di Matteo Meschiari
Dalla Cronaca di Erfurt: «Anno Domini MCCCIV. Un ragazzo della regione di Hesse fu rapito. Questo ragazzo, come si seppe poi e come lui stesso raccontò, fu preso dai lupi all’età di tre anni, e da essi fu cresciuto in modo meraviglioso. Infatti, qualunque preda i lupi catturassero, mentre giacevano attorno a un albero, gli riservavano sempre la parte migliore. Durante il rigido inverno scavavano una buca, vi mettevano erbe e foglie, ne ponevano altre sul ragazzo, poi loro stessi si accucciavano attorno a lui, per proteggerlo dal freddo. Inoltre lo obbligavano a camminare carponi su mani e piedi e a correre con loro lungamente, e per questo egli poteva emulare la loro velocità, e sapeva compiere grandissimi balzi. Una volta catturato, legatigli dei legni al corpo, venne obbligato a camminare in posizione eretta, secondo le sembianze umane». Quella del ragazzo di Hesse è una delle più antiche attestazioni storiche di enfant sauvage dell’Europa premoderna, nota anche a Linneo, che classificò il caso come Juvenis lupinus Hassiacus, postdatando l’episodio del 1304 al 1344, anno in cui la Cronaca riporta un aneddoto analogo (o forse una variante del primo) ambientato questa volta a Wetterau. Siamo in piena crisi del Trecento, con la Grande Carestia del 1315-1317, la Rivolta dei Pastoreaux del 1320 e la Peste Nera del 1347-1351. La stessa Cronaca, del resto, è una lunga raccolta di dark gossip, una galleria di snapshot a tinte forti che registra la grande instabilità psichica e sociale dell’Europa tra XIII e XIV secolo.
Probabilmente l’episodio del ragazzo di Hesse condensa la memoria censurata di un’epoca, quando abbandonare nella selva bambini autistici, orfani o di peso per la magra economia famigliare era una pratica usuale. Certa sociologia ha visto infatti negli enfants sauvages il riflesso di una cattiva coscienza, il senso di colpa di una società che ha mancato nei suoi compiti e che, come il dottor Itard con il selvaggio Victor, abbraccia la missione illuminata di recuperare l’irrecuperabile, inventando fuori tempo massimo un’improbabile pedagogia delle masse. Ma la storia del ragazzo di Hesse è anche una perfetta mise en image di Homo sylvestris, al servizio di quella «macchina ottica» che mostra all’uomo un’alterità problematica per aiutarlo a posizionarsi rispetto a se stesso e rispetto al mondo. La Cronaca infatti continua: «Comunque sia, il ragazzo diceva spesso che se fosse stato per lui avrebbe preferito vivere con i lupi piuttosto che con gli uomini», e l’episodio si conclude raccontando come il “fenomeno” venne portato alla corte del principe Enrico di Hesse pro spectaculo, per dare spettacolo. La posizione eretta come forma corporea distintiva dell’umano (ancor più della parola), la brutale rieducazione ortopedica (che ricorda una tortura medievale) e la spettacolarizzazione finale (in un setting molto distante dal cuore degli eventi e dalla miseria che li aveva generati), sono gli elementi costitutivi dell’effetto-specchio che avrebbe dovuto portare l’uomo del Trecento a vedersi uomo in mezzo a un’umanità regredita e ferina.
Analizzando bene il racconto, si può notare che il ragazzo di Hesse è solo un manichino passivo che obbedisce al volere dei lupi prima (l’obbligo antievolutivo di andare a quattro zampe) e a quello degli uomini poi (l’obbligo pedagogico-culturale di risollevarsi alla natura umana). In altre parole incarna una pura funzione narrativa, fa da cerniera visuale tra due mondi antitetici. Quello che spicca è il richiamo della foresta, la nostalgia della vita con i lupi, che da un lato suona come una critica moraleggiante alla degradazione dei tempi (meglio lupi che non-uomini) e dall’altro incarna un clamoroso tradimento della specie, che deve diventare spettacolo, quello che Guy Debord indica come strumento di unificazione della società, e che nell’economia di una civiltà in crisi usa anche l’immagine di un ragazzo ferino per ristabilire i legami tra chi, in tempi di Bestie e di Apocalisse, decide di stare con l’Uomo. Ma la spettacolarizzazione del feral child è anche la traccia di un terzo elemento, meno evidente e altrettanto significativo, cioè la tensione nostalgica verso un mondo animale con cui un tempo esisteva un commercio più stretto, un dialogo, una pace edenica. Qualcosa che fa pensare all’intenerimento postmoderno per la vita animale, ma che ha radici molto lontane: per l’uomo del Trecento un lupo che prende in cura un bambino è un’allusione esplicita a Isaia 11, 6-9, cioè la promessa millenarista della soluzione di ogni problema, il momento della riconciliazione con il nemico atavico e anche, più in generale, la riparazione di una frattura immemoriale tra uomo e animale.
