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Tre scene e un addio

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Nel Rietino, Raccolta delle lenticchie, 1988 (ph. Salvatore Piermarini)

di Pietro Clemente

Prima scena: i musei e lo sviluppo locale

È da tempo che il dibattito sui musei ha perso rilievo e passione. Da anni cerchiamo di rispondere alla tendenziale emarginazione del museo come polo della vita civile con nuove riflessioni, missioni, compiti. Quest’anno c’è stato un dibattito internazionale per una nuova definizione del museo. Negli anni precedenti si è cercato di ridefinire il ruolo del museo (in una sua fisionomia 4.0) come luogo che conserva, ordina e rende fruibili le collezioni ma che soprattutto conquista nuove capacità di azione sul territorio, si fa agente di nuove comunità patrimoniali.

Ho avuto il desiderio di aprire qui, nelle pagine de Il centro in periferia un dibattito sui musei e le zone interne, il mondo dei piccoli paesi, e della montagna. Per farlo ho chiesto a Piercarlo Grimaldi e Davide Porporato di consentirmi di riprodurre qui un loro scritto (pubblicato nel 2012) dedicato ai musei alpini.  In questo testo si pone il nesso tra abbandono della montagna e nascita o resistenza dei musei, e si coglie una tendenza del museo a farsi carico della socialità del territorio, al di là del ruolo di strumento di comunicazione e di formazione.  Forse è un tema che può non piacere ai ‘museali’ – dei quali anche io mi sento parte – in quanto la missione di fatto di questi musei non coincide con quella di principio. Essi finiscono per avere una funzione più relazionale e sociale che non culturale e comunicativa. Ma a me interessa proprio il punto di connessione tra questi aspetti, perché è proprio quello dei dibattiti sul nuovo ruolo dei musei nel rapporto con i territori. Tra i piccoli paesi che frequento ho notato come possa capitare che il museo abbia un valore strumentale rispetto ad altri progetti. Un valore senza il quale forse il museo sarebbe solo un dispositivo ai margini, che riprende vita e speranza di utilità in nuove forme d’uso.

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Ellis Island, 1990 (ph. Salvatore Piermarini)

Siamo in tempi di crisi dei musei. E mentre ringrazio Grimaldi e Porporato di aver dato a Dialoghi Mediterranei il loro scritto, ringrazio anche Claudio Rosati e Mario Turci che aprono la riflessione sui temi al centro di esso. Rosati e Turci sono tra i principali esperti museografi (teorici e pratici) dell’ambito demo-etno-antropologico, e le loro scritture portano il discorso su temi anche più ampi rispetto a quelli che qui segnalo, ed è a mio avviso importante che, tramite le voci dei museografi, i musei del settore DEA, in gran parte nati dall’esodo dalle campagne e dalle montagne, tornino a volgere lo sguardo nella direzione delle ‘zone interne’ in una prospettiva di ‘ritorno’ e non più di storia dell’abbandono. Vorrei cercare di continuare a portare avanti questi temi ed ho chiesto e chiederò ad altri antropologi museali di intervenire. Mi piacerebbe che esperienze di museo e riflessioni sul museo diventassero stabili nel Il centro in periferia, e che il museo come risorsa dello sviluppo locale fosse al centro di riflessioni e di racconti di esperienza. In queste pagine l’articolo di Carlotta Colombatto su “Alpfoodways”, e la rete inter-europea alpina che lavora sul patrimonio culturale alimentare delle Alpi, mostra nuove prospettive anche per il museo. Proprio in spazi di ricerca come questi il museo può essere luogo sistematico del patrimonio immateriale, dei saperi locali come risorsa che può essere trasmessa, snodo dove la ricerca qui configurata si fa connessione con il luogo e con lo sviluppo. Nella mia esperienza di visitatore di musei mi viene da pensare alla Maison Bruil di Introd (Aosta) in cui il museo, il patrimonio culturale immateriale e la produzione agricola di qualità locale sono fortemente imbricati e con successo.

