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Toti Scialoja e la pittura come misura e ragione del tempo

Cipolle e carciofi, 1940, olio su tela ( courtesy Fondazione Toti Scialoia, Roma)

Cipolle e carciofi, 1940, olio su tela (courtesy Fondazione Toti Scialoia, Roma)

di Giuseppe Appella [*] 

La mia pittura tende non ad una immagine ma ad una visione (Toti Scialoja) 

Chi ha avuto modo di frequentarlo, chi ha avuto la fortuna di visitare, nel 1991, l’antologica alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e, nel 1999, la bellissima mostra di Verona incentrata sulle opere tra il 1955 e il 1963, sa che l’intera vita di Toti Scialoja fu di difficoltà e di rinunce, di ripensamenti e di mortificazioni, di fatti dolorosi, di oscuri sensi tragici, di solitudine, nonostante le belle amicizie dei poeti e il conforto dei suoi allievi diventati più famosi di lui proprio per quell’ossessione sull’arte a loro trasmessa. Poi, dieci anni prima della sua scomparsa, le risposte del mercato, alcune mostre importanti, l’interesse degli editori per le sue poesie, per il suo diario, e le prime monografie.

Era rinato a nuova vita. La pittura, da sempre considerata il doppio dell’esistenza, non specchiamento dell’esistenza ma un’“altra esistenza”, con quella tensione e quell’intensità che l’esistenza reale non ti concede, gli aveva rivelato un confronto con l’assoluto necessario di grande energia psichica e intellettuale, di enorme forza fisica, e Scialoja non si era risparmiato.

Sono stati, gli ultimi dieci anni, non più fatti di miti, di proiezioni, di mondi immaginari, ricchi di un lavoro senza confronti, costruito tutto sulla febbre sottile dell’eccitazione e dell’inquietudine, sulla felicità di vedere quanto la società dell’arte riuscisse a capire, a non fraintendere e a non ignorare.

Il cambiamento improvviso, soprattutto perché la pittura e la poesia occupavano finalmente il ruolo giusto, con quell’importanza morale che avevano sempre avuto per lui senza perdere la tensione a dover risolvere la vita ma prive della disperazione di un tempo, non aveva spento la “resistenza spirituale”, da giovane contro il fascismo, ieri contro i maldestri restauri degli affreschi di Michelangelo o le inutili megamostre.

La pittura, che aveva sostituito la musica a cui sua madre voleva indirizzarlo, era nata come un modo più diretto di espressione: la testimonianza delle proprie scoperte (Mario Mafai, Scipione, Giorgio Morandi, James Ensor, Pierre-Auguste Renoir, Georges Seurat, Pierre Bonnard, Henri Matisse) nel processo verso l’universale. Scialoja la sentiva più affine alla sua natura aggressiva, sensuale, irrazionale, portata all’ilare abbandono, che contraddistingue i diversi periodi segnati da un espressionismo che tra Scipione e Oskar Kokoschka sceglie Chaïm Soutine e Vincent Van Gogh, dalla fondamentale e quasi didattica esperienza del cubismo, Paul Cézanne in testa, con la sua bidimensione incanalata nella ricomposizione del corpo umano in senso geometrico picassiano (che, in seguito, porterà alla scelta di Piet Mondrian) e, soprattutto, dell’elemento tempo che poi scandirà il percorso delle “impronte”, da qualche momento surrealista tutto autobiografia onirica sollecitata da illimitata fede nell’inconscio e, infine, nel 1954, dalla grande svolta interiore: la conquista del significato dello spazio, lo “spazio patria”, e delle immagini impulsive che, contemporanee alla sua coscienza, con ritmo e fantasia occupano questo spazio.

