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Sulle coordinate dell’azione comunitaria al tempo del riscaldamento globale e delle comunità verdi

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il centro in periferia

di Giampiero Lupatelli

La sfida delle Green Community: una occasione per riscoprire la comunità

Nella scorsa estate il Dipartimento per gli Affari Regionali e le Autonomie (DARA) della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha lanciato un Avviso Pubblico per l’individuazione di territori nei quali mettere a punto un modello di intervento per la realizzazione delle Green Community in attuazione della L. 221/2015, dando così seguito all’investimento previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

L’Avviso ha ottenuto un notevole successo, raccogliendo la partecipazione di un numero assai elevato di soggetti espressione di reti locali articolate in assetti istituzionali o forme organizzative diverse: Unioni Montane, Comunità Montane, Consorzi, Convenzioni. Nel complesso poco meno di 200 candidature su una platea teorica di cui è possibile stimare la massima estensione nell’ordine delle cinquecento unità. Una partecipazione tanto più significativa se si considerano i tempi infelici e i termini assai ristretti (dal 1 luglio al 16 agosto 2022) nei quali la manifestazione di interesse dei territori è stata aperta alle candidature dei sistemi locali.

Sono state così selezionate trenta aree che si sono aggiunte alle tre aree pilota individuate dal Decreto del Ministro Maria Stella Gelmini del 30 marzo 2022. Un fatto davvero significativo che ha avviato una sperimentazione di notevole rilievo, sia pur realizzata ad una scala di intervento ancora ristretta. Una sperimentazione che dovrà trovare seguito per riuscire a dare risposta alla crescente richiesta di attenzione e al nuovo protagonismo ambientale che proviene dalle aree montane e rurali del Paese.

Presentazione standard di PowerPointUna istanza diffusa e ampiamente riconosciuta nella attenzione delle Accademie (e della stessa opinione pubblica) che ha fatto parlare di Una nuova centralità della Montagna [1]  e che ha proposto la Montagna (meglio, le Montagne) come possibili interpreti di segnali profondi che sono venuti maturando nel corpo della società italiana nel corso dell’ultimo decennio; segnali che la pandemia da Covid 19 ha ulteriormente portato in evidenza presentando opportunità prima non intraviste per nuove possibilità di abitare le Terre Alte.

Questa attenzione ha però faticato non poco – e non poco fatica ancora – ad acquisire una legittimazione piena e stabile nel panorama delle politiche pubbliche, prime tra tutte in quel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) la cui irruzione in un panorama ormai più che ventennale di investimenti stagnanti e di riforme abortite, ha annunciato – e potrebbe ancora avere – effetti dirompenti. Un difetto di attenzione e legittimazione che non dipende dal fatto che di questi territori montani (e più in generale non metropolitani) non ci sia traccia tra i destinatari dei 200 miliardi di investimenti che il PNRR mette in campo, al contrario. È piuttosto la soggettività e il ruolo dei territori montani e rurali che fatica ad emergere in un PNRR che frammenta il suo intervento rivolgendo il messaggio dei suoi bandi ai piccoli comuni, considerati isolatamente o al più nella forma di aggregazioni circoscritte e occasionali.

Non aiuta la scelta ricorrente dello stesso PNRR (figlia di una lunga tradizione amministrativa che ha sempre faticato a misurarsi con le categorie e il racconto della geografia e non solo della statistica) di assumere come discrimine la sola dimensione demografica dei comuni per individuare una riserva o una preferenza nella destinazione di risorse da rivolgere alle realtà territoriali più fragili: i 5.000 abitanti cui si sono rivolte le iniziative per il recupero dei Borghi del Ministero della Cultura, e per le Comunità energetiche delle Rinnovabili del Ministero per la Transizione Ecologica o ancora i 15.000 abitanti da assumere come obiettivo per la aggregazione di comuni più piccoli per partecipare al bando per la rigenerazione urbana proposta dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

In questo panorama non certo entusiasmante, il Bando Green Community si è proposto come una luminosa eccezione che assume valore rilevante nonostante le modeste dimensioni finanziarie messe in campo, con risorse che superano di poco lo 0,5 per mille della dotazione finanziaria complessiva del PNRR. La capacità di costruire relazioni territoriali significative e la loro permanenza nel tempo è stata infatti riconosciuta dal bando Green Community come condizione determinante ed essenziale per rendere ammissibile la partecipazione, sollecitando la presentazione di proposte da parte di coalizioni territoriali espressione di realtà territoriali estese e integrate. Coalizioni per le quali l’etichetta di comunità territoriali può essere appropriata [2]

