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Teatro e ritualità del quotidiano: dalla proposta di matrimonio all’uccisione del maiale

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Per gli 80 anni di Pietro Clemente

di Mariano Fresta 

Il folklore e il teatro secondo Frazer e Toschi 

Fino ad oltre la metà del secolo scorso chi in Italia si occupava di folklore e di teatro popolare tradizionale si imbatteva immancabilmente nelle teorie ottocentesche di James Frazer e nel volume Le origini del teatro italiano di Paolo Toschi, che di quelle idee positivistiche era convinto assertore e divulgatore. Non c’era usanza e credenza che non trovasse nell’enciclopedico Il ramo d’oro di Frazer una qualche parentela con la ritualità presente nella cultura classica o in quella di popolazioni allora chiamate “primitive”. Per Toschi, poi, in tutte le forme conosciute di teatro (sia quello popolare/folklorico sia quello cosiddetto “borghese” o culto) e nei loro elementi costitutivi si potevano individuare residui di antiche ritualità agrarie legate ai fenomeni cosmici o alla fertilità della Terra. Queste teorie, affascinanti da un punto di vista narrativo, si basavano, tuttavia, su congetture non tutte verificate o verificabili se non in alcuni loro aspetti; ma esse, per la loro capacità di dare semplici spiegazioni a fenomeni complessi e a prima vista misteriosi, trovavano una gratificante accoglienza specialmente tra i ricercatori dilettanti di folklore e nella stampa di divulgazione [1].

Questa diffusione del frazerismo si può spiegare col fatto che la curiosità, che è in tutti noi, di sapere qual è l’origine delle cose, come sono nate e come si sono trasformate fino ad arrivare al nostro tempo, era pienamente soddisfatta dall’interpretazione che di molti fenomeni sociali e culturali dava quel tipo di evoluzionismo positivistico. Queste teorie influenzavano particolarmente gli studi sul teatro popolare perché in quest’ultimo si addensavano frammenti ritualistici che avevano a che fare con il culto degli alberi, con le celebrazioni solstiziali, con l’agonismo (corse di cavalli, tiri con l’arco, gare podistiche) presente in certe feste antiche e in tutti i drammi che si basavano sul contrasto, per esempio, tra Bene e Male, tra giovani e vecchi, e così via.

Se, però, ci soffermiamo a considerare cos’è il teatro, come si realizza, che funzione ha in una qualsiasi comunità umana, possiamo vedere che, a prescindere dalle credenze in divinità cosmiche o ctonie e senza scomodare cerimonie solstiziali e fasi lunari, esso contiene in sé un qualcosa che possiamo definire “ritualità”. Il teatro dell’antica Grecia di ciò ci dà testimonianza, perché, in quel Paese le questioni di grande importanza per la convivenza civile e sociale (cos’è e come si esercita il potere politico, cosa sono la morale e la legge, ecc.) erano discusse pubblicamente per mezzo delle rappresentazioni teatrali in determinati periodi dell’anno ritenuti sacri.

Il tema da dibattere veniva trasformato in un’azione drammaturgica durante la quale i suoi vari aspetti erano affidati a “personaggi simbolici”: tra questi, quindi, si svolgeva il dramma, alla fine del quale tutto si ricomponeva e gli spettatori, ‘purificatisi’, per quello che avevano visto e sentito, e avendo rinsaldata la consapevolezza che precise leggi regolano la vita di una comunità, potevano tornare alle loro occupazioni quotidiane e agli usuali rapporti sociali. Nonostante ci separino culturalmente circa venticinque secoli dagli antichi Greci e non riteniamo più che gli spettacoli abbiano una qualche sacralità, il nostro teatro contemporaneo continua a funzionare esattamente allo stesso modo di quello di Sofocle e di Euripide. Constatiamo, infatti, che nei drammi di Pirandello e Beckett il dibattito su temi cruciali dell’esistenza si svolge tra personaggi che sono simbolo di qualcosa, che esso ha luogo in sedi deputate come i moderni edifici teatrali in città, esattamente come nell’antichità classica le questioni erano discusse nei teatri all’aperto, con le gradinate di pietra, gli stessi che ancor oggi ammiriamo ad Epidauro o a Siracusa o in qualsiasi cittadina di origine greco-romana di qualche importanza. La stessa cosa avviene nel campo del folklore, con la differenza che gli spettacoli campagnoli hanno luogo nelle radure dei boschi, nelle piazze, nelle cucine contadine e nelle stalle.

Nonostante le tesi di Toschi, quindi, è difficile pensare che tutte le rappresentazioni teatrali si possano far risalire al culto degli alberi, alle feste del solstizio d’inverno e alla natura che periodicamente muore e rinasce. Non si vuol con ciò negare che queste credenze abbiano avuto una loro influenza sulla cultura di tutti i popoli della Terra, ma siccome tutto scorre e si trasforma, è logico ipotizzare che, soprattutto da qualche secolo a questa parte, le fonti ispiratrici della ritualità siano stati altri elementi ed aspetti dell’esistenza umana. Ritualismo e simbolismo tra l’altro, sono due componenti connaturati, rispettivamente, alla cultura e al linguaggio, dei quali ci serviamo quotidianamente senza magari esserne coscienti. Mangiare è un fatto naturale e necessario, ma apparecchiare la tavola per il pasto principale della giornata, trovarsi con tutta la famiglia riunita attorno al desco, con precise norme per l’assegnazione dei posti dei partecipanti e la disposizione dei piatti e delle posate, è certamente un’azione che ha un suo ritualismo, che una lunga consuetudine ha reso impercettibile. Nel caso in cui però il pranzo preveda la presenza di ospiti o si svolga durante un’occasione festiva, questa carica di ritualità diventa ancora più forte ed evidente.

Quando ancora imperavano le teorie di Frazer e Toschi tutte le manifestazioni di teatro popolare (dal Bruscello alla Vecchia, dalle Bosinate al Maggio) sono state interpretate alla luce del rito; ma erano già evidenti alcuni aspetti che rimandavano invece alle condizioni di vita di coloro che di quelle tradizioni erano portatori. Specialmente nel teatro comico erano chiari i riferimenti alla vita di tutti i giorni, ma anche in quello drammatico gli aspetti che sembravano rifarsi a concetti metafisici, come il Bene e il Male, potevano facilmente essere ricondotti alle esperienze di vita delle comunità contadine e alle loro aspirazioni ad un reale riscatto sociale e culturale. 

s-l500I riti della quotidianità 

Ci sono dunque nella vita quotidiana momenti in cui i nostri comportamenti, pur senza volerlo, si trasformano in operazioni rituali e queste, a volte, danno vita ad azioni teatrali. Questo tipo di ritualità è molto diffusa ovunque e in tutte le classi sociali, ma si manifesta con maggiore evidenza nelle campagne e nelle città di origine contadina, in cui più tenace è la cultura tradizionale, specie quando siamo in prossimità di eventi cosmici, come i solstizi, oppure nei periodi in cui si affrontano vicende importanti per la vita rurale, come la semina oppure l’uccisione del maiale.