Nel combattimento finale di Avatar di James Cameron, il malvagio colonnello Quaritch apostrofa l’eroe: «Ehi, Sully, che effetto fa tradire la propria razza?». Il marine Jake Sully ha infatti rinunciato al corpo umano per abitare sempre più stabilmente un ibrido genetico alieno, barattando una vita da soldato menomato con la causa etno-ambientalista dei vigorosi nativi del pianeta Pandora. Tra un capitalismo coloniale intergalattico e l’innocenza di un popolo che vive in simbiosi ecologica con il proprio mondo, tra una cultura terrestre che avanza in sedia a rotelle e dei grifoni alieni cavalcati come protesi biologiche, la scelta è scontata. Ma alla domanda di Quaritch il Sully-alieno non sa rispondere, e reagisce con un semplice ringhio ferino. L’effetto di distanza ontologica è molto simile a quello che passa in un video dove Oxana Malaya abbaia contro il cameramen che la sta riprendendo. La bimba ucraina, gettata fuori casa dai genitori alcolizzati, pare aver vissuto il delicato periodo tra i tre e gli otto anni con un gruppo di cani, di cui ha assimilato linguaggio, abitudini e comportamento. Questo fino al 1991, quando è stata trasferita in un ricovero per malati di mente allo scopo di essere rieducata alla società civile. Quello stesso anno, proprio mentre i media “scoprivano” la ragazza-cane e il suo passato di miseria, l’Ucraina si staccava dal suo passato sovietico, dichiarava l’indipendenza ed entrava come Oxana Malaya in una stagione di nuove incertezze.
L’emergere d’icone selvatiche in momenti di crisi storica sembra una costante antropologica, dall’Egisto di Procopio nutrito da una capra durante le Guerre gotiche (535-553 d.C.) a Jean de Liège che visse nei boschi fino all’età di 21 anni durante le Guerre di religione (c.a. 1630), fino al caso arcinoto di Victor de l’Aveyron nel decennio critico che seguì la Rivoluzione francese. Dall’antichità a oggi sono stati studiati almeno 140 casi di giovani che hanno vissuto un periodo della loro vita allo stato selvatico o in condizioni d’isolamento e deprivazione sociale. Da un punto di vista strutturale le loro storie si somigliano. Molti episodi (esaminati anche da Edward Burnett Tylor e Claude Lévi-Strauss) sono stati spiegati come invenzioni o come l’esito di deficit psichici. Ma esiste un caso eloquente di Homo sapiens ferus (come li classificava Linneo) che introduce nel paesaggio un nuovo indizio. Si tratta del ragazzo-orso della Lituania, incontrato nel 1661 dall’ambasciatore olandese a Londra Van den Brande de Cleverskerk, che lo descrive in una lettera a Bernard Connor della Royal Society, e che Connor racconta a sua volta in The History of Poland in Several Letters to Persons of Quality del 1698.