La proposta del riordino del territorio italiano secondo la Società Geografica Italiana del 1999

La proposta del riordino del territorio italiano secondo la Società Geografica Italiana del 1999

Le ambizioni delle Comunità Verdi

Nel concreto dispiegarsi delle azioni di programmazione, progettazione e realizzazione degli interventi finanziati dal PNRR, i prossimi mesi ci diranno se i territori che si sono proposti come nuove “comunità verdi” – i trentatré selezionati ma, in qualche misura anche gli altri centocinquanta che hanno avanzato la candidatura – avranno effettivamente messo in azione processi di rafforzamento della propria integrazione comunitaria. O se invece quella con cui hanno risposto alla sollecitazione del DARA è solo un’etichetta di circostanza che si sovrappone e racchiude più consuete e tradizionali logiche di investimento in opere pubbliche, per quanto rivestite di nuove motivazioni e finalità ambientali.

Non basta infatti registrare il successo di partecipazione del bando per confermarci nella convinzione che le esperienze in corso – le tre aree pilota innanzitutto, e tra queste quella dell’Appennino Reggiano di cui chi scrive può parlare con qualche maggiore cognizione di causa – colgano le aspettative suscitate dall’etichetta Green Community.

Quello che possiamo anticipare in una considerazione che si colloca ex ante al concreto dispiegarsi dei processi attuativi della nuova programmazione territoriale di cui le green community si propongono di rappresentare l’ossatura, è qualche riflessione sulla solidità e la appropriatezza dei nuovi presupposti concettuali cui questa stessa programmazione sembra volersi fondare nella sua esplicita intenzionalità come anche nelle valutazioni implicite nelle logiche di individuazione e di selezione.

Anche nell’anglismo con cui si presentano, forse ostentato come insegna di modernità (e anche per questo meritevole di qualche bonaria censura), le Green Community propongono nel panorama delle politiche territoriali italiane un orizzonte di prospettiva, una immaginazione geografica, carichi di aspirazioni e portatori di aspettative decisamente elevate. Intanto quelle suggerite dal sostantivo, comunità.

Una voce che fino a non molti anni fa sarebbe parsa desueta (o almeno retorica) e che oggi occupa invece uno spazio crescente nella considerazione delle scienze sociali. Di più, che esprime plasticamente una loro aspirazione malcelata a ritrovare un nocciolo concettuale unitario che, ancora al sorgere del secolo dei lumi, prima che si rafforzasse lo status di scientificità, le accomunava sotto l’insegna delle scienze morali.

Qui più che altrove l’anglismo suscita peraltro qualche ulteriore perplessità, semantica e non solo stilistica. Nelle community siamo portati dall’uso linguistico ad individuare coalizioni effimere di interessi e di attenzioni; coalizioni che nascono, si sviluppano ed escono di scena nel tempo accelerato scandito dalla vita delle tecnologie informatiche e dei mezzi di comunicazione che le propagano. Di più, le community sembrano sottolineare una dimensione “di elezione” del raggruppamento che contrasta il carattere, sostanzialmente occasionale, che siamo soliti riconoscere (e da parte di alcuni, almeno, anche a valorizzare) delle comunità “naturali” quali sono essenzialmente le comunità territoriali (quelle della tradizione ma anche le nuove!).

Non privo di ambizioni audaci è anche l’attributo, verde. Attributo che ci conduce ad un universo ribollente e tumultuoso, portato drammaticamente alla ribalta della attualità dalle vicende del riscaldamento globale; vicende che con qualche pruderie talvolta cerchiamo di neutralizzare nella definizione più trattenuta di cambiamento climatico, definizione dalla quale sfugge la direzione, disastrosa, del cambiamento.

Green Community come declinazione territoriale di una Green Economy a cui spesso viene imputato il carattere di una operazione di facciata, green whashing? O invece occasione e strumento di radicamento territoriale di un modello di sviluppo dove la dimensione sociale e quella economica della sostenibilità accompagnano e servono una prioritaria esigenza di sostenibilità ambientale?