Molte attività agricole, infatti, si svolgono senza badare se in esse ricorrano elementi di ritualità, mentre l’uccisione del maiale assume le caratteristiche proprie di un rito tanto da influenzare perfino la comunicazione commerciale, come ci testimonia la documentazione fornitaci da una breve ricerca su Internet: infatti, in quasi tutte le pagine web in cui si parla dell’evento, l’espressione «uccisione del maiale» è preceduta dalla parola “rito”. Ci sono in realtà motivi precisi perché l’evento sia così definito: innanzitutto esso avviene sempre in un determinato periodo dell’anno, quello più freddo, che va da Natale alla fine di febbraio; è (o meglio, era) poi un evento atteso dalle famiglie rurali da molti mesi perché era fondamentale per l’acquisizione di importanti alimenti ricchi di proteine e di grassi. Fino a quasi metà del Novecento, l’alimentazione giornaliera dei contadini, infatti, si basava essenzialmente sul pane e su verdure crude e cotte, molto raramente comparivano nei loro piatti uova e carne di qualsiasi animale; così il maiale era quasi l’unica fonte di carne e di grassi che le tecniche di conservazione permettevano di avere a disposizione fino all’estate, quando si svolgevano i lavori più pesanti di tutta l’annata agraria. Tutto ciò faceva sì che nella giornata in cui si uccideva l’animale si creasse un’atmosfera di ritualità che aveva il suo apice in una festa collettiva in cui erano consumate quelle carni che non potevano essere conservate. In Piemonte e in molte altre regioni questo evento aveva il nome, appunto, di Festino [2].

Non è qui il caso di dilungarsi sul perché il maiale costituisse un elemento molto importante non solo dell’alimentazione ma anche dell’economia della famiglia contadina: basta dire che si allevava con poca spesa, perché si lasciava pascolare nei boschi, dove trovava ghiande e castagne e radici varie, e nei campi a maggese, mangiava gli scarti dell’alimentazione umana (frutta e verdura andata a male, avanzi dei pasti, ecc.). Esso, dunque, ha la prerogativa di essere onnivoro, di aumentare considerevolmente il suo peso in meno di un anno e di trasformare ciò che mangia in proteine e grassi; le sue carni, poi, possono essere conservate per diversi mesi grazie a procedimenti molto economici (salatura, aromatizzazione con pepe, e stagionatura in luoghi asciutti e arieggiati), ed infine è tutto utilizzabile, anche nelle parti non edibili, perché «del maiale non si butta niente». Per una famiglia contadina che viveva in una situazione alimentare di precarietà tutto ciò era di estrema importanza [3]. 

Marcianise, lavorazione della canapa

Marcianise, lavorazione della canapa

Il quotidiano nel teatro contadino di Marcianise 

Se, dunque, riusciamo a capire i motivi per cui nell’uccisione del maiale sono presenti elementi ritualistici e magico-religiosi, più difficile è immaginare che anche certe regole e certi comportamenti della convivenza sociale diventino in alcuni casi materiali da trasformare in un canovaccio che, a sua volta diventa azione teatrale. Oggi non è più così, ma alcuni secoli fa la scelta della sposa e il fidanzamento si realizzavano per mezzo di scene teatrali, o meglio di “giochi rituali”: alcune filastrocche, che collochiamo tra i giochi infantili, come O quante belle figlie madama Dorè, oppure Oh che bel castello …, non sono altro che testimonianze, in versioni degradate, di richieste di matrimoni formalizzate, con cui in epoca medievale si “chiedeva la mano della ragazza” ai suoi genitori. Di tutte queste tradizioni oggi non abbiamo che frammenti sparsi qua e là e difficilmente ricostruibili, ma ogni tanto qualcuno di essi riemerge dall’oblio inducendoci a credere che la ritualità ha intriso e continua a intridere tutti i nostri comportamenti, anche quelli che riteniamo ingenui e naturali [4].

Nel 2017 Tommaso Zarrillo (nato nel 1945 a Marcianise, prov. di Caserta), già dirigente scolastico, proveniente da una famiglia di medi proprietari terrieri coltivatrice di canapa, pubblicava un volumetto di memorie in cui rievocava tutto il processo di lavorazione di quelle piante, dalla semina fino alle operazioni di maciullatura e di “spatolatura” che le trasformavano in fibra tessile. Per una legge del 1975, che inopportunamente non distingueva le piante da cui si ricavano droghe da quelle innocue, la coltivazione della canapa è stata proibita, costringendo proprietari, braccianti e artigiani dell’indotto a cambiare colture e lavoro. Meritoriamente Zarrillo dedica molte pagine non solo agli aspetti economici e sociali di quell’attività, ma ricostruisce di quel contesto il clima culturale, il linguaggio tecnico, i modi di dire e riproduce alcuni documenti tipici dell’espressività, come canti e rappresentazioni teatrali. Di quest’ultimi riporta due testi che sono stati via via formalizzati per essere recitati. Si tratta di due testimonianze ricostruite sulla base della memoria, molto utili per vedere come vicende della vita quotidiana possono trasformarsi in azioni sceniche in cui confluiscono elementi di ritualità, auspici di un’alimentazione ricca e soddisfacente e perentori messaggi pedagogici relativi all’etica del lavoro: nella prima si parla di una proposta di matrimonio, nella seconda, molto più articolata, dell’uccisione del maiale in una casa di medi proprietari terrieri.

Di questi due testi si faranno qui di seguito la lettura e il commento. 

Dialogo di una mamma con il giovane innamorato della di lei figlia

Il testo è quello di una recita avvenuta in casa Zarrillo, dopo un pranzo tra datori di lavoro e lavoranti a conclusione di una delle faccende più pesanti relative alla coltivazione della canapa; in altre regioni questo pasto prende nome di “ben finita”, nel casertano è conosciuto come “‘a spaintata” (“la spaventata”), così chiamata per l’abbondanza e il numero delle pietanze che provocano, in chi è abituato a pasti poveri e scarsi, quasi un sentimento di paura e sgomento, come si trattasse di evento sovrannaturale.