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Forca Canapine, 1978 (ph. Salvatore Piermarini)

Seconda scena: Nuto Revelli e gli anniversari

Chiudiamo un anno, il 2019 pieno di echi. Tra centenari e cinquantenari, nascite e morti. Interessante pensare l’intreccio tra eventi e vite. Tra i centenari di nascita a me piace connettere Nuto Revelli grande outsider degli studi sulla memoria della guerra, dei contadini e del paesaggio, con Maria Lai, artista sarda di cultura europea ma legata al paesaggio e al patrimonio culturale della Sardegna. Due persone che forse non si sono mai conosciute nemmeno di fama, ma dalle quali, entrambe, ho imparato cose importanti. La loro data di nascita il 1919 è anche un anno che sta tra la fine della grande guerra (Emilio Lussu era ancora sotto le armi) e i drammatici anni che portarono al fascismo. Il diciannovismo fu il nome che Pietro Nenni propose per questo nesso. E quante volte nelle interviste su storie di famiglia ho trovato le morti del ‘19 legate alla ‘spagnola’, l’influenza epidemica che colpì milioni di persone.  A metà strada delle vite così diverse di Nuto e di Maria si colloca il cinquantennio: il 1969 che fu l’anno della Luna, della strage di Piazza Fontana, dell’autunno caldo, e per me fu l’anno più lungo, forse il più importante della mia vita: fondai un gruppo politico operaista, mi laureai, ebbi la prima supplenza di insegnamento e soprattutto divenni padre. In quell’anno non avevo ancora imparato nulla né da Nuto né da Maria. Dal primo cominciai a imparare tra gli anni 70 e gli 80, dalla seconda alla fine dei 90. Si può imparare anche da grandi. L’antropologia per me coincide con quello che disse una volta un mezzadro senese, intervistato sul lavoro dei contadini: «Il contadino è un mestiere che non si smette mai di imparare». Così l’antropologia. Anche con la ricerca sui piccoli paesi, che faccio da outsider, continuo a imparare. Dalla vita, dai paesaggi, dai racconti, dalle persone, dalle azioni, dai problemi.

Ma Nuto Revelli è un nome speciale: per il mondo dei contadini, delle trasformazioni del territorio, della memoria. Di Maria Lai molto si è parlato e organizzato in ambito storico-artistico ed espositivo. Sarebbe bello che per Revelli ci fosse una attenzione ampia, anche dal mondo dei patrimoni culturali, per riflettere su quel che ci ha lasciato. Le note che qui pubblichiamo vengono dal centenario cuneese e piemontese di Revelli, legato alla iniziativa della Fondazione che porta il suo nome, ricco però di relazioni nazionali e internazionali. Una delle ‘antenne’ della Fondazione Revelli è il rifugio di montagna della borgata di Paraloup. Esso fu anche centro della brigata partigiana di Giustizia e libertà di cui Nuto fu protagonista, è stato ricostruito dalla Fondazione Revelli ed  è «un vivace centro culturale di scambio e di crescita, un sistema integrato di attività turistico-artigianali, agro-pastorali e di proposte culturali-formative, per coinvolgere la comunità locale e creare una rete di condivisione e partecipazione con le altre realtà del territorio» (https://www.italiachecambia.org/2018/10/io-faccio-cosi-paraloup-spirito-resistenza-rifugio-di-montagna/.).

