di Chiara Brambilla
Dal 14 al 17 dicembre 2017 si è tenuta – presso l’Università di Catania – la quinta edizione del Convegno Nazionale della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA) sul tema “Collaborazione e mutualismo. Pratiche trasformative in tempi di crisi” [1]. Il Convegno ha previsto un’importante novità rispetto alle edizioni precedenti: accanto all’organizzazione di sessioni tematiche (panel) con la presentazione di “tradizionali” contributi scientifici, sono stati previsti laboratori pratici (workshop) finalizzati a valorizzare le possibilità applicative della disciplina antropologica di fuori dal contesto prettamente accademico. I laboratori pratici – a differenza delle sessioni tematiche, in cui i risultati di ricerca raggiunti sono stati presentati in modo frontale ai propri colleghi accademici – si sono proposti come un luogo in cui partecipare ad attività di carattere pratico-applicativo legate alla dimensione del fare e dell’esperienza, offrendosi quali occasioni di sperimentazione e generazione di conoscenza antropologica basate su un’ampia gamma di metodologie, tra cui, in particolare, quelle visuali, grafiche, acustiche e performative. Ciò con l’obiettivo di incoraggiare una dimensione collaborativa non solo tra antropologi, ma anche tra antropologi e altre figure professionali interessate (insegnanti, operatori sociali, architetti, ingegneri, artisti, attivisti …).
Workshop 3 “Confini, frontiere e migrazioni: immagini, immaginari, pratiche”
Nel programma definitivo del Convegno sono stati inclusi nove laboratori pratici, tra i quali il Workshop 3 “Confini, frontiere e migrazioni: immagini, immaginari, pratiche”. Il laboratorio si è proposto di mostrare le possibilità applicative della disciplina antropologica per la formazione di insegnanti delle scuole, di educatori in ambiti extra-scolastici e di altre figure professionali interessate (operatori sociali e culturali, mediatori, videomaker, fotografi,…) sul tema dei confini, delle frontiere e delle migrazioni. Più precisamente, il workshop è stato organizzato prevedendo la presentazione e lo svolgimento, con il gruppo dei partecipanti, di attività laboratoriali che – ideate e sperimentate durante la ricerca-azione condotta nel Progetto Europeo EUBORDERSCAPES (2012/2016, http://www.euborderscapes.eu/) nella regione di frontiera italo/tunisina, in particolare nelle città di Mazara del Vallo (Italia) e Mahdia (Tunisia), coinvolgendo bambini e ragazzi delle scuole e di alcune realtà extrascolastiche – si propongono come strumento critico per elaborare “tattiche” di collaborazione tra ricercatori, insegnanti e altre figure professionali finalizzate alla definizione di strumenti educativi virtuosi riguardo al nesso confini, frontiere e migrazioni nell’età della globalizzazione.
Le attività laboratoriali presentate, svolte e discusse nel corso del workshop sono state ideate per favorire una possibile “operazionalizzazione” della conoscenza antropologica sui temi trattati, proponendo attività che prevedessero forme di presentazione non testuali e non di taglio prettamente accademico per condividere esperienze, metodi e mezzi espressivi nell’intento di riflettere insieme sul nesso tra confini, migrazioni, identità e differenze. Lo scopo è stato quello di contribuire così alla diffusione di “buone pratiche” di educazione interculturale, mostrando la rilevanza di approcci educativi con metodi partecipativi e pragmatici (partecipazione attiva e feedback personalizzati), anche non verbali e soprattutto audio-visuali (disegno, fotografie, video, mappe) e performativi per la comunicazione e l’insegnamento delle tematiche oggetto del workshop. Facilitando la comunicazione non-accademica della conoscenza antropologica, il laboratorio si è proposto quale momento per l’elaborazione di possibilità virtuose di definizione di stili educativi sul tema trattato, che possano favorire la rivendicata riconciliazione tra ricerca accademica, scuola e altri contesti educativi extra-scolastici, penetrando in modo efficace e visibile nello spazio pubblico e nella sfera della politica.