Scrive Zarrillo (2017:107):

«Questo testo, prodotto al momento dell’estirpamento della canapa, quando gruppi di contadini si contrastavano sugli argomenti classici delle società agricole, acquisì col tempo una struttura teatrale e lo si adattò a eventi occasionali imitativi. Il testo era in parte recitato e in parte cantato. Erano cantate le parti relative all’elenco delle proprie capacità e alla rappresentatività sociale». 
Marcianise, lavorazione della canapa

Marcianise, lavorazione della canapa

Esso non è drammaticamente complesso, perché ha solo tre personaggi (due Madri e un Giovane pretendente) di cui uno si limita a recitare la quartina iniziale composta da versi di misura diversa, dopodiché lascia agli altri due il compito di svolgere tutto il tema. Quindi si tratta solo di un dialogo, piuttosto serrato. L’argomento riguarda, per dirla brevemente, l’importanza vitale delle competenze lavorative dell’uomo e della donna in una società in cui il lavoro è l’unico mezzo per guadagnarsi il pane quotidiano. Il punto di partenza è dato dalle battute della prima madre: «Signor padrone, pagatemi perché devo procurare la dote a mia figlia per maritarla». La seconda madre interviene dicendo che sua figlia è così bella che non ha bisogno della dote; il giovane, che ha sentito, si propone allora come futuro sposo della ragazza. Al che si innesca un dialogo in cui il giovane, per garantire che sarà un buon marito, elenca tutte le sue competenze lavorative, specie quelle riguardanti la coltivazione e la lavorazione della canapa; la madre, a sua volta, illustra i lavori più propriamente femminili che sua figlia sa svolgere con maestria. Alla fine del dibattito, la Madre si convince a dare in sposa la figlia al giovanotto ma, trattandosi di personaggi che vivono in una società ancora patriarcale, invita il pretendente a chiedere anche al padre la mano della ragazza: «Figliu mio, va’ a parlà cco’ pate – primma ‘e mettere ‘o pere ‘int’ a casa mia».

Questo testo apparentemente non ha nulla a che fare con la ritualità, perché mette in scena temi di ordinaria quotidianità. Se, tuttavia, consideriamo chi sono i personaggi e qual è l’ambiente in cui vivono, si capisce il motivo per cui essi sentano la necessità di parlarne pubblicamente e in una forma per nulla quotidiana come può essere un’azione drammatica. Ci troviamo qui in un ambiente particolare come quello della lavorazione della canapa, in cui la manodopera essenzialmente è quella bracciantile. Pochi sono i grandi proprietari terrieri e tanti sono quelli che oggi chiameremmo coltivatori diretti; entrambi si servono di braccianti e di operai non specializzati, che tuttavia devono essere abbastanza abili nelle diverse fasi molto faticose del lavoro da compiere in alcuni periodi dell’anno in ambienti malsani e nocivi. Ammalarsi o perdere il lavoro in quelle situazioni, significava non potere più sfamare né se stessi né eventuali familiari: l’unica salvezza stava nella salute e soprattutto nelle capacità di sopportazione di enormi fatiche e nella capacità tecnica in certe operazioni.

Una madre che ha una figlia, bella ma senza dote (com’era probabile nella generalità dei casi), desidera per lei non un marito ricco ma un uomo che a fine settimana riesca a portare a casa il denaro necessario alla loro sopravvivenza. Da qui la sua insistente richiesta sulle capacità lavorative e sulle qualità morale del pretendente. D’altra parte, anche lei per illustrare il valore della figlia la paragona al ruotolo d’oro, cioè alla scorta di canapa arrotolata che si teneva in casa e da cui all’occorrenza si ricavavano lenzuoli e panni e che le donne portavano come dote. E poi ne tesse i pregi elencando tutte le virtù lavorative necessarie alla convivenza familiare.

Da parte sua il giovane pretendente si mostra consapevole delle qualità occorrenti per potersi candidare come marito e capo di casa ed elenca ed elogia tutte le varie capacità richieste da ogni fase della lavorazione della canapa. Alla fine, dichiara anche di essere moralmente a posto, come dimostra il suo essere membro di una confraternita, e di “saper stare in società”.

Si tratta di princìpi e di valori basilari per la vita di ogni comunità, specie di quelle che vivono di solo lavoro, e che devono esser fatti propri da ogni loro membro. Per questo è necessario ribadirlo continuamente, usando non tanto lo stile del parlato quotidiano ma quello, ben più incisivo ed efficace, del teatro che ha in sé un che di rituale e di sacro. 

Marcianise, la macellazione del maiale

Marcianise, la macellazione del maiale (Archivio privato Domenico Puglielli)

Il compianto funebre del maiale 

L’altro copione riguarda i vari momenti dell’uccisione del maiale e della lavorazione delle sue carni; esso è il risultato di un processo di costruzione unitaria in quanto si tratta di scene che avvenivano durante le varie fasi di lavorazione delle carni che si svolgevano nell’arco di tre giorni. Zarrillo ha congiunto tutte le parti dandoci un testo unitario, ma per segnalarci la diversa collocazione temporale di ogni frammento ha usato categorie del teatro culto suddividendolo in “atti” e “scene”. Qui, pubblicando il testo senza interruzioni, si è preferito chiamare “quadro” ogni particolare momento del lavoro, e di premettere una breve didascalia per indicare le fasi delle operazioni.

Rispetto a quello precedente, il testo sull’uccisione del maiale tratta di un tema che è stato affrontato fin dai tempi in cui gli antropologi notarono che, prima di mangiarlo, coloro che avevano ucciso l’animale celebravano riti per allontanare eventuali punizioni da parte dello spirito dell’ucciso. Vedremo, però, che il testo casertano ci introdurrà in una situazione più vicina alle condizioni materiali di vita del mondo contadino.

Prima di passare alla lettura del canovaccio, occorre dare delle informazioni sulla scenografia e sullo spazio in cui aveva luogo il dramma. Siamo in un cortile attorno al quale sono disposte l’abitazione della famiglia proprietaria del maiale e tutte le costruzioni dei servizi: il lavatoio, il forno, le latrine, il pozzo, ecc.. In una parte del cortile vicina all’abitazione della famiglia, è disposta una balla di paglia, sulla quale deve essere condotto l’animale che lì sarà scannato; ad uno dei lati della balla le donne collocano i recipienti in cui sarà raccolto il sangue del maiale. Ai lati lunghi della balla si dispongono, a formare un semicerchio, le persone invitate ad assistere all’evento: familiari, parenti, vicini di casa, amici; esse interpreteranno i due Cori. Su uno dei lati corti invece stanno il Capofamiglia, la Moglie, il Norcino e un personaggio necessario a far procedere, in alcune scene, il dialogo fra le parti e che qui è indicato come il Commentatore (ma potrebbe essere il Presentatore o l’Animatore). Questa scenografia era riproposta sempre uguale nei due o tre giorni che occorrevano per compiere il lavoro. 

Marcianise, la macellazione del maiale

Marcianise, la macellazione del maiale (Archivio privato Domenico Puglielli)

Lettura del testo 

Nel primo Quadro abbiamo il racconto molto sintetico di come il maiale è tratto dal casariello (il porcile) e condotto sulla balla di paglia. Fanno fatica ad adagiarlo sulla balla, perché l’animale si oppone e si ribella e soprattutto perché è pesante. «L’avete ingrassato ben bene», è l’elogio degli astanti al Capo famiglia che, compiaciuto, nota che esso così può dare un palmo di lardo. Nella realtà questa scena probabilmente era improvvisata dai presenti; qui è riprodotta a posteriori, come del resto anche le altre scene. Per questo, alcuni personaggi, come il Capo famiglia, la Madre e il Commentatore erano reclutati tra i lavoranti che avessero una certa capacità di teatralizzare la situazione, adattando versi e battute tradizionali già utilizzate (Zarrillo 2017:107).