Marchè aux puces, 1959, olio su tela ( courtesy Fondazione Toti Scialoia, Roma)

Marchè aux puces, 1959, olio su tela (courtesy Fondazione Toti Scialoia, Roma)

La folgorazione è Arshile Gorky, al Museo d’Arte Moderna di New York, con quella immediatezza comunicativa ed emozionale derivata da Picasso, Lassaw e Juan Miró, quell’essenzialità che, oggi, solo il linguaggio dell’astrattismo riesce a raggiungere in modo diretto, come «affermazione immediata di una emozione». Il motto di Gorky, scrive Scialoja, potrebbe essere Vide cor meum. Dove vedere, e dipingere, significa abbandonare ogni remora, ogni limite (la pittura come racconto, come illustrazione, come favola antica), dandosi completamente al quadro divenuto primario all’esistere.

Non ha, al contrario, nessuna curiosità per Robert Ryman o Ellsworth Kelly. Ama la pittura, non la neopittura che si trascina dietro idee neoclassiche. La pittura serve a vivere, non a contemplare o contemplarsi, è un gioco semplice e sottile che impegna anche a livello umano (basta scorrere il suo curriculum di docente nelle accademie) e di continuo sente la necessità di innovarsi. Nel 1943, davanti al Nudino col grammofono, vibrante della tenerezza struggente di una luce unificatrice di colori («La luce come il bollore dell’anima»), di un rinnovato incontro con la tradizione, Mafai, quasi avesse letto le sue parole («il tono è lo splendore mentale del colore, una luce scoperta dentro e attraverso il colore; e non sopra, o contro, o oltre il colore»), lo abbraccerà con un «finalmente sei arrivato al tono». Era una promozione sul campo ma, sotto sotto, come era nel carattere di Mafai, la diceva lunga sugli spessori di materia utilizzati da Scialoja, sulla già viva provocazione di una essenza spaziale, sulla convulsione-ritorsione di certe pennellate, su quella che Scialoja, abbandonate le terre, indicava come «la mia pittura luminosa» (Pollo spennato del 1947 e L’Opéra del 1948, che non hanno ormai nulla del contemplativo caro alla pittura del tempo, Sovrapposto del 1956, Il sette di settembre del 1957, Butte del 1984, Mon amour del 1991: tappe del furore trasferito dalla vita all’arte), sulle sotterranee memorie di Picasso 1905-06 rilette attraverso Braque, su quella pittura senza tempo, portata alla meditazione e ai progetti appuntati sulla carta per una costante circolarità della riflessione, su quel colore in fermentazione che nel dipinto, come ha avvertito Luciano Anceschi, ha lo stesso ordine di intelligenza delle parole nella poesia.

Infatti, nel 1954, per Asfalto notturno, scrive: «Questo, come gli altri quadri di quest’anno, costituisce una sorta di rinascita. Dopo una ricerca ibrida e tormentata che non riusciva a rinunciare all’oggetto, né a crederci, decisi di riscoprire in me stesso, con le mie sole forze, la tradizione contemporanea attraverso la rigorosa grammatica ritmica del cubismo analitico». E quanto segreta ed essenziale fosse questa grammatica, questo meccanismo che declinava Paul Klee con Marcel Duchamp (Il primo gennaio del 1955, Mazzetto di campo del 1954), quanto recondite le risorse liriche della luce messe in campo, lo mostrano, nel 1955, i quadri dipinti con uno straccio intriso di colore e di una carica psichica straordinaria, una grande novità nella Roma di quegli anni e di grande scalpore.

Scialoja muove dalle avanguardie per abbandonare il gusto e le secche del racconto, predisposto, più degli altri, nel 1956, all’incontro con la molteplicità della Scuola di New York, con gli espressionisti astratti americani, con Jackson Pollock e Sam Francis (Interruzione del 1956), con Mark Tobey (Il segno rosso del 1957), con opere ricche di varianti, sfrangiature e prolungamenti, in una eterna crescita oltre i limiti del telaio, oltre l’immagine creata dalla pennellata e da questa, torcendo il polso, frantumata e ricomposta camminando sulle sue schegge colorate, in una continua provocazione dell’uomo che aspira a essere integralmente nei suoi quadri e in questi vuole rintracciare le soluzioni dei problemi esistenziali, ritrovare l’ordine disperso nel caos della vita. L’action painting, dunque, coincide con la ricerca che sta compiendo dall’interno della pittura e di sé, la conoscenza dell’una corrisponde alla presa d’atto dei suoi mezzi, dei suoi sogni, della sua sensualità ed emotività, delle sue aspirazioni, di quella che chiama «una seconda natura».