Ciò ha offerto anche la possibilità di riflettere criticamente riguardo a strategie virtuose per superare la retorica vuota della “crisi dei migranti e dei rifugiati”, che ha prodotto la naturalizzazione e la depoliticizzazione del nesso confini-frontiere-migrazioni, segnalando un più ampio processo di depoliticizzazione che sta investendo le democrazie a livello globale. Allo stesso tempo, l’intento è stato quello di riflettere insieme riguardo a modi possibili per una ripoliticizzazione del nesso confini-frontiere-migrazioni, incoraggiando la possibilità di realizzazione di politiche innovative sul tema, che, fondate sulla condivisione e trasmissione della conoscenza antropologica, possano portare a nuove forme di cittadinanza attiva, oltre la depoliticizzazione che la retorica dello «spettacolo dei confini e delle migrazioni» alimenta (Cuttitta, 2012; De Genova, 2013). Tale retorica genera delle rappresentazioni mass-mediatiche e politiche semplificatrici della complessità storica, politica, sociale e culturale del nesso tra confini, frontiere e migrazioni.
La complessità del nesso è rimossa attraverso la rappresentazione dominante dei confini come muri, secondo i casi, materiali e visibili o simbolici e invisibili, mediante i quali trova espressione l’ossessione securitaria, troppo spesso individuata come l’unica risposta possibile per assicurare la protezione dei cittadini degli Stati europei dalla minaccia invasiva proveniente dall’altro lato del confine di volta in volta interessato. Tuttavia, come argomenta Wendy Brown (2014), l’ossessione securitaria, che la retorica dei muri alimenta, non serve a proteggere cittadini e migranti dalla violenza, ma essa stessa genera, piuttosto, violenza attraverso una spettacolarizzazione del potere che, anziché originare situazioni efficaci di diritto, produce scene di forza che mettono soggezione, fanno paura. Si origina così una politica della paura che “naturalizza” le migrazioni, privandole della loro valenza politica. Questa politica della paura si fonda sul ed è al contempo responsabile del perpetrarsi di una politica dell’esclusione che – assicurata dal rafforzamento dei confini finalizzato a produrre le migrazioni come categoria illegalizzata – trae legittimazione proprio dalle politiche di visibilizzazione che producono figurativamente e rendono visibile l’illegalità migrante attraverso lo spettacolo dei confini.
In questo quadro, il workshop si è proposto come momento per interrogarsi criticamente, sperimentare e cercare insieme strumenti, metodi e mezzi espressivi per decostruire e muovere oltre la spettacolarizzazione del nesso confini, frontiere e migrazioni, mostrando la possibilità dell’impatto sociale della ricerca antropologica su questi temi, importante per attivare processi di empowerment e advocacy tra gli attori sociali, favorendo una loro partecipazione attiva e coinvolta – un loro engagement – per il cambiamento sociale e incoraggiando così l’attualizzazione di forme alternative di partecipazione politica. Per tale via, il workshop ha proposto attività volte a mettere in relazione il livello astratto del cambiamento concettuale nell’ambito degli studi critici sulle frontiere – esplorato a livello concettuale nell’ambito della ricerca svolta nel Progetto EUBORDERSCAPES nella frontiera italo/tunisina – con il dispiegarsi, come pratica e in pratica, dei processi che interessano lo spazio di frontiera attraverso il Mediterraneo e per mezzo dei quali confini fluttuanti sono immaginati, materialmente costruiti, esperiti, vissuti, rafforzati e chiusi, ma anche attraversati, sfidati, resistiti e abitati.
L’ideazione delle attività laboratoriali nella ricerca-azione “tra” Italia e Tunisia
Durante la fase iniziale di costruzione del campo per lo studio condotto nella regione di frontiera italo/tunisina, l’interrogazione riguardo a quali potessero essere approcci e metodi di ricerca adeguati ad assolvere l’obiettivo di contribuire a superare la retorica semplicistica dello spettacolo dei confini e delle migrazioni ha portato a individuare nel lavoro con i bambini e i ragazzi di origini tunisine e non – che insieme vivono a Mazara del Vallo e “tra” Mazara e Mahdia – un potenziale virtuoso (Brambilla, 2016). In particolare, è emersa l’importanza di impostare la ricerca prevedendo approcci e metodi che permettessero di raccogliere e analizzare le percezioni, esperienze, rappresentazioni e immaginari caleidoscopici dei giovani che insieme abitano lo spazio di frontiera italo/tunisino. Inoltre, una delle priorità che ha caratterizzato l’impostazione della ricerca è stata quella di dare “visibilità pubblica” alle esperienze di questi giovani attraverso l’uso di metodi di ricerca che permettessero di restituire quanto emerso dal lavoro svolto non solo ai giovani stessi e alle loro comunità locali, ma anche di comunicare e disseminare tale conoscenza in altri contesti italiani ed europei [2]. Coinvolgere i giovani migranti di origini tunisine e non, che insieme abitano il borderscape italo/tunisino (Brambilla, 2015), rendere visibile la complessità “viva” delle loro soggettività politiche, offre, infatti, opportunità virtuose per ovviare alle «patologie dell’in/visibilità» (Borren, 2008), su cui si fonda la banalizzazione mass-mediatica dello spettacolo dei confini, riportando all’attenzione, invece, le pratiche complesse che sottendono alla sfera pubblica diasporica “tra” Italia e Tunisia, nella quale i giovani possono essere agenti attivi in una diversa immagine delle migrazioni attraverso il Mediterraneo, favorendo la possibilità che nuove forme di agency politica si attualizzino nello spazio frontiera mediterraneo.
