sicurezza di ognuno dei due popoli dipende da quella dell’altro. Non siamo certo i primi a dirlo, e ammiriamo coloro che portano avanti questa linea di pensiero nonostante tanta violenza.
Alla minima obiezione
Capiamo perché spesso le critiche a Israele o al sionismo si confondono con l’antisemitismo. Per anni decine di paesi hanno abbracciato le definizioni di antisemitismo dell’International holocaust remembrance alliance. La maggior parte degli undici esempi di antisemitismo fatti da questa organizzazione riguarda commenti sullo stato di Israele, alcuni dei quali sono così aperti a varie interpretazioni da limitare le possibilità di una critica accettabile. Anche l’Antidefamation league classica l’anbook del 2022 in cui citava il primo pilastro dell’islam. I leader europei hanno vietato le manifestazioni a favore della Palestina e l’esposizione della bandiera palestinese. A Londra un ospedale ha tolto i disegni fatti dai bambini di Gaza dopo che un gruppo filoisraeliano aveva dichiarato che facevano sentire i pazienti ebrei “vulnerabili, perseguitati e vittimizzati”. In qualche modo, anche i disegni dei bambini palestinesi erano accompagnati da un’allucinazione di violenza.
I politici statunitensi hanno accolto con favore l’opportunità di confondere ulteriormente la sicurezza degli ebrei con l’incondizionato e indiscusso ­ finanziamento militare a Israele, senza alcuna intenzione di favorire la pace. Il 13 ottobre il dipartimento di stato ha di uso una nota interna in cui esortava i funzionari a non usare espressioni come “de­escalation/cessate il fuoco”, “fine della violenza/dello spargimento di sangue” o “ripristino della calma”. Il 25 ottobre il presidente statunitense Joe Biden ha messo in dubbio il bilancio delle vittime palestinesi, definendolo il “prezzo” della guerra contro Israele. Questa logica assurda continuerà a favorire sia l’antisemitismo sia l’islamofobia. Il dipartimento per la sicurezza nazionale di Washington si sta preparando a un aumento dei crimini d’odio contro ebrei e musulmani, che sono già cominciati.
Potere e sfruttamento
Per ognuno di noi l’identità ebraica non è un’arma da impugnare nella lotta per il potere dello stato, ma una fonte di saggezza generazionale che dice: la giustizia, la giustizia sempre cercherai. Tzedek, tzedek, tirdof. Ci opponiamo allo sfruttamento del nostro dolore e alla riduzione al silenzio dei nostri alleati. Chiediamo il cessate il fuoco, una soluzione per il ritorno a casa in sicurezza degli ostaggi che sono a Gaza e dei prigionieri palestinesi in Israele, e la ne dell’occupazione israeliana. Chiediamo inoltre ai governi e alla società civile degli Stati Uniti e di tutto l’occidente di opporsi alla repressione delle manifestazioni di sostegno alla Palestina.
E ci rifiutiamo di permettere che queste richieste urgenti e imprescindibili siano ignorate in nostro nome. Quando diciamo mai più, lo diciamo sul serio.
Antisionismo come antisemitismo, nonostante i dubbi di molti dei suoi stessi esperti. Queste definizioni hanno favorito i rapporti del governo israeliano con le forze politiche antisemite di estrema destra, dall’Ungheria alla Polonia agli Stati Uniti, mettendo in peri­ colo gli ebrei della diaspora. Per contra­ starle, nel 2020 un gruppo di studiosi dell’antisemitismo ha pubblicato la Dichiarazione di Gerusalemme, o rendo linee guida più specifiche per distinguere l’antisemitismo dalle critiche e dai dibattiti su Israele e il sionismo.