Senza titolo, 1956, olio su tela  ( courtesy Fondazione Toti Scialoia, Roma)

Senza titolo, 1956, olio su tela (courtesy Fondazione Toti Scialoia, Roma)

Mark Rothko e Franz Kline, Willem de Kooning, Robert Motherwell e Philip Guston sono, per Scialoja che cerca di mediare tra gestualità (Con l’occhio della formica del 1956, Irritazione del 1957) e inconscio (Il sonno di un’ora del 1955, Dentro il nero del 1957), tra pudore (Rosso secondo del 1972) e scandalo (Secondo San Isidro del 1983), autentici pittori europei, con i germi, i modi e i motivi formali che furono di Vasilij Kandinskij, Klee, Miró, Mondrian, André Masson e Max Ernst. I modi di artigianato consapevole, di forza espressiva, proprî della pittura americana, sono pronti a confrontarsi con la realtà e a gettarsi nel mare. «Il mare è l’ispirazione», scrive Pollock, in quel periodo, tra il 1945 e il 1950, che è l’età d’oro di Gorky, di Rothko, di Barnett Newman, di Kline, dello stesso Pollock, e delle loro forme definitive.

A Procida, con la tela per terra, Scialoja è nel mare, al centro di una esperienza innovatrice che impegna anche la componente fisica, tutta mediterranea, dell’automatismo puro. Prima si sente più vicino al quadro, più coinvolto, ne fa maggiormente parte, gli gira tutt’intorno, lavora da ogni lato, in contrappunto, per strati successivi, come elementi di un rito, immedesimato nelle tre dimensioni senza perdere la natura piatta del suolo, pronto a «una ridda di libere pennellate, uno sfrenamento di gesti pittorici», poi è in qualche luogo del quadro e altrove, sa che il quadro lo contiene e lo respinge, perde il senso di cosa sta facendo, carica d’ansia le mareggiate di colore, le pennellate monumentali e sintetiche che lo avvolgono, celebra la propria assenza, il lasso di tempo in cui soggetto e oggetto non si affrontano più (Venus del 1978, Sagres del 1984, Ispido del 1993), hanno abbandonato ogni reciproca protezione. Qui e là riappaiono ombre di figure portate, presenze sommesse alle quali è impossibile non dare corpo, fosse solo una illusione ottica o la necessità di un disvelamento, di un riflesso di quell’io nascosto o oscuro che Toti sente come una fatalità, come un evento di superficie legato ancora una volta al pulsare del tempo, come una esigenza di linguaggio in cui instaurarsi per superare il suo limite di entità organica.

Ogni esigenza richiede disciplina e nuove tecniche che il Giornale della pittura conserva minuziosamente, sottolineando il fatto di non essere più obbligato a cercare un soggetto al di fuori di se stesso. Spazio e tempo per esprimere un mondo interiore, l’energia, il movimento, la dolcezza, altre forze in azione e un solo spirito unificatore che fonde supporti, materiali e metodo di lavoro per metterci di fronte alle sorprendenti risorse di una concezione visiva che nasce dalla fede nell’unità dei fenomeni che ci circondano e esprime risonanze e capacità, pulsioni apparentemente contraddittorie, un gusto di attraversamento del passato unito a una tenace affermazione della vita.