Alla luce di queste considerazioni, sono state ideate delle attività laboratoriali – da inserirsi nel più ampio contesto della ricerca etnografica – per lavorare con i giovani in contesto scolastico ed extra-scolastico che si sono proposte come esempio di applicazione della conoscenza antropologica a fondamento della ricerca-azione, basata sulla considerazione che il processo conoscitivo è compiuto solo nel momento in cui è possibile tradurlo in azione sociale e che tale traduzione è garantita da un coinvolgimento diretto degli attori del territorio che, in diverso modo e titolo, pensano, agiscono e abitano, nel nostro caso specifico, la frontiera italo/tunisina.
Più precisamente, le attività laboratoriali con i giovani nell’ambito della ricerca-azione hanno previsto l’utilizzo di approcci e metodi propri dell’antropologia visuale applicata. L’attenzione alla dimensione visuale della ricerca antropologica applicata si è dimostrata particolarmente utile per soddisfare gli scopi specifici della ricerca-azione volta all’elaborazione di tattiche e strumenti per superare le semplificazioni mass-mediatiche proposte dalla dominante spettacolarizzazione del nesso confini-frontiere-migrazioni nel Mediterraneo. Ciò evidenziando, allo stesso tempo, il potenziale dei metodi e dei mezzi espressivi visuali per l’elaborazione di un’antropologia pubblica capace di conciliare ricerca accademica e intervento sociale (Pink, 2007). Questo tipo di lavoro può facilitare, infatti, la creazione di una forma di antropologia pubblica, attraverso la quale la conoscenza condivisa tra antropologi e partecipanti alla ricerca trova espressione, consentendo così agli antropologi di avere possibilità nuove di rappresentazione delle conoscenze dei partecipanti, creando, allo stesso tempo, delle opportunità affinché attori sociali, le cui voci rimangono spesso inascoltate nei domini pubblici, possano esprimere le loro esperienze del nesso complesso tra confini, frontiere e migrazioni. In questo quadro, le attività laboratoriali sono state ideate mettendo in relazione gli approcci dell’antropologia visuale applicata con l’approccio fenomenologico proposto da Tim Ingold (2000) e, in particolare, con il ruolo rilevante che le immagini ricoprono nel determinare i modi in cui ognuno percepisce, esperisce e rappresenta i luoghi che abita (Ingold, 2010).
In quest’ottica, i laboratori hanno favorito l’impiego di approcci e metodi estetici narrativi e visuali (auto-fotografia, brainstorming e disegno, foto-elicitazione, mappe partecipative e contro-mappe, video), così da incoraggiare la capacità di espressione dei giovani attraverso forme narrative visive per raccontarsi e raccontare la loro relazione con il borderscape italo/tunisino, recuperando all’attenzione la rilevanza della loro immaginazione. Particolare importanza ha avuto il metodo videografico. Le attività con i ragazzi sono state filmate e incluse nel film documentario “Houdoud al bahr | I confini del mare: Mazara – Mahdia” (60’, Italia, 2015) e i ragazzi stessi hanno girato parte delle immagini [3]. Il metodo videografico e gli altri metodi visivi impiegati sono stati intesi non solo come strumenti estetici, ma anche analitici e comunicativi, utili non solo per descrivere visualmente discorsi e pratiche sociali, ma anche per favorire una migliore comprensione dei modi in cui lo spazio di frontiera è costruito, percepito, interpretato e rappresentato da chi lo abita.