Tenere assieme la comunità – forma riconoscibile e circoscritta di una organizzazione sociale nella quale la concretezza e il “calore” della relazione prevalgono rispetto a principi più impersonali di utilità o di riconoscimento istituzionale – con l’orizzonte necessariamente globale della sostenibilità e delle sue culture, è poi impresa di non poco impegno.

ferdinand-tonniesgemeinschaft-und-gesellschaft-grundbegriffe-der-reinen-soziologie-achteÈ tempo di rileggere Ferdinand Tonnies?

La nuova attenzione ai nuovi percorsi dello sviluppo locale si colloca in una prospettiva nella quale le loro chanches di successo e gli stessi strumenti di intervento sono più esplicitamente legati ai luoghi: place based, come si è cominciato a dire nella stagione tormentata ma ricca di sollecitazioni della Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI). Una ripresa di attenzione alla dimensione comunitaria delle relazioni sociali cui non è estraneo lo stesso imprevisto successo registrato, dopo una lunga latenza, dalla formula delle “cooperative di comunità”. Una centratura locale che incontra la comunità su un terreno sicuramente molto fecondo ma non privo di qualche insidia.

Certo, per parlare oggi di comunità con una qualche efficacia descrittiva e, ancor più, per farlo con la pretesa di attribuire un pur minimo valore normativo alle categorie del discorso comunitario, è necessario introdurre non poche precisazioni e distinguo rispetto al canone classico. Quello che, nella lezione di Ferdinand Tonnies [3], ha fondato la sua efficacia sulla distinzione tra comunità e società, e sulla distinzione parallela che leggeva nella modernità il passaggio dallo status al contratto [4].

Al volgere del millennio, uscita con grandi aspettative – ma anche con un certo sconcerto – dalla lunga stagione del fordismo, dei suoi fasti e della sua straordinaria capacità ordinatrice, la società capitalistica, forse cullata dalla prospettiva di fine della storia [5], ha rivolto una nuova attenzione alla comunità. Una comunità che può e deve essere immaginata e rappresentata non più solo come il residuo di un ordine passato di cui si può al massimo avere nostalgia, ma come una realtà di nuovo viva nella (seconda) modernità; realtà ricca di implicazioni e di possibili progetti evolutivi [6].

Fino a configurare di nuovo la comunità come una categoria primaria del discorso politico, polo di una nuova possibile diade capace di sostituire la coppia ormai logora ma difficilmente superabile di destra/sinistra [7]. È forse venuto allora anche il tempo per una rilettura e una riconsiderazione della originaria lezione di Ferdinand Tonnies e della sua suggestiva contrapposizione tra gemeineschaft e geselleschaft [8].

91h5ceskxalOccorre intanto riconoscere che all’autore va forse un poco stretta la responsabilità di una sbrigativa attribuzione della dimensione comunitaria al retaggio di pratiche di socialità tradizionali definitivamente superate dalle pratiche  – meccaniche e impersonali – del contratto nella affermazione della modernità. Intanto perché traspare evidente in lui una tensione irrisolta che il profilo di ricerca e di azione di Ferdinand Tonnies, nella sua dimensione politica prima ancora che scientifica [9], punta a risolvere nella prospettiva di una evoluzione socialista del sistema, capace di reintrodurre il calore familiare delle relazioni di stampo comunitario nella società di una modernità più compiuta. E torniamo così, forse, alla ricerca di una fraternità dell’89, progressivamente dispersa nelle famiglie occidentali dei figli unici [10].

Più in profondità, possiamo riconsiderare il messaggio cercando di indagare nuovi depositi di significato nella coppia organico/meccanico che Tonnies associa alla coppia comunità/società, in un modo forse più diretto ed esplicito – e sicuramente più eloquente ai nostri occhi – della coppia status/ contratto [11] cui viene più usualmente associata. Se accettiamo la centralità di questa seconda associazione e se ad organico associamo la nozione della complessità come elemento distintivo che lo incorpora in un nuovo paradigma scientifico biologico/organico di cui è molto suggestivo il rispecchiamento metaforico nel campo delle scienze sociali, potremmo anche trarne una ragione nuova per interpretare il successo della dimensione comunitaria e della sua ricerca nella seconda modernità.

Una ragione che va forse rintracciata nella ricerca di nuovi orizzonti e cornici di senso nella organizzazione della vita quotidiana che ribolle in profondità nelle viscere della società contemporanea. Orizzonti più profondi e più articolati di quelli costruiti dallo scambio di prestazioni di utilità (nella sfera del mercato) e dell’esercizio di diritti (nella sfera delle relazioni istituzionali). Ricercati piuttosto nella pratica gratuita del dono.