Accusare di antisemitismo chiunque faccia anche la minima obiezione alla politica del governo israeliano ha permesso a lungo a Israele di sostenere un regime che organizzazioni per i diritti umani, studiosi, avvocati e associazioni palestinesi e israeliane considerano apartheid. Queste accuse continuano ad avere effetti politici spaventosi, come la repressione a Gaza e in Cisgiordania, dove il governo israeliano confonde l’esistenza del popolo palestinese con l’odio per gli ebrei in tutto il mondo. Nella propaganda rivolta ai propri cittadini e all’occidente, il governo israeliano a erma che le proteste dei palestinesi non hanno a che fare con il diritto alla terra, alla mobilità, con i diritti umani e la libertà, ma con l’antisemitismo. Nelle ultime settimane, i leader israeliani hanno continuato a strumentalizzare la traumatica storia degli ebrei per disumanizzare i palestinesi. In Israele le persone sono arrestate o sospese dal lavoro per aver pubblicato un post sui social media in difesa di Gaza e i giornalisti temono conseguenze se criticano il governo.
Se qualsiasi critica diventa una forma di antisemitismo, nell’immaginario popolare Israele si confonde con tutto il popolo ebraico. Nelle ultime due setti­ mane abbiamo visto sia i democratici sia i repubblicani statunitensi difendere l’identità ebraica per giusti care il sostegno a Israele. Una lettera piuttosto vaga firmata da decine di personalità e pubblicata il 23 ottobre ripeteva a pappagallo la dichiarazione del presidente Joe Biden in difesa del popolo ebraico. Quando il centro culturale 92NY ha rinviato un incontro con lo scrittore Viet Thanh Nguyen, che aveva recentemente firmato un appello in cui chiedeva la fine degli attacchi israeliani a Gaza, nel comunicato ha messo in primo piano il fatto di essere un’“istituzione ebraica”. Come anche altri hanno osservato, i tentativi di inserire in un contesto stori­ co gli attacchi del 7 ottobre sono giudicati come un ripudio della sofferenza ebraica piuttosto che un elemento necessario per capire e mettere fine alla violenza.
L’idea che tutte le critiche a Israele siano antisemite alimenta la percezione che palestinesi, arabi e musulmani in genere siano intrinsecamente sospetti e debbano essere considerati agenti dell’antisemitismo, a meno che non neghino apertamente di esserlo. Dal 7 ottobre i giornalisti palestinesi stanno subendo una repressione senza precedenti. Un palestinese con cittadinanza israeliana è stato licenziato dall’ospedale in cui lavorava per un post su Facebook.
[tratto da Internazionale 1538, 17 novembre 2023]
Per un cessate il fuoco permanente e una soluzione politica
ISRAELE/PALESTINA. L’appello di 4mila traintellettuali, giornalisti, artisti, diplomatici e associazioni italiane
 29/11/2023
La fragile tregua ottenuta per Gaza è il frutto di una lunga mediazione internazionale, ma servono un cessate il fuoco permanente e una vera soluzione politica per una prospettiva concreta di pace e giustizia.
Il 7 ottobre Hamas ha ucciso e rapito civili inermi nelle loro case, per strada, a un festival sottraendoli alle loro famiglie. È stato un attacco che ha colpito prevalentemente civili ebrei israeliani, tra cui bambini, anziani, attivisti storici per la pace e contro l’occupazione ma anche lavoratori migranti, palestinesi con passaporto israeliano o residenti in Israele. Sono seguite settimane di bombardamenti indiscriminati da parte del governo israeliano contro la popolazione di Gaza, con scuole ed ospedali divenuti cimiteri. Più di un milione di palestinesi è stato costretto a lasciare le proprie case per dirigersi nel sud di Gaza, che non è più un luogo sicuro.
Non ci sono corridoi umanitari adeguati, acqua, cibo, energia. In Cisgiordania è cresciuta esponenzialmente la violenza da parte di coloni armati contro la popolazione civile palestinese.
Davanti a questi orrori, l’opinione pubblica internazionale in Europa si è polarizzata, con il ritorno di gravissimi episodi di antisemitismo e islamofobia, riportandoci alla retorica dello scontro di civiltà che ha fatto danni enormi negli ultimi decenni.