Anche niente, 1961, tecnica mista su tavola  (courtesy Fondazione Toti Scialoia, Roma)

Anche niente, 1961, tecnica mista su tavola (courtesy Fondazione Toti Scialoia, Roma)

Vuoto e pieno, azione e inerzia, gesti e ritmi propri della danza, si trasformano e si fondono nell’energia che li anima e che è il loro denominatore comune nella poetica inventiva «affidata alle sorprese rivelatrici dei giochi a cui le parole [i colori] si prestano stupefacenti, in cui la parola [il colore] può divertirsi nello stesso momento in cui si richiama all’enigma che porta con sé nella sua bifida potenza sempre da riscoprire» (L. Anceschi). Prive di allusioni immediate come di ogni supposta sperimentazione, associando forza e sensibilità, sarebbe meglio dire “pathos”, forme e immagini si dissolvono, si riformano, si scatenano automaticamente in un brulichio di nuovi organismi, di sillabe che tendono a una nuova parola.

Ogni opera è uno stato dell’essere, l’esplosione di un ritmo fisico, il segno di una passione e di una ossessione, di una fuga e di un lento e incerto procedere, il varco di una confessione precipitata, resi con impalpabile lirismo e quel ritmo tormentato che gli farà scoprire quanto l’eliminazione della figura umana, nei primi anni Cinquanta, fosse già un’immagine o un concatenamento dinamico dell’immagine, un centro coagulante e attivo, l’insieme di un’unità cosmogonica in costante espansione, una realtà vivente e autonoma, partecipe del cosmo, un continuum che supera le dimensioni fisiche dell’opera per cercare l’unicità del gesto nella unicità della visione.

L’autoanalisi inizia con Il sette di settembre, del 1957, che dà il via alla serie costruita con lo “stampaggio”, spalmando colore su cento carte di giornale che ingombrano lo studio, «finché un giorno, forse un colpo di vento, rovesciò un foglio sulla tela» che stampa battendo forte con le mani. Lo spazio, in letargo e chiuso in se stesso, è stato svegliato, pronto a farsi luogo ideale e mitico evitando di pervenire a un archetipo primordiale. Da questo momento, la geometria dei ritmi suggeriti dal gesto per raggiungere l’essenzialità, non conosce soste e costituisce, negli anni a venire, la “diversità” di Scialoja, quel non essere, come dirà Robert Motherwell, un artista manierista, «mentre quasi tutti gli altri artisti europei influenzati dall’espressionismo astratto lo sono stati».

La diversità è anche nella tensione interiore che sostiene la crescita del quadro, nel gesto unico che si ripete, che allinea e non compone ma provoca risonanze e molteplicità espressive, nell’impegno-cerimoniale psicofisico affrontato nella preparazione e nella messa a fuoco dell’opera, nel rapporto evidente che c’è tra il pittore e il critico. Perché se c’è un pittore, nella storia dell’arte italiana di questi ultimi cinquant’anni, che si affida a una rete di pensieri, un pittore sulla scia della tradizione rinascimentale, quindi pensatore, moralista, poeta, questi è Scialoja.

Anzi, tra gli artisti della sua generazione, Scialoja è l’unico ad aver fatto della deduzione critica un mezzo di creatività. Basta leggere alcune lettere del suo vasto carteggio, le pagine che negli anni Quaranta scrive per «Mercurio» e per «L’Immagine», i brani del Giornale della pittura, la relazione all’incontro internazionale di Parigi dedicato a La Découverte du Présent – Hommage à Baudelaire critique d’art, le numerose interviste rilasciate nel corso degli anni, i minuziosi appunti cromatici davanti ai quadri di Henri Matisse durante la retrospettiva parigina al Petit Palais nel 1971 (alcuni esempi: «Porte-fenêtre a C. – Grande nero ceroso. Tre quantità formate da un bigio consunto, da un verde di cobalto molto sbiaccato e da un azzurro di cobalto impolverato dal bigio. Segni neri nell’azzurro; Nymphe dans la forête – Bianco slavato, verde chiaro freddissimo, giallo luce e lilla floreale. Blu d’oltremare e nero»), i commenti sotto le riproduzioni a colori nel volume che accompagna la mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna o averlo sentito parlare di spazio, di colore, di luce, di ritmo, di realtà, di formule segrete sepolte nelle pieghe della pittura, per avvertire chiaramente quanto il concetto fatto parola abbia nutrito l’opera, si sia posto come struttura e metodo del dipinto, proprio sull’esempio di Leonardo: “La pittura è cosa mentale”.