Chi era presente alla scena, a questo punto, vedeva il norcino infilare il lungo coltello nella gola dell’animale e schizzare il fiotto di sangue che prestamente veniva raccolto in un contenitore. Si trattava di una scena violenta cui assistevano tutti, anche i bambini; ma nel testo non se ne parla: si dice solo che il Capo famiglia e il Figlio tengono fermo il maiale; dopodiché l’annuncio del Norcino: È morto.

Nel Quadro successivo, il Commentatore ripete per tre volte l’annuncio del Norcino e poi sono i due Cori che alternandosi ripetono per due volte: è muort’ è muort’ è muorto, probabilmente con accenti di dolore, quasi si trattasse di un parente. Di nuovo interviene il Commentatore con una frase che contiene due sentimenti contrastanti: Mi piace … e non mi piace. Le due espressioni antitetiche risultano oscure, così i due Cori chiedono spiegazioni, che arrivano in due momenti diversi. Il Commentatore, per prima elenca i motivi per cui l’uccisione del maiale è motivo di piacere: con il lardo spesso di quattro dita si possono fare ciccioli e strutto; e quindi, sollecitato dai due Cori che ripetono «E poi, e poi e poi?», aggiunge: «con le cotenne e le costole prepareremo il sugo in tegame, con la carne faremo prosciutto e salsicce, con la testa le zampe e le cotenne faremo la “minestra di Pasqua”, friggeremo le costolette, il fegato e la pappagorgia; mangeremo il soffritto, il sanguinaccio e le cervella». Alla fine dell’elenco, i ragazzini, galvanizzati da queste promesse alimentari, esplodono in esclamazioni di gioia.

I due Cori però vogliono sapere anche perché l’uccisione del maiale non piace. Alla domanda risponde il Capo famiglia, che probabilmente ha sensi di colpa: «Ho perso un amico; l’avevo comprato alla fiera di Venafro, pesava dieci chili; al mattino grugniva perché voleva essere salutato, la sera mangiava il suo beverone e poi dormiva per tutta la notte; l’ho allevato bene, adesso pesa due quintali». E i due Cori: «E allora perché l’avete ucciso?». La giustificazione del Capofamiglia ha qualcosa di paradossale: «In cambio del mio affetto, lui mi ha dato la carne; io gli ho dato la vita e lui mi ha dato la forza, l’energia per lavorare». All’insistenza dei due Cori, la risposta è filosofica: «Perché quando uno muore, poi nasce un altro». A conclusione di questo dialogo, tutti i presenti intonano un canto che sancisce quasi un patto tra l’animale e l’uomo: 

                         Tu ci dai la carne
                       Tu ci dai la vita
                         Tu ci dai la forza
                                  Tu muori e noi viviamo
                                                  Ma del porco non ci scorderemo. 

Il coro di esultanza dei bambini chiude la scena, ma anche la giornata di lavoro.

Nel giorno successivo, quarto Quadro, il Norcino si prepara a spezzare il maiale e a selezionarne le parti per la conservazione. La suddivisione in pezzi sparsi del corpo dell’animale è sentita come un atto di sommo vilipendio nei confronti di un essere che il giorno prima era integro e vivo. Per non sentirsi responsabile della sua morte e soprattutto per non avere sensi di colpa, è necessario che esso venga svilito e disprezzato come cosa di infimo valore di cui ci si può disfare impunemente, riducendolo in pezzi inerti. Ed ecco, allora, che al maiale, ancora appeso per far sgocciolare meglio il sangue dai tessuti, si rivolgono parole di dileggio, trattandolo con ironia e raffigurandolo come un pupazzo su cui si può ferocemente scherzare, per far sì che la sua uccisione possa essere giustificata. Dice la Moglie: «Ti ho dato da mangiare, ora tu sarai il pasto per noi»; di rimando il Capo famiglia: «Sembri il fantoccio di carnevale agganciato ad un chiodo»; uno degli astanti: «Credevi di poter vivere in eterno? Ma non lo sai che il porco muore entro un anno di vita?».

A questo punto (quinto Quadro) interviene il Norcino che deve portare a termine il suo lavoro: «Allontanatevi, fatemi tagliare la testa; state più lontani, perché lo devo dividere in due parti»; e poi continua ad indicare le operazioni che man mano esegue. La Moglie, come responsabile della dieta alimentare della famiglia, commenta ogni singola operazione del Norcino: «Conserviamo la testa per il pranzo di Pasqua; con il cuore e il polmone faremo il soffritto, il fegato lo mangiamo subito fritto nella rete». Il Norcino dà altri ordini: «Prendete un catino e metteteci gli intestini dopo averli puliti»; il Capofamiglia aggiunge: «Aromatizzate con qualche fetta d’arancia l’acqua con cui lavate gli intestini, per evitare che puzzino»; e la Moglie commenta: «Useremo le budella per fare la salsiccia». La selezione delle carni da conservare continua, commentata con grande puntualità: «Conserva queste carni per quando saremo occupati con il cannule, il momento più gravoso della lavorazione della canapa».

Se poco prima tutti avevano cercato di sminuire il maiale come essere vivente per non avere sensi di colpa, adesso ridotto in pezzi inerti acquista un grande valore, perché esso «ci dà l’energia per lavorare, quel che togliamo a lui lo pigliamo noi». La Moglie, per paura che i prosciutti si possano guastare, suggerisce di usare una quantità maggiore di sale, ma il Capofamiglia osserva che piuttosto che usare più sale è meglio farlo asciugare in un luogo ben ventilato, come può essere l’androne dell’ingresso, perché così la carne si insaporisce meglio. Il lavoro ha assorbito tutti, ma il Figlio ha fame e reclama: qui si lavora troppo e non si pensa a mangiare. Il Norcino gli ricorda che prima occorre finire il lavoro e che in ogni caso bisogna guadagnarsi la costoletta con la fatica; e la Moglie promette al Figlio che dopo aver finito di insaccare le salsicce mangeranno il fegato e le costine. La “spaventata”, il pranzo da “ben finita” si farà a fine agosto, quando si saranno conclusi i lavori del ciclo della canapa. 