I metodi estetici narrativi e visuali adottati hanno permesso di interrogare la tensione tra immagini mass-mediatiche dominanti proposte dalla retorica dello spettacolo dei confini e delle migrazioni e immagini del quotidiano, che emergono dall’abitare e dall’agire quotidianamente il borderscape italo/tunisino da parte dei giovani, attraverso il loro esser-ci. I metodi visuali impiegati nel corso dei laboratori sono stati altresì connotati da un approccio collaborativo, partecipativo e pragmatico alla ricerca, in accordo al quale si è privilegiata la centralità del processo piuttosto che la valenza estetica dei prodotti. I laboratori si sono proposti, infatti, di affrontare con i ragazzi il tema, rilevante e al contempo delicato, dei confini e delle migrazioni proponendo attività incentrate sugli immaginari e le immagini attraverso le quali l’idea di confine è presentata nei discorsi mass-mediatici e politici e permettendo, al contempo, di far emergere e raccontare quali sono i personali immaginari di confine dei ragazzi, quali sono le immagini attraverso le quali volessero descrivere le loro idee di confine. Nel dialogare con i ragazzi, i laboratori si sono proposti anche di riflettere riguardo a come loro vorrebbero che i confini fossero, discutendo insieme su quali fossero le mancanze che avvertono, quali gli aspetti negativi, provando ad avanzare insieme possibili soluzioni per risolverle in futuro.
Lo svolgimento delle attività laboratoriali durante il workshop a Catania
Il Workshop 3 “Confini, frontiere e migrazioni: immagini, immaginari, pratiche” nell’ambito del Convegno SIAA di Catania si è proposto di presentare e discutere insieme ai partecipanti l’utilità degli approcci e dei metodi verbali, audio-visuali, partecipativi e pragmatici – sperimentati durante la ricerca-azione svolta nel Progetto EUBORDERSCAPES nella regione di frontiera italo/tunisina – per l’elaborazione di approcci educativi virtuosi riguardo al nesso confini-frontiere-migrazioni. L’eterogeneità del gruppo dei partecipanti – composto da insegnanti delle scuole medie, operatori sociali, educatori, antropologi professionisti, dottorandi e studenti di corsi di laurea specialistica – ha permesso, nel confronto tra le loro rispettive specificità e diversità, un dialogo e uno scambio molto interessante sui temi oggetto del workshop. In particolare, durante il workshop, organizzato in due sessioni ciascuna di due ore, dopo una breve introduzione e presentazione, si è previsto lo svolgimento con il gruppo dei partecipanti di alcune delle attività laboratoriali sperimentate nell’ambito della ricerca-azione “tra” Italia e Tunisia.
Più precisamente, nella prima sessione del Workshop si è proceduto alla visione del film documentario “Houdoud al bahr | I confini del mare: Mazara – Mahdia”, seguita da una discussione sul potenziale del documentario come strumento educativo sui temi oggetto del laboratorio, anche a partire dal riferimento all’esperienza di realizzazione del film nell’ambito della ricerca-azione nella frontiera italo/tunisina. La visione del film documentario proposto, risultato di una pluriennale ricerca condotta sul campo, è stata considerata, nella discussione, un’opportunità per riflettere, di là dagli stereotipi, su storie di migrazione, storie di frontiere e attraversamenti, a partire da un incontro, mediato dalla telecamera e dalla regia, con oggetti, voci, suoni e immagini altrimenti inaccessibili ai partecipanti al workshop. La proiezione del documentario durante laboratori didattici sul tema dei confini, delle frontiere e delle migrazioni in ambito scolastico così come anche extra-scolastico è stata definita come un’opportunità offerta ai ragazzi di costruire un altro punto di vista, senza abbandonare il proprio, ma integrandolo e arricchendolo. In questo modo, è stata considerata la valenza del documentario non solo come prodotto della ricerca-azione, ma anche come strumento utile a comunicare e disseminare la conoscenza, cui lo studio sul campo ha portato, anche fuori dal contesto prettamente accademico, favorendone, in particolare, un impiego virtuoso in contesti educativi sul tema dei confini, delle frontiere e delle migrazioni [4].