Una pratica del dono [12] che esprime però l’esigenza di incontrare nel prossimo [13] non l’estraneo che la civiltà urbana ci consegna – che, nel suo cosmopolitismo, allontana progressivamente la triade famiglia/villaggio/ città propria della esperienza comunitaria da quella metropoli/nazione/mondo che disegna lo spazio delle relazioni societarie in Tonnies [14] – ma la persona con la quale ci si può convincere di condividere uno spazio di valori ricercato, un mondo di elezione e non solo di destino, un luogo.

71vxtok2zklI luoghi, paesaggi dell’anima

In questo essere il luogo un dato caratterizzante della comunità, il luogo attraversato dalla vita [15], possiamo leggere il complesso sedimentarsi di informazioni, vicende della storia naturale e di quella sociale, biografie e sentimenti. E ritrovarci il messaggio profondo di un paesaggio dell’anima [16] che – in questo nostro sentire – accompagna e si sovrappone al paesaggio reale e che contribuisce così a renderlo lontanissimo dalla riduzione meccanicistica alla sua visione come panorama, come immagine di cartolina.

Un paesaggio dell’anima che, soprattutto, ci avvicina ad altre persone che, come noi, traggono dal messaggio che quei luoghi ci rendono, percezioni e sentimenti non (troppo) dissimili dai nostri, convincendoci (illudendoci, forse) di appartenere ad una stessa comunità; una comunità di luogo, appunto, anche se non ad una comunità di sangue. Una comunità di luogo capace però di trasferirci inavvertitamente, come per averli introiettati con il latte materno, valori, attitudini, orientamenti, comportamenti.

Comportamenti che, proprio come quelli di una tradizione premoderna, trascendono il calcolo utilitaristico per avvolgerci in una azione collettiva, tanto più efficace e convinta quanto più profondamente si colloca alla micro-scala. Una azione collettiva dal cui calore sembrava averci separato per sempre la liberazione prometeica esercitata dall’irrompere della razionalità economica [17] nella teoria dei sentimenti morali già dal XVIII secolo. Comportamenti collettivi nei luoghi, dunque comportamenti che incorporano la complessità infinita delle relazioni che connettono gli attori nello spazio e nel tempo, nella dimensione materiale delle relazioni economiche della produzione e del consumo, come in quella della elaborazione e delle contaminazioni culturali. Pratiche sociali di connessione, contaminazione e scambio, ancorate ai luoghi ancorché capaci di trascenderne le distanze.

In questo loro ancorarsi alla materialità dei luoghi, le pratiche sociali comunitarie sembrerebbero capaci di rappresentare un contrappeso (un antidoto?) ad altre e forse più diffuse pratiche sociali. Quelle pratiche di connessione virtuale che si manifestano in un sol tempo più vicine ed immediate tanto quanto più sono impersonali e più sfumate; pratiche intimamente connesse e dipendenti dall’ingresso pervasivo delle tecnologie digitali e da una loro comune pratica ossessiva.

Una pratica sociale sui generis nella quale il chiacchiericcio diventa rumore di fondo dell’esperienza di una vita quotidiana socializzata dai media; basso continuo la cui discorde armonia insidia sempre più prepotentemente l’esercizio critico della ragione. Sino a mettere in discussione il baluardo che, nella cultura occidentale almeno, un nocciolo essenziale di introiezione profonda del principio di libero arbitrio [18] ha proposto come scudo (non sempre efficace) all’emergere delle forze telluriche che sfidano la socialità.

41c7w0xil0lPer crescere un bambino c’è bisogno di un villaggio: perché il villaggio (la comunità) cresca c’è bisogno di imparare!

In questi luoghi di una rinnovata esperienza comunitaria si intrecciano, per un momento più o meno breve (sempre più frequentemente) o per la vita intera (sempre meno frequentemente), le biografie degli individui, a formare famiglie, imprese, amicizie, amori, istituzioni.