45999083-_sx318_Conclusioni 

La recita del testo, come abbiamo potuto vedere, è configurata alla stregua di una azione rituale. Intanto la disposizione degli astanti in semicerchio, attorno alla balla di paglia, indica di per sé la volontà di dar luogo ad una scena non quotidiana. Pur tenendo in considerazione le enormi differenze tra le due vicende, è abbastanza chiaro che in questo caso c’è un preciso riferimento alla ritualità del dramma classico; in campagna una volta si ammazzavano altri animali come polli e conigli, ma senza nessuna messa in scena e senza pubblico di spettatori. Per il maiale, invece, si ricorre ad una spettacolarizzazione dell’evento perché ad esso si vuole dare una connotazione particolare. Nel testo esaminato manca qualsiasi accenno ad altre operazioni che si svolgono nei giorni precedenti, come la preparazione del luogo, la predisposizione di quanto potesse occorrere (pentole, contenitori vari, coltelli, tritacarne, il sale, gli aromi e le spezie, tavolo per la macellazione, ecc.): il tutto in previsione di una vicenda che vuole essere diversa da altre consimili e a cui si dà un’importanza straordinaria.

Qualcuno può vedere nella balla di paglia che sta al centro del dramma un altare su cui fare un sacrificio; forse è un po’ sopra le righe interpretare la scena in questo modo, ma la congettura non è del tutto infondata se pensiamo che anche nell’antichità classica l’uccisione e il sacrificio di un maiale avevano le stesse procedure, come ricorda Zarrillo citando l’Epistola II, 1 di Orazio [5]. D’altra parte gli spettatori disposti in circolo, che interpretano i Cori come nelle antiche tragedie greche, rimandano alle celebrazioni rituali dell’antichità, senza dover scomodare Sir James Frazer. Anche la citazione del fantoccio di Carnevale può avere la stessa valenza: il Capo famiglia usa il paragone per dileggiare il maiale morto, ma noi sappiamo che sul personaggio del Carnevale si scaricano i peccati e le malefatte degli uomini che vengono, annualmente, purificati solo con la sua morte; quindi, se il maiale è appeso ad un chiodo, come il sacrificato fantoccio di Carnevale, si può arguire che anch’esso sia stato ucciso per fare del bene a coloro che restano.

L’antropologia ha affrontato molte volte i problemi che nascono nei rapporti tra umani ed animali, perché se da millenni l’uomo ha convissuto con cavalli, cani, gatti, bovini, pecore, polli, è anche vero che contemporaneamente è stato un predatore. L’uomo si è sempre giovato di questa contraddittoria convivenza, in quanto gli animali lo hanno aiutato nel lavoro, gli hanno dato di che coprirsi ma anche di che nutrirsi, non solo di latte e di uova ma perfino della loro stessa carne. «Io ti ho dato il mio affetto, ti ho allevato», dice il Capofamiglia al maiale nel testo esaminato e «tu ci dai la carne per renderci resistenti al duro lavoro». È come, dunque, se tra i due ci fosse un rapporto di “amicizia” e di “solidarietà” o addirittura di complementarità. Questo rapporto, per chi abita in città e possiede un cane o un gatto, si limita ad uno scambio “affettivo”, basato sulla compagnia che l’animale può offrire alle persone, specie quelle sole, mentre per chi vive in campagna, oltre all’affetto, che si instaura tra esseri che vivono in stretto contatto quotidiano, ci sono motivazioni di utilità (l’allevamento delle pecore per il formaggio e la lana, delle galline per le uova; l’utilizzazione, ormai non più necessaria, della forza bovina per l’aratura de campi, l’uso dei cani come custodi della proprietà) e di notevoli interessi economici. Da non sottovalutare poi, visto che l’uomo è pure carnivoro, l’apporto alimentare che molti di questi animali mettono a disposizione degli allevatori. In campagna, inoltre, accanto agli animali domesticati ci sono anche quelli selvatici (uccelli vari, lepri, volpi, cinghiali, fagiani) che vivono ai margini dei terreni coltivati o nei boschi circostanti: anche nei loro confronti l’uomo nutre un certo rispetto (in fondo, si tratta sempre di “vicini” di casa), ma è pronto ad imbracciare il fucile sia per difendere la sua proprietà, sia per procurarsi altro tipo di carne, cacciandoli.

Questa convivenza contraddittoria ha degli effetti psicologici notevoli, oggi alleviati dal fatto che ci sono i macelli e i salumifici che provvedono a rifornire negozi e supermercati di bistecche e di insaccati, ma fino a quando è esistito un mondo in cui il rapporto uomo-animale era molto più stretto di quanto non sia oggi, l’uomo predatore ha ucciso e mangiato gli animali, non senza un senso di colpa la cui gravità era proporzionale al grado di vicinanza tra i due mondi. Da questo senso di colpa forse nasce la cultura dei vegetariani e dei vegani che fa rifiutare loro l’alimentazione basata sulle carni, ma anche quella, più restrittiva, che prevede il divieto di consumare prodotti animali come il latte. Per evitare il senso di colpa, coloro che per cibarsi delle carni devono uccidere un animale hanno tuttavia trovato come giustificarsi per il loro comportamento: la letteratura etnologica è molto ricca di informazioni sugli accorgimenti, più o meno rituali, che precedono o seguono l’uccisione di un animale. Tra i modelli più classici c’è quello dell’animale totem di cui parla Sigmund Freud in Totem e tabu, poi c’è quello del “capro espiatorio”; più comune è invece la cosiddetta “commedia dell’innocenza” con cui si finge che l’animale destinato a morire abbia commesso nei confronti dell’uomo, uno sgarbo o un’offesa che deve essere punita con la morte, o che sia diventato, come scrive la Verdier, mechant, cioè cattivo e perciò pericoloso. Oppure l’uccisore, creando un’altra scena, chiede all’animale perdono per l’atto che sta per compiere [6].

Nel testo di Marcianise, però, non c’è nessuna commedia dell’innocenza e all’animale non si chiede scusa, né perdono; anzi ci sono parole di dileggio. È anche vero che il Capofamiglia si mostra dispiaciuto per la morte del maiale (“Ho perso un amico, gli ho dato il cuore”), ed è anche vero che non lo uccide di sua mano ma chiama il Norcino, una persona estranea alla famiglia e all’ambiente, così come certe tribù etnologiche invitavano al banchetto finale gente di altre tribù che si prestavano ad ammazzare l’animale, assumendosene la colpa e l’eventuale punizione. Qui siamo in presenza di un’altra visione del mondo: accertato che il maiale costituiva una delle primarie fonti di proteine, la sua uccisione diventava necessaria. Nessuno prova piacere ad uccidere, e in forma così violenta, un animale con cui in qualche modo si è convissuti, ma per trasformarlo in cibo lo si deve fare, diventa un fatto “naturale”, anche se spiacevole e doloroso. Farlo alla presenza di altre persone e poi condividere con queste il pasto costituito da costole e fegato dell’animale ucciso alleggerisce il senso di colpa e il dispiacere; e dopo l’atto violento si può fare festa, perché prevale la contentezza di sapere che una parte molto importante dell’alimentazione annuale è stata garantita [7]: ammazzare un maiale non è come ammazzare un pollo, perché questo serve solo per un pasto, il primo invece fornisce alimenti per molti mesi dell’anno.