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Bagheria, Electric storm, 1991 (ph. Salvatore Piermarini)

Paraloup è un punto di riferimento per la rete dei piccoli paesi e per la tematica dello sviluppo delle zone interne.  Io considero Nuto Revelli uno dei fondatori outsider di una “Antropologia dell’Italia”, insieme a Saverio Tutino per la scrittura popolare e Ettore Guatelli per la museografia, tutti e tre documentatori, inventori di fonti legate al mondo popolare, e interpreti del secondo Novecento. Nuto ha fatto ricerche e scritto libri che possono ancora darci prospettive, favorire bilanci e messe a punto. In tutto il suo lavoro non c’è mai indulgenza verso atteggiamenti nostalgici o consolatori. Sull’uso delle fonti orali, sulla trasformazione del territorio e delle persone con esso, sulla memoria della resistenza e della guerra Revelli ci aiuta ancora a capire, come i “classici”, quelli che sono sempre di moda. Ai suoi libri sulle scritture della guerra e sulle voci delle campagne e delle donne, travolte dalla modernizzazione e dall’urbanizzazione, a breve sarà possibile aggiungere anche le fonti originali consultabili nel sito, e da subito è possibile consultare tra il sito e You tube molto materiale visivo realizzato dalla Fondazione. La mia proposta è, d’accordo con la Fondazione Revelli, di dedicare il 2020 a ricordare Nuto Revelli a 101 anni dalla nascita. Non interessa tanto l’esattezza del compleanno, quanto il valore del costruire memoria utile al presente. In Toscana tra Università, istituti della Resistenza e associazioni della società civile, stiamo tentando di riflettere su Revelli come modo di riflettere su noi stessi oggi. Credo si possa fare anche altrove, forse dappertutto.

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Castelluccio di Norcia, monte Vettore, 1988 (ph. Salvatore Pieramarini)

Terza scena: i paesi

Mi ha fatto molto piacere sentir dire da Mattia Santori, trentenne portavoce del movimento bolognese delle ‘sardine’, che per lui è importante l’Appennino. Mi è parso che abbia fatto quel che propone Antonio De Rossi nella Introduzione al libro Riabitare l’Italia (Donzelli, 2018) di cui in queste pagine abbiamo spesso discusso. Ovvero ‘invertire lo sguardo’, guardare ai luoghi dai quali l’attuale esorbitante crescita delle metropoli prende l’avvio, alle zone fragili, ma anche alle zone che possono diventare il riferimento per una idea nuova e diversa di Italia. Una Italia basata sulla ‘coscienza di luogo’. Dove lo sviluppo sia finalizzato ai luoghi (e quindi alle persone) e non ai conti in banca o agli indici del Pil.

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San Nicola da Crissa, 1978 (ph. Salvatore Piermarini)

Curiosamente una cosa simile abbiamo detto Antonio De Rossi ed io a Tricase (Lecce), nella Sala del Trono di Palazzo Gallone, luogo di storia e di antichi fasti. Era il 15 dicembre. De Rossi ed io raccontavamo del libro Riabitare l’Italia e della sua storia, del suo progetto aperto. Con noi in dialogo antropologi, geografi, pedagogisti dell’Università di Lecce e i promotori, il gruppo di Liquilab, centro di ricerche e archivio della memoria del Sud del Salento. De Rossi ha citato il 1977 e l’uscita del libro Il mondo dei vinti di Nuto Revelli come una data che fa epoca, una data di prima consapevolezza dei processi della modernizzazione e dell’abbandono delle zone interne. Poi ha parlato delle esperienze dell’Appennino, delle attività del ‘riabitare’ e del ‘restare’ che lo caratterizza. Io a mia volta ho ricordato come il museo Guatelli sia nato dall’esodo dall’Appennino parmense e dalle campagne contadine, e come in quei luoghi ci siano oggi segni di resistenza, rilancio, risalita verso la montagna.

Si parla di paesi, a Tricase (che è un paese città), a Tiggiano – capitale del progetto della Strategia nazionale aree interne nel basso Salento –, e qualcosa si muove, così come a Ozzano Taro, o a Bedonia o a Barceto nell’Appennino parmense e altrove. Qualcosa succede.

Non è male che lo segnalino tre generazioni: Mattia Santori rappresenta quella degli anni 80, De Rossi quella dei 60 e io quella dei 40. Forse “riabitare l’Italia” sarà la missione di una nuova generazione di millennials?