Connor menziona nel suo libro altri due casi di ragazzo-orso, ma nessuno sembra avere una connessione reale e diretta con l’animale: i tre ragazzi selvaggi si muovono a quattro zampe, emettono versi simili al grugnito di un orso, uno di essi ha cicatrici sul volto che si presume siano state fatte dalle unghie dell’animale, un altro ha l’abitudine di mangiare carne cruda, pesce, miele e bacche (come gli orsi), ma non esiste un riferimento più pertinente. Solo uno di loro, addomesticato a portare acqua e legna, «non poté comunque essere convinto ad abbandonare la sua nativa selvatichezza, che mantenne fino alla fine dei suoi giorni. E per questo andava spesso nei boschi dagli orsi, e stava in libera compagnia con essi senza alcuna paura, o senza riceverne danno, essendo, come si suppone, costantemente riconosciuto da loro come figlio adottivo». Supposizioni, appunto, libere associazioni. Ma per l’Inghilterra del tempo la Polonia-Lituania era un luogo esotico ai margini del mondo civile, un’enclave primitiva e selvaggia che anche oggi alcune agenzie turistiche spacciano come “l’ultimo angolo di Wilderness in Europa”. Bisogna pensare che in Gran Bretagna l’ultimo lupo fu ucciso nel 1680, mentre gli orsi selvatici si erano estinti già prima dell’anno Mille. Fino al XIX secolo, però, in apposite arene, si praticava il bear-baiting, uno spettacolo cruento con cani da caccia che tormentavano e uccidevano un orso incatenato. Si può dunque immaginare quale effetto potesse avere sul lettore inglese la notizia di un ragazzo-orso ritrovato in una terra remota e infestata da cose selvagge: una meraviglia naturale che apriva una distanza retrospettiva sullo spazio e sul tempo. Un’immagine capace di lavorare sulle coscienze.
Il bear-baiting è infatti una traccia eloquente della spettacolarizzazione del selvatico e della sua uccisione rituale in una terra che già nel Medio Evo aveva raccolto e normalizzato in Robin Hood il Green Man e lo Spirito della Foresta di origine celtica. Altrettanto eloquente è il fatto che il bear-garden più famoso d’Inghilterra fosse situato nel Paris Garden di Londra, un’area alberata piuttosto “selvatica” che risuonava in permanenza di versi di tori, orsi, scimmie, cani e cavalli destinati agli spettacoli, in un quartiere socialmente iperattivo, pieno di arene, teatri, bordelli e sale da gioco. Alcuni ricercatori hanno insistito sul fatto che per lo spettatore elisabettiano il teatro e i giochi cruenti con animali erano eventi isomorfi, tanto che all’epoca la gente si confondeva e chiamava il Bear Garden “The Globe” e il Globe Theater “Bear-baiting”. Anche le architetture dovevano somigliarsi, ma il punto essenziale è che il pubblico era lo stesso, desideroso di misurare nella rappresentazione del dramma e della violenza il proprio grado di distanza dalla selvatichezza umana e ferina. Per la stessa ragione molti feral children sono diventati spettacolo: per il piacere misto a orrore di guardarsi nello specchio deformante del selvatico, per la nostalgia voyeuristica di un mondo lontano nel tempo e nello spazio, per rinchiudere e addomesticare l’Uomo Verde in un giardino urbano.
In Francia, tra il 1630 e il 1740, sono stati segnalati tre ragazzi selvaggi, Jean de Liège, Memmie Le Blanc e la Fillesauvage de la Forêt d’Issaux. La foresta d’Issaux e la contigua foresta d’Iraty nei Pirenei sono il teatro di dense tradizioni folkloriche basche (Baxajaun, il “Signore selvaggio”) e francesi (Jean de l’Ours, figlio di una donna e di un orso). In seguito alla massiccia deforestazione tra il XVI e il XVIII secolo erano diventate una delle ultime aree-rifugio dell’orso e del lupo. Nel 1807, a Vicdessos, sempre nei Pirenei, venne catturata una donna che qualche tempo prima era stata avvistata nuda in mezzo agli orsi. Prima di morire dopo neanche un anno di cattività, raccontò in modo stentato di essere stata un’aristocratica francese rifugiata in Spagna durante la Rivoluzione. Nel tentativo di rientrare in patria era stata attaccata e violentata da un brigante, che l’aveva lasciata nuda nella foresta, e da allora era stata accolta e protetta dagli orsi. Una storia dal sapore famigliare, dal momento che le unioni sociali e carnali tra uomini e orsi sono un tema frequente nel folklore europeo, russo ed asiatico. Ma quello che conta è che l’intensificarsi di avvistamenti e ritrovamenti di uomini selvaggi a partire dal Seicento rappresenta nella sfera dell’irrazionale e dell’inconscio un cambiamento nel modo di guardare la natura: proprio negli anni ’30 del XVII secolo Luigi XIII aveva cominciato i lavori ai Giardini di Versailles, che durarono per tutto il regno di Luigi XIV, e proprio durante il regno del Re Sole Jean-BaptisteColbert varò una riforma drastica per contrastare la decadenza delle foreste francesi. Da un lato giardini e foreste razionali dall’altro ragazzi selvaggi, da un lato Versailles decaduta dall’altro il ritratto illuminista di Victor de l’Aveyron. Spazi e antispazi (verdi) a cavallo della Rivoluzione.