Museo, 1973, vinavil e pastello su tela  ( ourtesy Fondazione Toti Scialoia, Roma)

Museo, 1973, vinavil e pastello su tela ( ourtesy Fondazione Toti Scialoia, Roma)

I suoi pensieri, come i suoi quadri, sono agganciati gli uni agli altri, simili a corpi comunicanti in cui conoscenza e felicità sono connesse, anche quel tanto di turbamento emotivo che la parola non può sciogliere ma che nonostante tutto continua a fissarsi sulla carta con sorprendente freschezza, avida e straordinariamente acuta nell’interrogazione del mondo e di se stessi, nella continua allusione a un mondo perduto ma recuperabile, e sempre per far penetrare nei nostri sensi tutto ciò che non ha cessato di nominare, alla ricerca di “quel” tipo di approccio, e non di altro, alla sua opera. Ecco, allora, l’inizio del suo diario, nel marzo del 1954: «Dipingere è diventato per me quello che doveva essere per i pittori antichi: semplicemente un modo di “imitare per amore”. Imito la mia natura, cioè la mia cultura (quello che amo), e insieme la mia sensazione di esistere (trasformo la sensazione in certezza).» Ovvero: da una messa in opera artigianale, per virtù di una carica magica, afferro un passaggio di elettricità, un lampo, che illumini il mio ignoto cammino. Un percorso forse accidentato, ma lucido nell’individuazione dei significati che portano alla necessità del gesto unico, al bisogno, come diceva Rothko, di essere semplici. Evitando, quindi, il significato simbolico delle coeve lacerazioni di Burri, delle ferite e degli squarci che non potevano assumere il carattere puramente astratto dell’emblema mentale trasmesso, non a caso, dallo stesso titolo attribuito al quadro da stati d’animo del momento, da numerazioni di quantità cromatiche, da piccole descrizioni, da letture di poeti.

Secondo San Isidoro, 1983, vinavil su tela  (courtesy Fondazione Toti Scialoia, Roma)

Secondo San Isidoro, 1983, vinavil su tela (courtesy Fondazione Toti Scialoia, Roma)

Manca, in sostanza, un riferimento che sia strutturale al quadro, all’ossessione sul procedimento, anche nelle opere del periodo 1970-79, che ricalibrano gli spazi metafisici del primo Quattrocento italiano insistendo, mediante l’esperienza precedente, sui ritmi, sulle successioni temporali, sui rapporti di quantità, maggiori e minori, di una serie di rettangoli di una falsa geometria tracciata con grandi campiture nel rettangolo più vasto della tela, e che Leonardo Sinisgalli denominava l’ultima «conversione» di Scialoja all’aritmetica, ai rapporti primari, alle quiete progressioni, ai quozienti senza i resti, alle sillabazioni degli astrattisti milanesi e comacini del 1930.