La lotta contro l’antisemitismo non può essere né una mossa ipocrita per cancellare il retaggio del fascismo, né un’arma in più per reprimere il dissenso e alimentare xenofobia e pregiudizio antiarabo. Deve invece essere parte integrante della lotta contro ogni forma di razzismo. Questa logica binaria – da una parte o dall’altra – è la trappola a cui è necessario sottrarsi in questo momento. Non si può cancellare l’orrore del 7 ottobre, ma si può fermare la strage a Gaza. Un crimine di guerra non ne cancella un altro: alimenta solo l’ingiustizia che prepara il terreno ad altra violenza.
Rivendichiamo il diritto e il dovere di guardare la guerra sempre dal punto di vista delle vittime, perché sono loro l’unica certezza di ogni conflitto.
La protezione dei civili, senza distinzione di nazionalità, residenza o religione, e degli ospedali, deve essere il primo obiettivo di un’azione diplomatica della comunità internazionale e delle forze della società civile.
Chiediamo la fine definitiva del massacro a Gaza, l’avvio di corridoi umanitari adeguati e la liberazione di tutti gli ostaggi. In Israele oltre mille palestinesi sono trattenuti in detenzione amministrativa, tra cui centinaia di minori, di cui chiediamo il rilascio. È necessaria una soluzione politica a partire dalla fine del regime di apartheid e delle politiche di colonizzazione e di occupazione militare israeliane. Non potrà mai esserci sicurezza – per i palestinesi, per gli israeliani, per nessuno di noi, – senza eguaglianza, diritti e libertà.
* * * Promotori: Emergency, Laboratorio ebraico antirazzista – LeA, Mediterranea e Assopace Palestina;
Sottoscritto da tante altre associazioni, tra cui Amnesty International Italia, Arci, Libera, Gruppo Abele, AOI, Un Ponte per, Beati i costruttori di pace, Lunaria, Associazione SenzaConfine, Articolo 21… e per ora sono circa 4.000 quelli che hanno sottoscritto, tra questi 400 personalità del mondo accademico, del mondo dello spettacolo, giornalisti e diplomatici, tra cui:don Luigi Ciotti, Miguel Benasayag, Goffredo Fofi, Marco Damilano, Michele Serra, Pier Francesco Favino, Alessandro Bergonzoni, Carlo Ginzburg, Fiorella Mannoia, don Albino Bizzotto, Lisa Clark, Toni Servillo, Ferzan Ozpetek, Luca Zingaretti, Elio Germano, Ascanio Celestini, Greta Scarano, Fabrizio Gifuni, Sonia Bergamasco, Vittoria Puccini, Giorgio Diritti, Mario Martone, Alba Rohrwacher, Alice Rohrwacher, Saverio Costanzo, Caterina Guzzanti, Paola Cortellesi, Edoardo Winspeare, Enzo Traverso, Carlo Rovelli, Tommaso Di Francesco, Alessandro Gilioli, Francesca Fornario, Stefano Nazzi, Alberto Negri, Nico Piro, Andrea Capocci, Alessandro Calascibetta, Ali Rashid, Alessandro Robecchi, Giulia Blasi, Donald Sassoon, Loredana Lipperini, Annamaria Testa, Raffaele Alberto Ventura, Luciana Castellina, Nicola Lagioia, Sandro Veronesi, Christian Raimo, Maurizio Braucci, Teresa Ciabatti, Mario Ricciardi, Giorgia Serughetti, Marco Revelli, Alessandro Portelli e tantissimi altri….
*Per l’elenco completo dei firmatari, individuali e collettivi, e per sottoscrivere al seguente sito: https://cessateilfuoco.org/

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Vincenzo Guarrasi è professore emerito di Geografia presso il Dipartimento Culture e società dell’Università di Palermo. I suoi principali interessi sono stati: la condizione marginale; le migrazioni internazionali; le città cosmopolite. Ha pubblicato numerosi saggi e monografie su vari temi connessi alle dimensioni della geografia urbana e culturale.

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