Tutto, pertanto, dai preparativi all’uccisione, dalla preparazione dei prosciutti al pasto finale, assume l’aspetto di un rito sentito e partecipato. Dietro alla teatralizzazione e alla ritualità, presenti nelle scene tecniche della macellazione, dei procedimenti di conservazione e dell’uso alimentare delle varie parti del maiale, forse si vuole nascondere il fatto che tutto si svolge secondo la crudele legge della mors tua vita mea. Ma crudele era anche la vita dei contadini di una volta molto più vicina alle vicende, anch’esse dure e dolorose, della Natura.

Anche in questa teatralizzazione della lavorazione delle carni del maiale, più che della sua uccisione, al di là degli elementi rituali, c’è da notare la puntualità con cui è descritto sia il lavoro del Norcino sia i modi con cui la Moglie dice di voler cucinare le varie parti dell’animale. In una situazione di grande precarietà alimentare non ci si può permettere il lusso di non utilizzare o di sciupare anche una parte minima di tutto quel ben di dio. Da qui la necessità di ribadire puntualmente le azioni da fare per non dimenticarne nessuna, come nella proposta di matrimonio il pretendente ribadisce pubblicamente quali devono essere le doti di un onesto lavoratore e cittadino che vuole metter su famiglia.

È straordinario, infine, trovare la somiglianza del concetto espresso dal Capo famiglia per spiegare il motivo della morte del maiale (Pecché quanno more uno – po’ ne nasce un altro), con quello, incommensurabilmente diverso e più tragico, con il quale Alcide Cervi commemorò la morte dei suoi sette figli: «Dopo un raccolto ne viene un altro. Tiriamo avanti». Mi pare, tenute le debite distanze, che a dettare le due frasi sia stata la stessa filosofia contadina che accetta le leggi naturali relative al ciclo vitale e agli stretti legami tra la vita e la morte.