Forse è così che Linneo avrebbe classificato Sujit Kumar, l’uomo-pollo delle Fiji. La sua storia non è diversa da quella di tanti bambini abbandonati a se stessi e poi ritrovati in condizioni mentali che non ci lasciano meravigliati. La differenza è nella “copertura mediatica”, perché questa volta il first contact è stato filmato. Elisabeth Clayton del Rotary Club di Suva, Fiji, sta visitando l’ospizio locale. Verso la fine della visita la donna guarda in camera e addita quali lavori di manutenzione vadano fatti. Dietro di lei, su un letto separato dagli altri, si vede un uomo seduto con le braccia raccolte contro il petto e i pugni ripiegati sotto il mento. L’uomo scruta ripetutamente la telecamera e la donna, la telecamera e la donna, con piccoli scatti della testa. Qualcosa di meccanicamente ferino, di puramente biologico, che spalanca una voragine di non-comprensione, mentre la donna ricca e illuminata traghetta nel degrado locale la propria idea di civiltà. Lei non se ne accorge, non subito, ma un momento dopo vede l’essere alle sue spalle, e possiamo supporre che qualcosa sia scattato, forse quello stesso sguardo di pietà che commuove Rousseau e Itard davanti al Selvaggio.
Difficile dirlo. Ma è il momento immediatamente precedente che conta, perché nella sua totale accidentalità è ancora in salvo dal dispositivo teatrale che organizza in materia sociale l’incontro tra due antitesi. In quella breve sequenza si assiste infatti allo spettacolo del “filosofo” che non si è mai visto “esser visto” dall’animale, quello che Derrida descrive come lo «strano istante in cui, senza accorgermene o volerlo, passivamente mi presento nudo davanti a lui, visto, e visto nudo, ancora prima di vedermi visto da un gatto». Ma qual è la nudità di Elisabeth Clayton del Rotary Club di Suva, Fiji? Probabilmente l’attimo di panico nel sentirsi sopraffatti di fronte a un abisso ontologico, il vuoto percepito come vergogna che, dopo un primo smarrimento muto, si tenta di compensare con molto agire, molto studiare, molte parole.
Infatti la veridica istoria di Sujit Kumar non è la narrazione del suo prima, cioè il nonno che, non sapendo cosa fare di lui dopo la morte dei genitori, lo ha tenuto rinchiuso in un pollaio dai tre agli otto anni, o che una volta “salvato” ne ha passati ventiquattro legato al letto di un ospizio. La vera storia è il suo dopo, quella delle prove di recupero mentale e sociale, quella del chiarimento della sua posizione biografica, clinica, neurologica e insomma tassonomica: un doppio fallimento cognitivo e ontologico, tamponato tappa dopo tappa da un meticoloso processo di distanziazione iconica. La Signora delle Immagini è ovviamente la scopritrice e guardiana dell’uomo-pollo, Elisabeth Clayton, una laurea in scienze del comportamento, cristiana devota dopo la morte sull’Everest del marito, fondatrice di The Happy Home Trust per bambini disagiati. Leggendo il racconto della donna sul primo incontro, colpiscono due termini insistenti, che sembrano perimetrare la sua impressione emotiva: sikness e disgust, nausea, disgusto, per lo sporco, per le feci con cui l’uomo giocava. Di qui una slavina di domande che travolge Elisabeth, che lei compulsivamente trascrive e a cui tenterà di rispondere negli anni successivi. Di qui l’accanimento fisico con logopedisti e psichiatri infantili, o i video e gli album fotografici di Sujit sul sito, su youtube, su facebook, come uno storyboard in attesa di un reality o di un TV movie. Fino all’icona finale, il sigillo F.C.C. (Feral Child Certified): il gheriglio di noce del suo cervello nell’ex voto in scala di grigio di una risonanza magnetica. Niente di anomalo da segnalare. Allora una fuga vertiginosa frame dopo frame da quel primo disgusto, da quelle feci che l’uomo-pollo, non poteva, non doveva aver mangiato («Please no, thiscan’t be happening»)… Umanitarismo di lusso, vuoto d’affetto, maternità in menopausa, oppure carità cristiana, compassione sincera, dolorosa pietà. Ma soprattutto orrore, per quello che noi potremmo essere, per quello che invariabilmente siamo quando qualcosa s’inceppa nella macchina antropologica.
