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Travolti dal campo. L’antropologia nello spazio pandemico

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San Vito al Tagliamento (ph. V. Dell’Orzo)

dialoghi intorno al virus

di Valeria Dell’Orzo

15 aprile

La rapidità con la quale abbiamo visto mutare la nostra quotidianità ha avuto un effetto stordente: gli spazi della nostra mobilità fisica si sono ristretti sensibilmente, le forme della socialità alla base dell’esistenza umana si sono alterate e riformulate per rispondere all’impossibilità di attuare le tante forme comunicative e espressive veicolate dal contatto, dalla vicinanza, dalla possibilità e dalla necessità di condividere uno stesso spazio. L’insieme duttile dei significati che sorreggono la struttura sociale dell’essere umano ha subìto un drastico cambio di paradigma; gli archetipi del vivere, sviluppatisi e fissatisi nella loro plasticità sono stati sradicati in maniera brusca e repentina dal dilagare di un virus temibile non solo per i suoi effetti, letali in particolari condizioni, ma ancor di più per l’inumana rapidità con la quale riesce a propagarsi. La velocità di contagio di cui è capace il corona virus ha imposto il mutare di consuetudini relazionali e personali, ha costretto tutti a dare una nuova immagine alla  propria vita quotidiana investendone ogni aspetto; ha soprattutto comportato che queste riformulazioni avvenissero col tempo di uno strappo repentino, di un taglio che nettamente ha separato il prima dal dopo, senza la possibilità di una continuità adattativa e di un fluire graduale verso nuove forme e nuove strutture della socialità.

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San Vito al Tagliamento (ph. V. Dell’Orzo)

Quella che a livello mondiale, secondo le fluttuazioni della percezione e della possibilità di intervento, è di certo una crisi, da intendere con Jared Diamond (2019) come quel momento, quella combinazione di eventi, che sancisce la differenza, personale o sociale, tra un prima e un dopo, la curva apicale di una fase di cambiamento e di un’irreversibile svolta del vivere, costituisce una sfida a tutto campo che coinvolge, o trascina, anche il mondo dell’antropologia, spiazzata non solo dall’imposizione di un’indagine relegata entro le mura domestiche – prassi in effetti già applicata in specifiche ricerche che possono giovarsi dell’uso del mondo informatico – dallo stravolgersi destabilizzato e destabilizzante dell’assetto sociale del quale si è parte e entro il quale si agisce su più livelli; la comunità scientifica è stata colpita, come tutti, anche nell’intimità del privato, del sistema di rappresentazione del mondo e di sé, della grammatica delle relazioni. Per quanto sia già diventata un’ovvietà nel discorso pubblico, resta fondamentale, nell’approcciarsi a una riflessione sul virus che ha investito tutti, tenere salda l’immagine di quello che è il tratto principale dell’essere umano, che ne ha determinato la sopravvivenza e lo sviluppo: la socialità.

In pochi giorni, di Paese in Paese, siamo stati costretti a pensare e osservare distopie che fino a quel momento avevano trovato spazio solo in alcuni spaccati dell’immaginario nella letteratura e nella cinematografia: la distorsione delle abitudini strutturate, il distanziamento forzato, le strade delle più grandi città semideserte, reiterate tra le immagini dei media come un’esortazione o un monito, gli ospedali di fortuna montati in fretta per sopperire alla carenza di posti, le centinaia di bare allineate e sole, in attesa di sepoltura. Tutto questo ha materializzato alcune delle più ataviche paure dell’essere umano: essere vulnerabili, essere soli, essere impediti nei gesti comuni, assenti al rito della morte, inermi di fronte a una minaccia invisibile. Tutto ciò è diventato parte concreta di una quotidiana angoscia, di un’ansia collettiva, di fronte alla quale non sappiamo ancora come reagire perché è mancato il tempo di strutturare nuove architetture di senso e di partecipazione, nuovi segni adeguati a significati atavici che si sono resi irriconoscibili, inintelligibili troppo rapidamente.

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San Vito al Tagliamento (ph. V. Dell’Orzo)

Trovarsi privati della propria libertà di spostarsi, camminare, seguire le rassicuranti abitudini giornaliere risulta opprimente, ma spaventa molto meno dell’idea di non potere assistere le persone care, di non potere partecipare al lutto e condividerne la coralità del dolore e del distacco, di essere assenti ai riti di separazione dai propri defunti, trovandosi a vivere quel lutto mutilato, attentamente descritto dall’antropologa Villa (2020), e ancora non potere condividere gli spazi, le feste, la tavola, con i parenti e le persone più vicine, tutto questo ha esasperato gli animi, portando, quando possibile, all’estremizzazione delle prassi di compensazione.