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022 
Note 
[1] In questo paragrafo mi riferisco all’opera di James Frazer, Il ramo d’oro, pubblicata dapprima da Einaudi (Torino 1950) e poi da Bollati Boringhieri (Torino 1964), quindi da altri; e a quella di Paolo Toschi, Le origini del teatro italiano, edita da Einaudi (Torino 1955) e successivamente ristampata da Bollati Boringhieri (Torino 1976).
[2] Nei modi e nelle tecniche relative all’uccisione del maiale e alla conservazione delle sue carni c’è una certa omogeneità in tutte quelle regioni italiane in cui queste pratiche sono tradizionali. Allargando lo sguardo oltre le Alpi, si può vedere, tuttavia, che queste pratiche sono comuni in altri Paesi; in Francia, per esempio, nella regione della Borgogna, non solo sono quasi uguali a quelli italiani i modi e le tecniche della pratica, ma simile è anche il clima di festa e di “rito” ad essi collegato: Yvonne Verdier (1979: 24-27), descrive l’uccisione del maiale come fosse un evento in cui concorrono elementi di cultura materiale e di «regole elementari d’ordine magico-religioso»: per questo usa spesso il termine sacrifice, che si adatta anche, come vedremo, alla pratica che sarà esaminata più avanti.
[3] Sull’importanza del maiale, sia dal punto di vista economico sia alimentare, si veda Pietro Clemente, Espressioni linguistiche della scarsità alimentare: la carne nella dieta dei mezzadri toscani, in «L’Uomo», vol. IX, n. 1-2, 1985. L’autore si riferisce alla Toscana mezzadrile tra ‘800 e ‘900, ma una situazione simile si può ascrivere anche ad altri contesti regionali.
[4] Su tali questioni si veda la vecchia ma sempre utile opera di Giulio Bertoni, Il Duecento, Vallardi, Milano 1960, specie il cap. X Poesia e vita di popolo: 184-187.
[5] Vd. nota [2] ove è stato riportato che la stessa Verdier usa il termine sacrifice per indicare l’uccisione del maiale.
[6] Sulle motivazioni, in genere alquanto capziose, che cacciatori e quelli costretti ad uccidere un animale per mangiarlo accampano per non sentirsi in colpa, ha scritto più volte Sergio Dalla Bernardina del quale si vedano Il miraggio animale, Bulzoni, Roma 1988 (nel quale prevalentemente si occupa di caccia e cacciatori), e L’Éloquence des bêtes, Métailié, Paris 2006, (in cui affronta il tema più generale dei rapporti fra uomo e animali).
[7] L’atmosfera che si crea in una situazione del genere non riguarda solo il maiale, né riguarda solo l’Italia e l’Europa; S. Dalla Bernardina nel capitolo relativo agli animali domestici riporta il seguente proverbio africano sulla loro uccisione a scopo alimentare: gli occhi e il cuore sono tristi ma i denti e lo stomaco sono in piena gioia (si veda Dalla Bernardina, L’Éloquence, cit.: 145). 
Riferimenti bibliografici
Bertoni G., Il Duecento, Vallardi Editore, Milano 1960 – 5°ristampa – Cap X, Poesia e vita di popolo: 184-187).
Clemente P., Espressioni linguistiche della scarsità alimentare: la carne nella dieta dei mezzadri toscani, in «L’Uomo», vol. IX, n. 1-2, 1985.
Clemente P. – Fresta M., Metodi di conservazione delle carni di maiale in Toscana: tecniche di conservazione, BRADS, Bollettino Repertorio Atlante Demologico Sardo, 9, Cagliari 1979/80.
Dalla Bernardina S., Il miraggio animale, Bulzoni, Roma 1988.
Id., L’Éloquence des bêtes, Métailié, Paris 2006.
Goffman, E., La vita quotidiana come rappresentazione, il Mulino, Bologna 1969.
Harris M, Buono da mangiare, Einaudi, Torino 2006.
Verdier Y., Façons de dire, Façons de faire: la laveuse, la couturière, la cuisinière, Éditions Gallimard, Paris 1979
Zarrillo T., La lavorazione della canapa, l’uccisione del maiale e il teatro contadino, Edizioni Melagrana, San Felice a Cancello (Caserta) 2017.  
APPENDICE
I testi 
1)       La mamma e il giovane pretendente 
   I Madre, al padrone        Oi padrone mio, pàvami
                                               Che aggià ‘a rota a figlima.
                                               Pecché se ‘o sizzo (l’elen co dei beni dotati)nun è buono
                                               ‘o sposo nun s’ a piglia.
   II Madre                           ‘A rota nun serve a’ figlia mia
                                               Pecché tene bellezze e simpatia.
   Giovane                               Si ‘a figlia toia è bella ‘a vogl’io:
                                               Songo nu marito onesto e fatecatore.
   Madre                                   Ma rimmi, tu che sai fa?
                                               Si no a figlima nun t’a rongo.
   Giovane                               Nun te preoccupà ra figlia toia:
                                               ‘nt’a casa mia farà ‘a signora.
                                               I’ soccio trà ‘o surco,
                                               i’ soccio semmenà,
                                               i’ soccio scavà, scutulià, e ammannulià,
                                               ‘mpilà, caccià e struvulià.
                                               I’ soccio métere e faucià
                                               I’ soccio accannà,
                                               I’ soccio manghenià
                                               I’ soccio vénnere e accattà,
                                               I’ stongo ‘nt’a cungrega
                                               I’ soccio sta ‘nd’a sucità.
    Madre                               ‘A figlia mia è nu ruotolo d’oro:
                                               Sape cucinà, lavà pulezzà ‘a casa,
                                               sape còsere, tessere e ricamà;
                                               sape maciullà, spatulià e pettenà
                                               e se sape appresentà.
    Giovane                             Io songo giovane serio e attempato.
                                               A figlia toia le rongo amore e rispetto.
    Madre                                  ‘A figlia mia s’ammereta ammore e rispetto.
    Giovane                               E famme conoscere chesta figlia toia.
    Madre                                  Figliu mio, va a parlà cco’ pate,
                                               primma ‘e mettere ‘o pere ‘nd’a casa mia. 
[Traduzione: Padrone mio, pagami – che devo fare la dote a mia figlia – perché se la dote è scarsa – lo sposo non la piglia. – La dote non serve a mia figlia – perché è bella e simpatica.  – Se tua figlia è bella simpatica -. La voglio io: sono onesto e lavoratore. – Ma dimmi, tu che (lavoro) fai? Altrimenti non ti do mia figlia. – Non ti preoccupare per tua figlia – in casa mia farà la signora. Io so tracciare il solco, so seminare, so scavare, ammannire, impilare, estrarre dal macero stendere. – Io so mietere e falciare, so livellare, so vendere e comprare. Sono membro di una confraternita, so stare in società. -  Mia figlia è un “rotolo d’oro” – sa cucinare, lavare, pulire la casa – sa cucire, tessere e ricamare; – sa maciullare, spatolare e pettinare – e sa presentarsi. – Io sono giovane serio e maturo – A tua figlia darò amore e rispetto. – Mia figlia merita amore e rispetto. -  E fammi conoscere questa figlia. -  Figlio mio, vai a parlare col padre, prima di mettere piede in casa mia]. 
2) Compianto del maiale morto 
I Quadro
(il maiale è condotto sulla balla di paglia e qui è ucciso) 
Il capo famiglia            Aggi fatto ‘o ‘nghiappo (uncino)‘n cimm’a fune                       
                                    Mo’ c’ho metto ‘ n mocca …
                                    Stu pachiochio (sciocco) nun vo’ ascì.                                     
Moglie                         Tira, tir’a fune che sta ascenno …
Capo f. (al figlio)         Tu vòttelo a retro …(spingilo da dietro)
                                    È arrevato. Aizatelo ‘n coppa ‘a ball ‘e paglia!
Aiutanti                       Quanto pesa! Che sta vota l’avite ngrassato troppo
Capo f.                        Accussi farà nu parmo ‘e lardo …
                                    È gghiute! (è arrivato, è a posto)
                                    Mo’ mantenitelo buono – si no chisto se ne fuie.
Norcino                  Tira ‘a fune! (rivolto alla Moglie): Mettite ‘o vaso cchiù vicino – si no ‘o sangue care ‘n terra.
(rivolto a tutti gli aiutanti) Mantenitelo buono si no care – a coppa ‘a balla ‘e paglia!
Capo f. (al figlio)         Tu tieni fermi ‘e ruie pieri ‘e reto – l’ati dui, chilli ‘e nnanzi, ‘e mantengo io.
Figlio                           Ma chisto se move troppo.
Capo f.                        Mo’ piensa a tenè ferme ‘e cosce.
Norcino                       È muorto!
II Quadro
(davanti al maiale morto, tutti i presenti, schierati in semicerchio, così commentano): 
Commentatore             È muort è muort’è muorto
Primo coro                   È muort’è muort’è muorto
Secondo coro               È muort’è muort’è muorto
Commentatore             Mi piace … e … nun me piace
Primo coro                   Pecché pecché ve piace? / Dicitele pure a nui