In questi luoghi e nel fluire degli eventi che li attraversa costruiamo comunità. Comunità attraversate da un tempo ora sicuramente meno stabile di un passato nel quale il flusso degli eventi registrava e segnava l’ordinato scorrere delle relazioni comunitarie di ancien regime, ma pur sempre riconoscibile e non magmatico. Comunità che nella loro nuova modernità sempre più possiamo intravedere e intendere anche come comunità nomadi. Comunità nomadi che riconosciamo nelle motivazioni e nelle scelte insediative extraurbane dei giovani lavoratori digitali dello smart working. Comunità nomadi alle quali la lucida e autorevole visione di Luigino Bruni riconosce antecedenti illustri nella presenza antica di comunità carismatiche non monastiche, quella del Battista sul Giordano, innanzitutto [19].

Ed è a proprio queste comunità nomadi e meticce – e non ad altre, che potremmo derivare solo da una ideale rivisitazione, nostalgica e astratta, di archetipi inattuali – che possiamo e dobbiamo affidare le chance di successo delle economie locali nel loro prossimo percorso evolutivo. Un percorso che si propone in termini non certo separati e disgiunti dalle dinamiche della globalizzazione. Almeno da quelle, rivisitate in una stagione forse più temperata e meno estrema, di cui le quattro grandi crisi del nuovo secolo (climatica, economica, politica e pandemica) sembrano suggerire assieme la necessità e la possibilità.

Un proverbio africano ci dice che «per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio» e, recentemente, Giovanni Teneggi [20] ce lo ha voluto ricordare in una acuta osservazione proposta in un contesto argomentativo non dissimile da questo. Forse dobbiamo interpretare questa esigenza anche percorrendone la relazione nella direzione inversa, nella quale chi apprende non è solo il bambino ma l’intero villaggio. Un villaggio consapevolmente intriso di complessità, aperto e curioso nei confronti di una innovazione che saprà ridisegnare le proprie (?) tradizioni. Un villaggio, una comunità, che nell’esercitare una funzione educativa, imparerà esso stesso innanzitutto ad appendere. Perché anche qui, lavorando alla ri-costruzione e alla manutenzione delle relazioni sociali del vicinato e della prossimità, nella comunità territoriale del futuro, come nella fabbrica del futuro che già oggi popola l’innovazione della manifattura non fordista, learning is the work [21].

41ofh4muv3lQuante speranze possiamo riporre sulle Green Community?

Raccogliendo la sollecitazione del PNRR (piccola nelle entità delle risorse finanziarie messe in campo, ma fortemente voluta e faticosamente ottenuta dalle culture più sensibili delle rappresentanze territoriali di cui UNCEM si è fatta protagonista e portavoce), le Green Community si sono presentate nello scorso 2022 sulla scena delle politiche pubbliche con una certa esuberanza e con non poche attese.

Certo anche scontando qualche peccato originale: dall’inadeguato anglismo della propria etichetta, di cui ho avuto modo di dire, all’intenzione infelicemente espressa di «sfruttare [in modo equilibrato, sic] le risorse … di cui dispongono» [22]; una espressione che nella Legge 221 riecheggia il dettato costituzionale dell’art. 44 «Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo…» ma che certo la sensibilità politica contemporanea fatica a concedere nei termini nei quali fu concessa quella espressione a Meuccio Ruini dai padri costituenti [23]. Peccati veniali, a mio parere.

Qualche preoccupazione maggiore potremmo forse averla per il modo arrembante con cui la nuova figura delle Comunità Verdi è discesa in campo nella occasione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Un Piano blindato con i suoi target e le sue milestones scritti nella pietra dell’accordo con le istituzioni europee; quasi a voler fare da contrappeso alla inattesa (e straordinaria) apertura di credito rivolta al nostro Paese nell’occasione della Pandemia nonostante le non poche fragilità delle performance amministrative mostrate dal nostro Paese nella attuazione della programmazione comunitaria.

L’effetto principale che questa rigidità imposta dal contesto – e dalla sua traduzione operativa nei principi di ortodossia contabile delle nostrane vestali del Tesoro – lo abbiamo sin qui verificato nel carattere volutamene a-valutativo della procedura di selezione. Un modello di “valutazione aritmetica” che si è limitato all’esercizio di far di conto (quanti sono i Comuni associati? Quante sono le aree tematiche affrontate dal programma? …) evitando con cura di esprimere ogni valutazione di merito sulla consistenza e la presumibile efficacia dei programmi. La mia personale e parzialissima esperienza ha registrato una quasi perfetta correlazione inversa tra il punteggio attribuito alle diverse candidature e la (percezione, la mia, soggettiva ma non priva di qualche esperienza, della) qualità intrinseca dei programmi.