Bisogna chiedersi perché Linneo abbia voluto scavare una nicchia a parte per Homo sapiens ferus, tradendo così il fatto che la sua grande tassonomia razionale era in realtà una folktaxonomy euroccidentale in cui mente scientifica e mente mitopoietica erano (e sono) intimamente legate. Il neoilluminismo contemporaneo si traveste da neuroscienza, ma continua a mancare il bersaglio: tra Wunderkammer sociale e camera obscura esorcizzante, gli enfants sauvages sono tracce di un esercizio della distanza visuale come condizione indispensabile della ragione mediatica. L’insistere narrativo, per ognuno dei 140 casi di ragazzi selvaggi, sull’allontanamento (necessario) dal vissuto ferino e sul riaddomesticamento (biopolitico) della deviazione, distolgono lo sguardo dall’essenziale: le icone selvatiche non sono una reazione anomala, sono parti emerse del sistema spettacolare che garantisce, perpetua, giustifica e illustra la separazione di un “noi” da un “loro”. Quello che fanno queste icone è mantenere il dislivello, il loro scopo non è la resistenza, ma la quiescenza, l’abbandono, e in quanto forme di autorappresentazione litotica dei buoni e dei giusti (“non siamo mica selvaggi noi!”) lavorano per una scienza del dominio.
Bisogna capirlo. Non è più il rassicurante carnevale bachtiniano o l’energia centrifuga reincanalata in uno spazio striato. È l’invenzione di uno spazio cieco in cui il senso di vuoto e il vuoto di senso portano a consacrare il meno peggio e lo status quo. In questo spazio di astensione, in questa filza d’intervalli, galleggiano immagini di pura contemplazione, dove non resta più niente del valore vissuto. Allontanate dallo spazio selvatico, rieducate con armature di legno, raddrizzate dalla logopedia del potere nella loro trivialità di vita allo stato puro, sono solo l’Altrove, la Restaurazione, la Stabulazione finale. Warburg parlava di crisi della distanza e affermava una filosofia della civiltà che voleva contrastarne l’annullamento, ma il problema contrario, cioè l’eccesso di distanza connaturato alle immagini di separazione, alle immagini-dominio, era là molto prima dei cavi elettrici sulla testa dello Zio Sam. Sujit Kumar di Suva, l’uomo-pollo delle Fiji, e Sujit Kumar di Varanasi, la star di Bollywood, non sono legati solo da un nome. Entrambi sono merce, nel senso metafisico del termine.
Dialoghi Mediterranei, n.14, luglio 2015
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Matteo Meschiari, ricercatore confermato in Discipline demoetnoantropologiche all’Università di Palermo. Ha scritto Sistemi selvaggi. Antropologia del paesaggio scritto (Sellerio 2008), Dino Campana. Formazione del paesaggio (Liguori 2008), Terra sapiens. Antropologie del paesaggio (Sellerio 2010), Nati dalle colline. Percorsi di etnoecologia (Liguori 2010), Spazi Uniti d’America. Etnografia di un immaginario (Quodlibet 2012), Uccidere spazi. Microanalisi della corrida (Quodlibet 2013), Less is Home. Antropologie dello spazio domestico (Compositori 2014), Geofanie. La Terra postmoderna (Aracne 2015). L’antropologia dei mondi contemporanei, la geografia umana e l’ecologia culturale sono i temi al centro della sua scrittura. L’autore modera il blog http://pleistocity. blogspot.it.
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