La produzione di cibo domestico, per esempio, si è plasmata nell’esibizione virtuale delle proprie conquiste, si è tornati al pane come risposta alla crisi, al grano come speranza di rinascita, in una corsa alla panificazione ormai da anni abbandonata e riscoperta con acceso fervore (e esaltata appropriazione di ingenti quantità di lievito!).

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San Vito al Tagliamento (ph. V. Dell’Orzo)

Anche investire gli altri di una forte carica morale, sia questa il biasimo verso i trasgressori delle regole che di giorno in giorno sono state introdotte alterando la linearità precedente, oppure un’esaltazione di virtù rivolta ad alcune attività professionali, sono prassi che servono a esorcizzare la crisi di destrutturazione degli equilibri, la paura di una minaccia che ci ha trovati impreparati. Il bisogno di confermare la propria presenza si è tradotto in un intensificarsi di contatti virtuali, spesso ripescati indistintamente anche dai tanti rapporti ormai persi nel tempo dell’oblio, secondando una crescente fame di presenza, avviando compensatorie videochiamate di gruppo per inscenare come in un set teatrale un sabato sera tra amici o un pranzo domenicale in famiglia.

I primi giorni del dilagare in Italia, ma non solo, del virus, hanno visto l’attuarsi di un apotropaico rito collettivo che, scandito secondo i tempi e le modalità dei più recenti flashmob, ha di fatto riproposto il tradizionale modello del frastuono regolamentato volto a allontanare il male, ha organizzato una sequenza di atti sonori, dagli applausi al canto corale, fino agli stornelli improvvisati, per riempire il silenzio inumano che le città si sono trovate improvvisamente a ascoltare. Il rumore condiviso ha tentato di esorcizzare il male, creando la percezione di essere meno soli, compartecipi a distanza di uno stesso dramma della rappresentazione e della socialità e, dunque, dello stesso rito esorcizzante. L’abitudine contemporanea all’immediatezza, impostaci dai ritmi della globalizzazione di cui siamo figli e produttori al tempo stesso, ha però fatto sì, probabilmente, che in mancanza di immediati risultati anche la pazienza verso la riproposizione di un rituale si sia rarefatta e venuta meno e così, ben presto, i raduni sonori si sono ammutoliti.

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San Vito al Tagliamento (ph. V. Dell’Orzo)

La corsa al virtuale, al quale pensavamo di essere ormai tutti avvezzi e che spesso è stato ritenuto un valido spazio di socialità alternativa, una volta piombati nel suo uso quasi esclusivo come veicolo comunicativo ha mostrato – è innegabile – il suo potenziale per attutire la crisi in corso, per smussare le asperità dell’isolamento, ma anche tutta la sua fallace esiguità rispetto alla primigenia comunicazione diretta di cui l’essere umano ha bisogno per riconoscersi nel suo interlocutore. Per rendersene conto basta pensare alla differenza tra una visita ai propri cari e un saluto attraverso la cam, capace in quel caso di estremizzare il senso di impotenza e di distacco cui si è soggetti, oppure alla tanto discussa didattica a distanza, un’opera impegnativa per gli insegnanti, trascinati nel vortice di videochiamate di gruppo coi propri allievi, affastellate di difficoltà di connessione, giga esauriti, microfoni spenti o gracchianti, di bluff e escamotage simpatici ma pur sempre limitanti, nel tentativo di surrogare, senza la fisicità della presenza, quell’insieme di gesti, incoraggiamenti, richiami, solleciti, esortazioni, intese che conducono all’apprendimento e alla crescita non solo culturale ma anche sociale degli allievi. Didattica che non può prescindere dall’educazione alla condivisione dello spazio e alla comprensione, e al mantenimento, delle regole del vivere comunitario. Nello spazio umano della comunicazione a distanza, filtrata da impersonali e standardizzate tecnologie, «l’illusione della comunicazione non consiste invece nel farci credere che i soggetti individuali esistono, intangibili, al di fuori dell’atto di comunicazione che li mette in rapporto fra loro? Che essi scambiano informazioni per arricchire le loro conoscenze senza trasformarsi? Che perseverano nel loro essere facendo a meno del faccia a faccia e del corpo a corpo?», seguendo le domande poste da Marc Augé (2004: 62) in una sua riflessione sull’immobilità dello spostarsi virtuale, fatto di navigazioni sul web e sul senso del comunicare. Il trauma collettivo e transculturale del sistema del vivere sociale investe la necessità della nostra specie di comunicare e tessere relazioni di scambio (Harari, 2017), creare rappresentazioni condivise e mettere in atto momenti di contatto: le limitazioni imposte dal dilagare di un virus hanno mostrato quanto insufficiente sia per il genere umano la comunicazione virtuale, esaltata e esasperata dalle esigenze della globalizzazione, ma poco o per nulla soddisfacente se applicata come unico possibile veicolo.