La seconda sessione del workshop ha previsto lo svolgimento di due attività. Si è cominciato con un’attività di brainstorming, con realizzazione di un cartellone, su immaginari e pratiche riguardanti il nesso confini-frontiere-migrazioni. L’attività di brainstorming è stata strutturata a partire dalla presentazione ai partecipanti di alcune domande: Che cosa pensiamo, quando sentiamo la parola “confine” o “frontiera”? Quali parole ci vengono in mente?; Abbiamo mai visto un confine/frontiera? Se sì, dove? Quando?; Quali sentimenti/emozioni ci vengono in mente pensando a confini/frontiere?; Ci sono anche degli oggetti o degli elementi naturali che ci vengono in mente pensando a confini/frontiere?; Chi ci viene in mente quando pensiamo a confini/frontiere?; Che cosa si può fare e che cosa non si può fare in un confine/frontiera?
All’attività di brainstorming ha fatto seguito la richiesta ai partecipanti di rappresentare, attraverso un disegno, il confine/frontiera come immaginato da ciascuno. Si è chiesto, poi, a ciascun partecipante di consegnare il disegno accompagnato da un breve testo, che ne descrivesse le ragioni (anche facendo riferimento a quanto emerso nella discussione durante il brainstorming), e nel quale indicare, inoltre, il nome di un animale e di un colore, che ciascuno associasse all’idea di confine/frontiera, così da sollecitare i partecipanti a lavorare sulle metafore, facendone emergere gli immaginari.
Durante la discussione, che ha seguito l’attività di disegno, si è considerato lo specifico potenziale di questo strumento visuale rispetto ad altri metodi visuali – come, ad esempio, la fotografia e il video – nella ricerca antropologica applicata e finalizzata a riflettere sul tema degli immaginari di confine. Infatti, il disegno presenta, a differenza di altri metodi visuali, il vantaggio di poter essere separato dalle condizioni “naturali” nelle quali ciò che, in esso è rappresentato, è collocato, permettendo così di decontestualizzare e “trasportare” ciò che nel disegno è raffigurato in ambienti diversi da quelli reali, lasciando spazio a punti di vista immaginari. In altre parole, i disegni permetterebbero di presentare visualmente dei significati simbolici attribuiti ai confini, alle frontiere e alle migrazioni, rappresentando la realtà oltre il realismo, trascendendo la realtà (Afonso, 2004).
Spunti di riflessione emersi dalle attività e dalla discussione durante il workshop a Catania
La discussione finale, a chiusura delle due sessioni del workshop, ha enucleato alcuni punti di riflessione rilevanti rispetto alle specifiche finalità che il laboratorio si è posto.
Innanzitutto, si è discusso riguardo al potenziale virtuoso dei metodi, mezzi espressivi e strumenti presentati e sperimentati nel workshop per studiare, comunicare e insegnare la complessità della relazione tra confini, frontiere e migrazioni. In particolare, è stata rilevata dai partecipanti l’importanza di individuare e utilizzare metodi, mezzi espressivi e strumenti diversi, facendo attenzione, nella scelta e nella combinazione di questi, alle questioni etiche. Infatti, l’etica, tanto più nella ricerca antropologica visuale applicata, va sempre situata in modo complesso (Clark, 2012), tenendo conto di utilizzare approcci e metodi che assicurino il coinvolgimento dei partecipanti alla ricerca, di là di una loro semplice partecipazione, stimolando i partecipanti a riflettere sulle loro interpretazioni soggettive del fenomeno indagato.
In questo quadro, la discussione finale ha individuato alcuni aspetti di maggiore rilevanza da porsi al centro degli obiettivi delle attività laboratoriali presentate nell’ambito del workshop per la formazione di insegnanti delle scuole, di educatori in ambiti extra-scolastici e di altre figure professionali interessate sul tema dei confini, delle frontiere e delle migrazioni. Tali aspetti sono:
- favorire una riflessione critica a livello soggettivo e collettivo riguardo al tema dei confini, sia politico-territoriali sia simbolici, e delle migrazioni;
- contribuire all’acquisizione da parte dei partecipanti di informazioni più consapevoli a partire dai dati reali e dal confronto diretto e personale con il tema dei confini e delle migrazioni, anche a partire dalle loro storie personali;
- favorire, attraverso la riflessione riguardo agli immaginari e alle immagini di confine, l’acquisizione di strumenti (cognitivi e operativi) per la lettura critica delle rappresentazioni di sé e dell’altro, delle immagini, degli stereotipi, dei pregiudizi sedimentati nel proprio immaginario o sollecitati dalle rappresentazioni mediatiche;
- contribuire alla diffusione di “buone pratiche” di educazione interculturale, elaborando assieme ai partecipanti alle attività laboratoriali percorsi di riflessione condivisi sulle tematiche affrontate.