La carica d’energia, dilapidata con la smemoratezza delle impronte, viene rinnovata dal gioco sapiente, sempre fondato sull’automatismo provocato di una composizione costruita su una Battaglia di Paolo Uccello, sulla riduzione a quantità, a stesure piatte, di tutti i suoi elementi. I cavalli, le aste, hanno una loro cifra geometrica, espressa con la frontalità e l’emblematicità del colore che, in più occasioni, conserva il gusto di una apparente casualità (Pelle d’asino del 1971, Undici e quattro grigio del 1972, Bianco e rosso del 1974, Nero con blu del 1975, Gabriella del 1979). Come i pizzi e le corde, la polvere di marmo e la sabbia, la pomice e il vinavil, gli elementi di materismo utilizzati nei collages dove la superficie è resa libera proprio dallo sfruttamento del medium sollecitato da Burri. La casualità di un poema composto con i materiali estranei alla pittura, certo non quelli della pop o del dadaismo, con i titoli di giornale ammucchiati sul tavolo da lavoro, con i tasselli ordinati da regole precise, mescolando i sensi con la ragione, l’elemento ludico con la razionalità? L’accidentalità delle scenografie realizzate con objets trouveés, garze, scarpe militari, sedie, corde, tele di sacco e casse da imballaggio, pannelli su cui erano riportati collages di forme geometriche ritagliate su grandi fogli di carta colorata (Ballata senza musica, del 1950, andato in scena alla Fenice di Venezia con le coreografie di Aurel Milloss), carrozzerie di auto usate, trovate dagli sfasciacarrozze e avvolte da lunghe strisce di tarlatana (Povera Juliet, di Alfredo Giuliani, andato in scena nel 1964 al Modernes Theater auf Keinen Buhnen di Berlino)?

È che Scialoja, attento alla specificità e al rigore della scrittura poetica, senza mai confondere lo spazio dell’esistenza con lo spazio della forma significante, fermissimamente portato a scavare nel “profondo”, ad avvertire quella sottile inquietudine che si sprigiona «dall’atrocità dell’essere vivi», proprio con la pittura e con la poesia lancia il suo guanto di sfida alla vita e questa vita affronta esplorando l’animo umano, rendendolo evidente «con quella forza di assoluto che in realtà non ha». Una tale drammatica scelta, operata negli anni Cinquanta, fu uno strappo violentissimo contro un ambiente che immediatamente si rimpicciolì ai suoi occhi. Il grande spirito contemporaneo, la lezione universale dell’arte erano sfuggiti proprio a coloro che parlavano di libertà e avevano dimenticato la passione, l’antica legge che impone, sulla superficie del quadro, solo la traccia del tempo. Un tempo, per Scialoja, sentito come ripetizione kirkegaardiana, sostenuto da un pensiero fenomenologico, da Edmund Husserl a Arthur Schopenhauer, da Friedrich Nietzsche a Maurice Merleau-Ponty, quest’ultimo seguito ogni settimana alla Sorbona, durante il periodo trascorso a Parigi, dopo l’esperienza americana e mentre la pop art si prepara a invadere il mondo, con un senso quasi mistico dell’interiorità e una fede cieca nell’astrazione. Afferma: «Io sono profondamente convinto che oggi 1’anima dell’uomo non possa essere che astratta, perché non può più essere religiosa, non può più credere a nulla, e quindi deve credere a se stessa, e 1’anima che crede a se stessa è un’anima astratta. In tal modo un’anima astratta non può che produrre una pittura astratta».

Iside, 1990, vinavil su tela  ( courtesy Fondazione Toti Scialoia, Roma)

Iside, 1990, vinavil su tela (courtesy Fondazione Toti Scialoia, Roma)