Ma in queste pagine trovate anche il ritorno in scena di un paese simbolo di questi problemi: Riace in Calabria. Nicoletta Malgeri è tornata sul luogo, oggetto della sua tesi di laurea fiorentina in antropologia, e ci ragguaglia su come la grande restaurazione conservatrice, seguita alla denuncia del sindaco Lucano e alle elezioni, abbia oggi una risposta forte di organizzazione sociale e di nuova speranza per l’accoglienza e l’integrazione. Un resoconto da una importante frontiera.

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San Nicola da Crissa, 1982 (ph.Vito Teti)

Sui luoghi e su noi stessi si interroga e ci interroga Giuseppe Sorce, coinvolgendo la geografia come disciplina nel suo tentativo di fare il punto sui luoghi che abbiamo a cuore e che perdiamo, sui luoghi fantasmi del passato e sui luoghi progetti di futuro. Poggioreale abbandonata dopo il terremoto del Belice, Grisciano e Lacedonia che fanno i conti col sisma e lo spopolamento, ma anche le resistenze e i saperi dei luoghi nelle pagine di Territori spezzati (CISGE 2019) fanno da base per una fenomenologia soggettiva: «Luoghi e vuoti sono gli spettri presenti-assenti su cui le emozioni, le relazioni, i significati, si costruiscono. Luoghi vecchi e luoghi da inventare, vuoti da lasciarsi alle spalle e vuoti da colmare per immaginare il futuro…I luoghi così si perdono, si trovano, si reinventano». Scrive Sorce.

I luoghi sono anche nomi di luoghi; nella recensione di Carlotta Colombatto che racconta i lavori del convegno interregionale di Alpfoodways prevalgono i nomi delle aree che condividono la ricerca e i progetti alpini (Svizzera, Slovenia, Francia, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Piemonte….): «Sei nazioni coinvolte, quattordici partner e oltre quaranta osservatori al fine di valorizzare il patrimonio alimentare alpino in prospettiva di una candidatura UNESCO. La fine di un progetto di tre anni, che lascia un’eredità importante per il futuro, è stata celebrata con un’organizzazione imponente, all’interno dello scenografico Palazzo della Regione Lombardia». Qui i nomi delle località minuscole e protagoniste sono dietro le quinte, ma i progetti sono rivolti verso di essi.

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Sardegna, 1977 (ph. Piermarini)

Addio Salvatore

Salvatore Piermarini era entrato nella scena dei piccoli paesi a Roma, a un incontro nazionale, in compagnia di Vito Teti. Era vedovo da poco, e provato dalla fatica e dal dolore. Non avrei mai immaginato di dovergli dire addio così in fretta. Ci aveva dato per le pagine di Dialoghi Mediterranei una sorta di biografia professionale e umana. Era il numero 32 del Luglio 2018, lo aveva intitolato Il mio sguardo sugli uomini e sui luoghi dell’abbandono. A leggerlo oggi sembra quasi un bilancio come se fosse spinto a ‘ripassare la parte della vita’ (Raboni):

«Ho sempre guardato le figure, fin da piccolo. Un’attività intensificata nei primi anni di scuola, quando si moltiplicarono le possibilità di guardarle».
«Le fotografie erano la mia lettura preferita e mi piaceva il bianco e nero nonostante l’assenza di colore. Guardavo di tutto, dal fotoreportage sociale alle foto di cronaca, dallo sport illustrato alle pubblicità e alle prime immagini glamour».
«Il mio fotografo guida è stato Ugo Mulas, lui che viene sempre e solo ricordato come il fotografo degli artisti».
«La mia fotografia è stata una passione molto più che una professione, non sono mai stato un fotogiornalista, solo in rare e mirate occasioni ho risposto a incarichi e committenze. Una disciplina coltivata attraverso i codici visivi e ripercorrendo ogni volta il loro linguaggio, un percorso di formazione spontaneo e autodidatta che ha permesso di confrontarmi con la realtà, nel rapporto con l’uomo, il paesaggio, il mondo dei paesi e delle metropoli. Insomma sono stato un fotografo volontario, curioso, onnivoro, investigatore e dialogante»