Investito come tutti da un nuovo assetto esistenziale, anche gli antropologi hanno visto mutare prospettive, distanze, regole e orizzonti. Il campo potrebbe sembrare lo stesso, lo è geograficamente, linguisticamente e per una moltitudine di tratti culturali che continuano a connotare la realtà, eppure è oggettivamente mutato lo sguardo degli antropologi, immersi come tutti in un sistema socio-relazionale e spazio-rappresentativo che non può che alterarsi sotto la pressione della distanza interpersonale, della necessaria cautela, del più innaturale isolamento, del tentativo indispensabile di ricreare tutti quegli spazi di contatto e confronto che le necessità sanitarie hanno assottigliato.

«Il mestiere di antropologo […] ha come oggetto l’attualità; l’antropologo parla di quel che ha sotto gli occhi: città e campagne, colonizzatori e colonizzati, ricchi e poveri, indigeni e immigrati, uomini e donne; e parla, ancor più, di tutto ciò che li unisce o li contrappone, di tutto ciò che li collega e degli effetti indotti da questi modi di relazione. Tutto questo costituisce, in linea di principio, l’’oggetto di studio dell’antropologo, così come, sempre in linea di principio, se ha gli occhi bene aperti egli può essere indotto a confrontare situazioni che, nonostante evidenti differenze, gli sembrano paragonabili perché hanno un’aria di famiglia imputabile alla storia, agli attori che esse mettono in scena o alle istituzioni che mettono in gioco. L’attuale globalizzazione, pur presentando la caratteristica originale di aver quasi chiuso il cerchio e di riguardare effettivamente tutti gli abitanti del pianeta, non dovrebbe sorprendere l’antropologo: egli ha trascorso gran parte della sua vita a osservarne l’avanzata; le deve la sua stessa esistenza» (Augé; 2004, 12).
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San Vito al Tagliamento (ph. V. Dell’Orzo)

Eppure trovarsi investiti da un fenomeno che globalmente ha stravolto lo spazio e il tempo della vita non può che disorientare anche il mondo dell’antropologia, che si trova a sondare un campo riformulatosi in poche ore, un suolo sociale e culturale attraversato da un terremoto epidemiologico che lo ha costretto a prendere, o meglio a cercare, una nuova e ancora instabile forma, alterato nelle sue più assodate pratiche giornaliere e interpersonali e trascinato tra i flutti delle percezioni mediaticamente agitate.

L’assedio costante di informazioni allarmanti che attraversano insistentemente i nostri monitor ha infatti contribuito, come sottolinea Marco Aime (2020), al riaffiorare di ataviche paure che sembravano sopite nella memoria e che invece sono riemerse come un congenito istinto alla più cieca e goffa tutela verso un’oscura minaccia, all’acuirsi di attuali idiosincrasie etniche, infondate quanto facili da alimentare, alla presunzione rassicurante di padroneggiare conoscenze e competenze improvvisate, che risponde al bisogno di affermare il proprio sé quando questo viene percepito insidiato e vulnerato.

Muoversi su questo mare senza orizzonti e senza rotte, agitato da frammenti di culture in bilico che in maniera improvvisa hanno preso vita nello spazio globale della pandemia in atto, impone agli antropologi di riorganizzare lo sguardo, di indagare, anche partendo da se stessi, le dinamiche sociali di questo nuovo mondo che ci ha condotti senza il tempo del viaggio entro un campo inedito, frastagliato e impervio.

Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
 
Riferimenti bibliografici
Marco Aime, Coronavirus, la paura del contagio rivela quanto siamo vittime dell’informazione, “Così il virus invisibile ci cambierà”, intervista a Mashable Italia, 13-2-2020.
Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
Jared Diamond, Crisi. Come rinascono le nazioni, Einaudi, Torino, 2019.
Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dei: Breve storia dell’umanità, Bompiani, Milano, 2017.
Marta Villa, La morte ai tempi del coronavirus”, in “Il dolomiti”, 27-3-2020.

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Valeria Dell’Orzo, antropologa culturale, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee, con particolare attenzione al fenomeno delle migrazioni e delle diaspore e alla ricognizione delle dinamiche urbane. Impegnata nello studio dei fatti sociali e culturali e interessata alla difesa dei diritti umani delle popolazioni più vessate, conduce su questi temi ricerche e contributi per riviste anche straniere.

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