Se si andrà avanti, come in molti speriamo e come qualche segnale che viene dai piani alti della Amministrazione – centrale e regionale [24] – sembrerebbe volerci far credere, questa piccola miopia non imporrà gravi limitazioni e potrà consentire di migliorare in progress l’efficacia della azione di pianificazione. Qualche passo avanti bisognerà però farlo, in termini concettuali, nell’immaginare percorsi di costruzione delle Comunità Verdi che diano un po’ meno peso al valore taumaturgico della costruzione di infrastrutture ambientali che troppo rischiano di rappresentare solo una mano di vernice su una tradizione inveterata di investimenti in opere pubbliche che ha fatto il suo tempo, e qualche maggiore attenzione la destinino a operazioni di “community building” – tanto per non rinunciare agli anglismi – e alla costruzione di meccanismi e reti di tenuta della coesione comunitaria.

Una attenzione, anche questa, che occorre evitare di ritualizzare nell’esercizio formale di percorsi di ascolto e di partecipazione che – da soli – rischiano di intercettare frazioni modeste – e deformate – degli attori locali e dei loro sentimenti. Piuttosto investendo su quel formidabile vettore di socializzazione che è – o può essere – la scuola.

fg9hdx_wqaanqmoSempre più insistentemente, nella mia esperienza di frequentazione delle Montagne italiane, ho avvertito l’esigenza di portare strategie e programmi a misurarsi con il confronto non solo tra culture, ma addirittura tra antropologie tra diverse. Il confronto, per dirne una, tra la dimensione “proprietaria” dello spazio delle tradizionali utilizzazioni agro-silvo-pastorali, non troppo ben disposte ad accogliere la “intrusione” di frequentatori per i quali lo spazio è invece palestra delle proprie abilità e attività; luogo del consumo di servizi che l’ambiente sembra fornire naturalmente e non invece, come per i primi è chiaro, attraverso una produzione che impone fatiche e disagi nella cura di coltivazioni ed armenti. Conflitti in cui sono in gioco la percorribilità e l’integrità dei sentieri come la tranquillità indisturbata del pascolo e, in ultima istanza la diversa contabilizzazione dello sforzo muscolare e dello stress climatico, costo per gli uni e invece retribuzione, risultato atteso, per gli altri.

Il confronto necessario è anche quello tra i diversi orizzonti generazionali e, anche all’interno della medesima fascia generazionale, tra quanti affondano le proprie radici familiari nella realtà locale e quelli invece che, da residenti o da imprenditori, qui sono arrivati, attratti dalle qualità dei luoghi; spesso le qualità impersonali dell’ambiente naturale prima e assai più di quelle della società/comunità locale; qualità che per essere percepite e apprezzate, richiedono una relazione più complessa e impegnativa.

Per non diventare scontro e conflitto, il confronto deve metabolizzare le ragioni degli altri e, assieme, assumere la prospettiva di uno scambio utile e possibile di valori tangibili e intangibili. Uno scambio nel quale i frequentatori dell’outdoor recreation diventano i clienti dei prodotti tipici e dei servizi di accoglienza della società locale mentre i gestori delle attività primarie sono riconosciuti come gli essenziali riproduttori e manutentori di un paesaggio che della qualità ambientale percepita nella fruizione è componente e ragione certo non secondaria.

Se c’è un luogo deputato a ricucire questa faglia, questo luogo è la scuola, non solo per le nuove generazioni che, frequentandola fanno esperienza dell’essere comunità, ma anche per i genitori che attorno ad essa si incontrano e, ancora, anche oltre gli interessi personali immediatamente in gioco, per l’intera comunità alla quale, in tempi di crisi profonda di molte agenzie formative compete una responsabilità più diretta del processo educativo. Ci torneremo.

Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
Note
[1] Il convegno “La nuova centralità della montagna”, tenuto a Camaldoli (AR) l‘8 e il 9 novembre 2019,  è stato promosso dalla Società dei Territorialisti con la collaborazione di numerose associazioni culturali e istituzioni tanto delle Alpi che degli Appennini: Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Convenzione delle Alpi, Symbola, tsm|step Scuola per il Governo del Territorio e del Paesaggio, SISEF, FAI, Legambiente, CIPRA Italia, DIST PoliTo, Dislivelli, Rete Montagna, Mountain Wilderness, UNCEM, IAM-PoliTo, Unimont – Progetto Italian Mountain Lab, AASTER, AGEI, Archivio O. Piacentini, CAI Comitato scientifico, Carta dell’Appennino, Centro Studi Valle Imagna, Fondazione Franco Demarchi, Eurac Research, Fondazione Nuto Revelli, IRES Piemonte, AISRe, NEMO, SNAI Comitato Scientifico, Accademia delle Alte Terre, ArIA – Centro di Ricerca per le Aree Interne e gli Appennini – Università del Molise, Ecomuseo del Casentino, Ecomuseo delle Alpi Apuane, Alleanza mondiale per il paesaggio terrazzato, Fondazione Comelico Dolomiti, Ordine degli Architetti della provincia di Arezzo.
[2]  Di comunità territoriali parlava il progetto “Per un riordino territoriale dell’Italia” della Società Geografica Italiana presentato nel 2013 nel fuoco della discussione sul riordino e la riorganizzazione dei livelli istituzionali, per identificare il livello elementare, necessariamente sovracomunale, da porre alla base della riorganizzazione dell’assetto territoriale delle istituzioni italiane
[3] Ferdinand Tonnies, Gemeineschaft und Geselleschaft; Darmstat; prima edizione 1887; trad. it Comunità e Società; Milano, Edizioni di Comunità 1963; le citazioni di seguito riportate in questo testo fanno riferimento alla traduzione inglese Community an Society di Charles P. Loomis nella edizione del 2002 curata dalle Dover Pubblications inc di New York
[4] Cfr H. J. S. Maine, Ancient law, London 1878 cit. in Ferdinand Tonnies, Community and Society, cit: 182-183
[5] Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, New York 1992, trad. it. La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992
[6]  Zygmut Bauman, Missing community, 2001; trad. it. Voglia di Comunità; Bari, Laterza 2001.
[7] Marcello Veneziani. Comunitari o liberali? La prossima Alternativa, Bari, Laterza 2006, prima edizione 1996
[8] cfr. Ferdinand Tonnies, Comunità e Società, cit
[9] Cfr. Gennaro Avallone, Comunità e Società: un classico della Sociologia, introduzione a Ferdinand Tonnies, Comunità e Società brani scelti, Ediz. Kuruminy Lecce 2009: 12 segg.
[10] Eloquenti sulla mancanza di fraternità in una società di figli unici le parole di Jane Jacobs in Dark Age Ahead, Random House New York 2004
[11] cfr. Ferdinand Tonnies, Community and Society cit: 190
[12] Jaques Godbout, Le langage du don, Montreal, Fides, 1996; trad. it.: Lo spirito del dono, Torino, Bollati Boringhieri 2002
[13] Richard Sennet, citando Emmanuel Lèvinas ricorda che «La consapevolezza degli altri diversi da se, i contatti e gli incontri con loro, costituiscono una dimensione etica che rende civile lo spazio urbano» e più oltre «….il Prossimo è una figura etica rivolta agli altri ma in definitiva incapace di capirli. Al tempo stesso non bisogna distogliere lo sguardo, indifferenti, solo perché non li si capisce E in senso ancora più ampio ciò vale per il rapporto dell’uomo con Dio. L’essere divino esiste in un universo che va al di là della comprensione della nostra esistenza» Richard Sennet, Building and dwelling: Ethics for the City, Farrar, Straus and Giroux, New York, 2018; trad. it. Costruire e abitare. Etica per la città; Milano, Feltrinelli, 2018; richiamo anche il mio L’etica della Pianificazione del territorio Cosa dobbiamo fare? in tra il Dire e il fare n. 16 giugno 2018
[14] cfr Ferdinand Tonnies, Community and Society; cit: 231
[15] Viene alla mente quel che Chistian Norberg Schultz dice a proposito del patrimonio culturale. Che, cioè, esso «modifica il significato dello spazio, trasformandolo dall’essere un sito all’essere un luogo, perché li entra in gioco la vita».  Cfr Christian Norberg Schultz Genius loci Towards a Phenomenology of Architecture nella citazione che debbo a Francesco Bandarin Urban Conservation and the End of Planninig, Planum. The Journal of Urbanism, SPECIAL ISSUE Planum Scientific Committee no. 35, Vol II/2017