Così Piermarini in Dialoghi Mediterranei (n. 32).

copertina-piermariniNon sono un esperto di fotografia, anche se ho collaborato con tanti fotografi. Non ho mai giudicato una foto. Semmai ho raccontato cosa ci vedevo, cosa significava per me.  Di Piermarini mi aveva colpito la sorprendente vicinanza tra la sua figura dolorosa e il dolore o la solitudine delle sue foto che conoscevo. È stata la sua umana densità a spingermi – appena saputo della morte – a chiedere ad Amazon Prime (lo confesso) il suo libro Il perduto incanto (Rubbettino 2019). Uscito a ottobre e quindi drammaticamente ultimo. Qui mi sono perso nell’immagine di Bruna che apre il libro, non si dice chi è Bruna, ma noi sappiamo che è la compagna che Salvatore ha perduto. Un libro pieno di indizi, di tracce, di umanità. E poi ho riflettuto sulle dediche a Koudelka, Mulas, Barthes che fanno un piccolo prezioso sistema di riferimenti. E poi sono stato colpito dall’avvio fortemente soggettivo del libro:

«Esco dal San Giovanni, l’ospedale, quando l’orario di visita è scaduto da un pezzo, è già luglio e il tramonto è ancora lungo, una luce del sole nitidissima che scopre tutti i difetti e i pregi di Roma».
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Supramonte di Orgosolo, 1978 (ph. Salvatore Piermarini)

Una immagine densa. Un luogo che ne annuncia un altro. Salvatore che va a trovare un amico malato, come poi altri amici andranno a trovare lui. Il libro ha avuto sul web recensioni assai ricche e dense, mi sono cercato un po’ di critica, di tracce delle sue mostre. Si era occupato di tanti temi, non solo di luoghi abbandonati. Ma a questi aveva dedicato delle immagini solidali e piene di sentimento.

La scrittura di Piermarini è sensibile come la carta fotografica, è dialogante e critica. Mi soffermo sul tema della vicinanza e della distanza. Sul rapporto di partecipazione tra fotografo e persone. Un tema che sento anche mio, sia per la mia ricerca, che per il mio dialogo con i fotografi e il loro modo di essere sul campo. In una riflessione dedicata a due amici fotografi di Siena – documentatori poetici di feste popolari del ciclo dell’anno – avevo parlato di ‘giusta distanza’ [1]. Un tema che connetto anche con antiche discussioni sull’uso del video nel raccogliere le storie di vita. Con il mio fastidio per la fotografia spettacolare e per quella rubata. Ed è al tema della distanza e del rispetto dell’altro che voglio dedicare un ultimo omaggio a Salvatore, uomo e fotografo che ho conosciuto poco, ma abbastanza da averne nostalgia. Lo trovo nei Minima Moralia di Adorno. Non so se Salvatore lo avrebbe condiviso, ma mi è venuto in mente questo passo proprio leggendo e pensando le sue parole:

«Lo sguardo lungo e contemplativo, a cui solo si dischiudono gli uomini e le cose, è sempre quello in cui l’impulso verso l’oggetto è spezzato, riflesso. La contemplazione senza violenza, da cui viene tutta la felicità della verità, impone all’osservatore di non incorporarsi l’oggetto: prossimità nella distanza».

Addio Salvatore.

Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
 Note
[1] Pietro Clemente, La giusta distanza, in Marco Bruttini & Marco Muzzi, La dolce Maremma. Immagini parlate. Tradizioni popolari, Effigi, Arcidosso, 2011
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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale, collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).

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