Per M. P. del 1961, dedicato proprio a Merleau-Ponty, è un quadro di tre impronte uguali e sempre diverse nella loro architettura, dipinte da sinistra verso destra, che fissano il passaggio del tempo attraverso la ripetizione e la pressione. La ripetizione è la riaffermazione di se stesso nel tempo, il suo non disperdersi, la pressione è il battito del tempo, la musicalità propria del fare pittorico in una spazialità ottenuta attraverso il colore. Scrive: «Il tempo ti può trasformare, può creare come un oblio continuo di te stesso, invece la ripetizione è la forza morale di affermare i tuoi principi, la tua identità». È un modo per rispondere a quel ritorno all’ordine che fu la pop art, in pieno predominio dei mass-media, la perdita di ogni filo che potesse riallacciarla alla tradizione visuale e come fosse insito nell’opera l’istinto celebrativo e la stanchezza che ne consegue. Bisognava riattingere alle sorgenti più profonde della pittura, tornare alla severità della ricerca, insistere sul segno, sulla percezione, puntare su intense variazioni materiche, sui grandi murali dove la “scansione”, già utilizzata in scenografia e, nel 1989, in quindici sculture (Trino, Priccio, Nibbio, Vernio, Cuero, Aboisso, Rauco, Ira-Aria…), è per la prima volta accentuata dalla divisione in pannelli, dall’impronta avvolta su se stessa o accartocciata che è il punto di partenza di una ipotesi inconfrontabile quale è, in effetti, l’idea della superficie, l’infinità e l’invisibile di questo territorio mentale considerato una “dimensione perenne” (Falso Nord del 1958, e Roselle, il bronzo del 1989), la corruzione di questa superficie (Instabile e Bilancia del 1958, Nemo n. 2 del 1991), la sua definitiva decifrazione.

Non è di Cézanne l’idea della pittura come scrittura che metta in rapporto con i molteplici momenti del visibile? Alcuni di questi momenti, o campi di valori sperimentati nelle diverse indefinibili tappe del rappresentare, non sono le parafrasi delle tre Battaglie di Paolo Uccello esposte a New York nel 1973? Il tempo, distinto dallo spazio in cui si specchia, è stato sempre scandito dalla pittura come «il tempo della coscienza, un flusso che determina gli eventi e li modifica», un modo di vita, uno scoppio di vitalità e di invenzione, di asperità e di vibrazioni, di slanci irreversibili; ha inseguito le pulsazioni del cuore senza consumarsi (New York nero del 1960), al milionesimo colpo sempre un po’ diverso, senza mai esaurire la sua carica, anche oggi che il distacco tra il suo essere e l’opera si è compiuto e A tradimento del 1995, come l’Ignoto del 1991, posto a conclusione della mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna con un interrogativo: Sono libero? e da che? ora gli sono di fronte, tra la sua esistenza, le angosce spaventose, i disordini interni e il sogno, tenacemente inseguito, di un’esistenza “altra” attraverso l’arte.

Dialoghi Mediterranei, n.60, marzo 2023
[*] Si pubblica il testo in fase di stampa del Catalogo generale dei dipinti e delle sculture 1940-1998, per gentile concessione della Silvana Editoriale.

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Giuseppe Appella, lucano d’origine, storico dell’arte, si è formato a Roma dove ha insegnato e collaborato a quotidiani e periodici, da «La Fiera Letteraria» e «La Nuova Antologia» degli anni Sessanta, a «L’Osservatore Romano», «La Repubblica» e “Alias-Il Manifesto” di questi ultimi decenni. Ha diretto Gallerie d’Arte e Musei e ora si occupa del Polo Museale del suo paese di nascita, Castronuovo Sant’Andrea (PZ), a dimostrazione che non esiste più una periferia delle aree interne italiane. Dal 2006 al 2014 ha diretto il MUSMA, il Museo della scultura contemporanea di Matera da lui creato attraverso il sistema delle donazioni. Dal 2006 al 2009 è stato direttore del “Museo Fazzini” di Assisi. Dal 1979 segue le Edizioni della Cometa fondate da Libero de Libero. Ha pubblicato con vari editori molti dei volumi dedicati all’arte italiana e straniera tra le due guerre, curandone spesso mostre in istituzioni internazionali, senza trascurare l’architettura, il disegno, l’incisione, il libro d’arte, i multipli, la fotografia, i presepi, i poeti più vicini all’arte. Dal 1990 si occupa di Cataloghi Generali, gli ultimi dei quali dedicati rispettivamente alla pittura e alla scultura di Achille Perilli (Silvana Editoriale) e all’opera grafica di Guido Strazza (Allemandi). È Accademico di San Luca.

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