[16] Giorgio Ronconi, Paesaggi interiori e paesaggi esterni in Petrarca convegno ad Arquà Petrarca del 2006; vedi anche Umberto Galimberti, Paesaggi dell’Anima; Milano, Mondadori 2007
[17] cfr. Mancur Olsen, The logic of collective action Public goods and the theory of groups Cambridge Mass. Harvard University Press; 1965 e la critica che ne fa Albert Hirshman in Exit, Voice and Loyalty; Cambridge Massachusset, Harvard University Press 1970;
[18] cfr. Ernest Junger, Der gordische Knoten, con Carl Schmitt, 1953; trad. it   Il nodo di Gordio Milano, Adelphi 2023: 77
[19] «E diversamente da quanto avveniva nella contemporanea comunità essena stanziale di Qumran, presso il Mar morto (di cui ci è pervenuta la Regola), costruita attorno a norme di vita comune molto precise e strette, il movimento di Giovanni era una realtà fluida, nomade, provvisoria…» Luigino Bruni, La Comunità fragile, Città Nuova Roma, 2022:18
[20] Teneggi Giovanni [2020], L’opera e il tempo dei sistemi territoriali in Pandora Rivista 2 maggio 2020 https://www.pandorarivista.it/articoli/l-opera-e-il-tempo-dei-sistemi-territoriali/
[21] Cfr. Michael Fullan, Leading in a culture of Change; John Whiley & Sons, New York 2020.Art.72 2° comma Legge 28 dicembre 2015 n. 221 «La strategia nazionale di cui al comma 1 individua il valore dei territori rurali e  di  montagna  che  intendono  sfruttare  in  modo equilibrato le risorse principali di cui dispongono, tra cui in primo luogo  acqua,  boschi  e  paesaggio,  e  aprire  un  nuovo   rapporto sussidiario e di scambio con le comunità urbane e metropolitane,  in modo da poter impostare, nella fase della green economy, un piano  di sviluppo  sostenibile  non  solo  dal  punto  di  vista   energetico, ambientale ed economico nei seguenti campi: …..».
[22] Art.72 2° comma Legge 28 dicembre 2015 n. 221 «La strategia nazionale di cui al comma 1 individua il valore dei territori rurali e  di  montagna  che  intendono  sfruttare  in  modo equilibrato le risorse principali di cui dispongono, tra cui in primo luogo  acqua,  boschi  e  paesaggio,  e  aprire  un  nuovo   rapporto sussidiario e di scambio con le comunità urbane e metropolitane,  in modo da poter impostare, nella fase della green economy, un piano  di sviluppo  sostenibile  non  solo  dal  punto  di  vista   energetico, ambientale ed economico nei seguenti campi: …..».
[23] Cfr. Fondazione Lelio e Lisli Basso, La via alla politica. Lelio Basso, Ugo La Malfa, Meuccio Ruini protagonisti della Costituente, a cura di Giancarlo Monina, Milano, Franco Angeli, 1999.
[24] In particolare merita di essere segnalata l’iniziativa della Regione Piemonte per una nuova “Strategia della Montagna” che non fa mistero di voler dar seguito alla politica per le Green Community. vedi https://www.ires.piemonte.it/index.php/news/244-2022/1253-verso-la-strategia-per-le-montagne-del-piemonte 

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Giampiero Lupatelli, economista territoriale, laureato nel 1978 in Economia e Commercio all’Università di Ancona studiando con Giorgio Fuà e Massimo Paci, dal 1977 opera nell’ambito della Cooperativa Architetti e Ingegneri di Reggio Emilia (CAIRE) dove si è occupato di pianificazione strategica e territoriale concentrando la sua attenzione sui temi della rigenerazione urbana e dello sviluppo locale delle aree interne e montane. Ha collaborato con Osvaldo Piacentini e Ugo Baldini nella direzione di importanti piani e progetti territoriali di rilievo nazionale e regionale. È Vice-Presidente di CAIRE Consorzio, fondatore dell’Archivio Osvaldo Piacentini per cui è direttore della Rivista “Tra il Dire e il Fare”, componente del Tavolo Tecnico Scientifico per la Montagna presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, membro del comitato scientifico della Fondazione Montagne Italia, della Fondazione Symbola e del Progetto Alpe del FAI, oltre che del Comitato di Sorveglianza di Rete Rurale Nazionale. Ha recentemente pubblicato il volume Fragili e Antifragili. Territori, Economie e Istituzioni al tempo del Coronavirus, per i tipi di Rubbettino editore.

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