Affinché tali obiettivi possano essere raggiunti, la discussione tra i partecipanti al workshop, così come quanto emerso durante lo svolgimento delle attività previste, ha evidenziato l’importanza di una problematizzazione critica del nesso tra confini, frontiere e migrazioni, ripensando la frontiera non più ridotta a essere una linea statica e naturalizzata, demarcante i limiti territoriali dell’autorità e della giurisdizione politica sovrana statuale, come la sua rappresentazione cartografica l’ha imposta. Ciò mostrando, piuttosto, che la frontiera non è una geometria, ma un luogo complesso, mobile (nello spazio e nel tempo) e relazionale, uno spazio fluido attraversato da una molteplicità di negoziazioni, rivendicazioni e contro-rivendicazioni socio-culturali, politiche ed economiche, che si attualizzano a livello delle pratiche quotidiane. Occorre, allora, “umanizzare” la frontiera, imparando a guardare, ad ascoltare la pluralità di esperienze diverse che abitano e attraversano la frontiera cercando, al contempo, strategie virtuose per renderle visibili, per dar loro voce.
L’esperienza che delle frontiere si fa non è, infatti, la stessa per tutti. Vi è un’urgenza di descrivere come le esperienze plurali delle frontiere si scontrino, spesso, con le assunzioni della teoria geopolitica e con le rappresentazioni monolitiche mass-mediatiche dominanti; mostrando al contempo come la retorica e le politiche delle frontiere impattano, confliggono e sono in una relazione dinamica con la vita quotidiana, come queste retoriche e politiche sono esperite, vissute e interpretate da chi abita la frontiera. In quest’ottica, sembra importante allargare lo spettro di attori coinvolti nel pensare e agire il nesso confini-frontiere-migrazioni, coinvolgendo non solo i migranti, ma anche la società civile e chi quotidianamente abita i borderscape globali. Per tale via, sarebbe possibile far emergere la molteplicità della frontiera, che è attraversata da una pluralità di percezioni, sentimenti ed esperienze che ne fanno una risorsa di creatività politica; un margine affatto marginale.
Le possibilità applicative della conoscenza antropologica – per la formazione di insegnanti e altre figure professionali sul tema dei confini, delle frontiere e delle migrazioni al fine di elaborare strumenti educativi virtuosi su questi temi applicabili sia in ambito scolastico che extra-scolastico – offrono, quindi, l’opportunità di ripensare criticamente il nesso confini-frontiere-migrazioni. Ciò facendo spazio a immaginari di frontiera alternativi, oltre la retorica mass-mediatica della crisi e dell’emergenza, e mostrando, invece, la frontiera come uno spazio di creatività politica, dove diventa possibile elaborare una «politica della speranza», vale a dire una politica delle possibilità a-venire (Appadurai, 2014: 297-412). Auspicare a tale politica della speranza non significa affatto negare la violenza dei regimi frontalieri e delle loro imposizioni o gli impedimenti nel trovare modalità operative virtuose affinché questa politica possa essere praticata. Occorre, piuttosto e inevitabilmente, imparare a guardare in un modo nuovo agli spazi di frontiera, dove forme inedite di agency politica si originano, rivelando uno spazio di possibilità per orizzonti di speranza, attraverso i quali si afferma un nuovo immaginario del nesso confini-frontiere-migrazioni, oltre la linea a-venire. In quest’ottica, i borderscape contemporanei sono luoghi importanti da considerare per ritrovare, come argomenta Fassin (2010: 23), una politica che, richiamando la riflessione arendtiana, si fonda sulla pluralità umana come legge della terra piuttosto che sulle identità nazionali; una politica che si basa sulla reciprocità dell’essere differenti e assume la differenza a principio attraverso il quale costruire un’uguaglianza potenziale e futura, ma non utopica.