Secondo coro               Pecché pecché ve piace? / Dicitele pure a nui …
Commentatore             Co’ lardo ‘e quattro reta (alto 4 dita)facimmo cicule e nsogna. (ciccioli e strutto)
Primo e secondo coro   E po’ e po’ e po’?
Commentatore             Cu’ cotene e custate / facimme ‘o tianiello (il sugo in tegame).
I e II coro                     E po’ e po’ e po’?
Commentatore           Ca carne facimme sasicce / facimme presutto e filetto.
I e II coro                     E po’ e po’ e po’?
Commentatore             Cu ‘a capa, pieri e cotene  / facimme a’ menesta ‘e Pasqua.
I e II coro                     E po’ e po’ e po’?
Moglie                         Friimmo ‘e custatelle / Friimmo ‘e fegatielli, friimmo ‘o vuccularo (la pappagorgia)
I e II coro                     E po’ e po’ e po’?
Moglie                         Mangiammo ‘o zzuffrettiello
 Mangiammo ‘o sanguinaccio / Mangiammo ‘o cerevello.
Bambini (esprimendo felicità)  Eh! Eh! Eh! Eh! Eh! Eh! 
III Quadro
(è il momento in cui si piange la morte del maiale come s fosse un amico o un congiunto) 
I e II Coro (al Commentatore)    E pecché nun ve piace? / E pecché nun ve piace?
Dicitele pure a nui…
Capo f.                        Aggio perze nu caro amico …
I e II Coro                    E po’ e po’ e po’?
Capo f.                        Ho accattaio a’ fiera ‘e Venafro / Pesava dieci chili …
I e II Coro                    E po’ e po’ e po’?
Capo f.                        A’ matina rugnuliava (grugniva) / ppe esser salutato …           
I e II Coro                    E po’ e po’ e po’?
Capo f.                 A’ sera ndo a’ cupella (mastello) / mangiava o’ verone (beverone) e rurmeva (dormiva) tutta ‘a notte.                                        
I e II Coro                E po’ e po’ e po’?
Capo f.                        L’aggio fatto crescere, / mo’ pesa dui quintali.
I e II Coro                    E pecché, pecché l’e acciso?
Capo f.                        Io l’aggio rato (dato) ‘o core / e isso m’ha rato a carne.           
I e II Coro                    E po’ e po’ e po’?
Capo f.                        Io l’aggio rato ‘a vita / e isso m’ha rato ‘a forza.
I e II Coro                    E pecché, pecché l’e acciso?
Capo f.                        Pecché quanno uno more / Po’ ne nasce n’ato. 
Il commentatore e i due cori intonano il canto seguente:
                                    E ti ci rai (dai) ‘a carne                                              
                                    E tu ci rai ‘a vita
                                    E tu ci rai ‘a forza
Tu muore e nui campammo
Ro puorco nun ci scurdammo.
Bambini               Eh! Eh! Eh! Eh! Eh! Eh! 
IV Quadro
(Il Norcino procede quindi al taglio della testa e a tagliare in due il maiale e ad appenderlo. Gli astanti gli si rivolgono così )
Moglie                         T’aggio fatto tanti veruni, mo’ ‘o verone ce fai tu a nui ..
Capo f.                        Pare carnevale appiso o’ chiuvo …
Una                             Puveriello, l’hanno fatto male!
Uno                             Te crerivi (credevi) e’ campà ppe sempe;                                            
                                    nun ‘o ssaie che ‘o puorco ‘n capo all’anno more?
V Quadro, Selezione e conservazione delle carni
(le carni sono selezionate e staccate; di ogni pezzo si indica la destinazione alimentare) 
Norcino                       Scustateve, faciteme staccà ‘a capa …
Moglie                         ‘A capa a stepammo (conserviamo) pe’ Pasqua …                                
Norcino                       Mo’ alluntanatevi / che l’aggia a spaccà a coppa e en piero (dal capo fino ai piedi)
                                    Appennite stu core / fegato e premmone.
Moglie                         Co’ core e o’ prummone / ce facimmo ‘o zuffritto;
                                    ‘O fegato ci ho mangiammo / subito fritto nta rezza (rete)
Norcino                       Pigliate ‘na scafareia (vaso) /e mettitece ‘e stentine ‘a rinto doppo che l’ite pulezzato.
Moglie                         Cch’e stentini (intestini) facimmo ‘e sasicce…                         
Capo f.                        Mitteci cocche fella / ‘e purtuvallo  (fetta d’arancia) ‘e cchiù si no ti stentini feteno.
Nel mentre che va avanti la lavorazione delle carni …              
Capo f. (alla moglie)    Stipa chesto pe quanno / ‘‘imma a fa ‘o cannule
Moglie                         Vi d’ha suggiuvà ‘nu poco / o si no venite meno.
Capo f.                        Chisto puorco ci ha da rà / ‘a forza ‘e faticà
                                    Chello che luvammo a isso / ci ho pigliammo nui.
Moglie                         Ci mette nu poco ‘e sale e’ cchiù / accussi se mantene meglio.
Capo f.                        Chesto o pienze tu! / Ma se nun o’ ppienne  (appendi)/Sotto ‘o portone / nun sape ‘e niente.
Figlio                           Ueh, ccà faticcammo sulo .
                                     Ma qunno facimmo nta vozza? (gozzo, quando lo mangiamo)
Norcino                       Penzate a taglià ‘a carne / pe ‘nzaccà ‘e sasicce / e po’ mangiate.
                                    Nun ‘o sapite / che ‘a custatella / ve l’ite a guaragnà?
Moglie                         Fenimmo ‘e ‘nzaccà ‘a carne / po’ friemmo custatelle e fegato.
Figlio                           Ca ppe tutta sta fatica / ce vo’ na spaintata! (spaventata, pranzo abbondante)
Moglie                         ‘A spaintata a facimmo / a fin’Auste.
                                    Doppo che è fenuta / ‘a fatica ro cannule. 
[Traduzione: Ho fatto il cappio in cima alla corda, ora glielo metto in bocca. Questo sciocco non vuole uscire dalla porcilaia. Tira la fune, sta uscendo. Tu spingilo da dietro. È arrivato, mettetelo sopra la balla di paglia. Quanto pesa! Stavolta l’avete ingrassato molto. Così farà un palmo di lardo. Ecco, è a posto. Ora tenetelo fermo, altrimenti fugge. Tira la fune. Mettete il catino più vicino, altrimenti il sangue va a terra. Tenetelo bene per non farlo cadere dalla balla. Tu tieni ferme le zampe anteriori, io tengo quelle posteriori. Questo si muove troppo. Tu pensa a bloccare le zampe. È morto. È morto, è morto. Mi piace e non mi piace. Perché vi piace? Ditelo anche a noi. Con il lardo di quattro dita facciamo ciccioli e strutto. E poi? Con cotenne e costate facciamo il sugo in tegame. E poi? Con la carne facciamo salsicce, prosciutto e filetto. E poi? Con testa zampe e cotenne facciamo la minestra di Pasqua. E poi? Friggeremmo le costolette, i fegatelli e la pappagorgia. E poi? Mangeremo il soffritto, il sanguinaccio, le cervella. E poi? Ci dà forza per estirpare (la canapa), per scotolarla e stenderla. E perché non vi piace? Ditelo anche a noi. Ho perso un caro amico, l’avevo comprato alla fiera di Venafro, pesava dieci chilogrammi. Al mattino grugniva per essere salutato. A sera nella tinozza mangiava il beverone e dormiva tutta la notte. L’ho fatto crescere, adesso pesa due quintali. E perché l’avete ucciso? Io gli ho dato l’affetto e lui mi ha dato la carne. Io gli ho dato la vita ed esso mi ha dato l’energia. Perché l’avete ucciso? Perché quando uno muore, poi ne nasce un altro. E tu ci dai la carne / e tu ci dai la vita/ e tu ci dai la forza: tu muori e noi viviamo, del porco non ci dimenticheremo. Ti ho preparato tanti beveroni, ora il beverone lo fai tu a noi. Pare il fantoccio di carnevale appeso al chiodo. Poveretto! Gli hanno fatto male! Tu credevi di vivere per sempre, non lo sai che il porco muore nell’arco di un anno? Allontanatevi, fatemi staccare la testa. La testa la conserveremo per Pasqua. Allontanatevi perché lo devo dividere in due, dal capo alle zampe. Appendete questo cuore, il fegato e il polmone. Con il cuore e il polmone faremo il soffritto, il fegato lo mangiamo subito friggendolo avvolto nella rete. Prendete un catino e metteteci dentro gli intestini dopo averli puliti. Con le budella faremo le salsicce. Metteteci anche qualche fetta di arancia, altrimenti gli intestini puzzano. Conserva queste (carni) per il periodo in cui dovremo lavorare la canapa. Vi dovete sostenere un po’ di più per non svenire. Questo ci dovrà dare la forza di lavorare. Quello che togliamo a lui ce lo prendiamo noi. Ci metto un po’ di sale in più perché si conservi meglio. Questo lo dici tu, ma se non l’appendi in un luogo arieggiato non avrà sapore. Qui lavoriamo soltanto, quando è che mangeremo? Pensate a tagliare la carne per insaccare le salsicce e poi mangiate. Non lo sapete che la costoletta ve la dovete guadagnare? Terminiamo di insaccare la carne, dopo friggiamo le costolette e il fegato. Qua per tutta la fatica che abbiamo fatto ci vorrebbe una “spaventata” (un pranzo molto abbondante). Faremo la “spaventata” a fine agosto, dopo aver finito la lavorazione della canapa].

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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadinoLo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003.  Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici.

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