Stampa Articolo

Storia e antropologia: un gemellaggio necessario

il-lato-sinistro-cover-2020di Mariano  Fresta

Gli studi antropologici possono ricevere preziosi contributi da quelli storici specie se questi non si limitano ad indagare soltanto le vicende politiche, militari e diplomatiche, ma si occupano anche della cultura e della mentalità di una società. Fortunatamente nell’ultimo secolo la storiografia è stata capace di svolgere analisi molto profonde in tal senso, perché si è servita di fonti come i memoriali, i diari, la letteratura di massa, i comportamenti di singole persone e di collettività, di usanze e costumi, e di tanti altri elementi precedentemente ritenuti privi di rilevanza documentaria. L’antropologia, viceversa, che per statuto ha il compito di indagare su tutti questi aspetti, negli ultimi decenni ha in buona parte smesso di collegarli alle vicende più specificatamente storiche, preferendo analizzare i fenomeni decontestualizzati, come se si verificassero e vivessero al di fuori di un qualsiasi sistema economico e sociale e non fossero oggetti e comportamenti nati per soddisfare ambizioni politiche e di potere o per necessità strutturali delle società  o per bisogni intellettuali di singoli e di collettività.

Tanto per chiarire il mio pensiero, ritengo che l’antropologia, specie in questi tempi di grave crisi, non possa essere “neutrale”, non possa essere come quella descritta e suggerita nel volume di M. Engelke, Pensare come antropologo (Einaudi, Torino 2018), dove si discute di tutto ma non si accenna mai alle condizioni materiali di vita degli uomini.

La lettura del libro di Adriano Prosperi, Il lato sinistro (Mauvais Livres, Roma 2021), pertanto, mi è stata di grande conforto, in quanto, pur essendo un’opera di uno storico che tratta di vicende proprie della sua disciplina, contiene molte considerazioni antropologiche e molte precisazioni che aiutano ad illuminare significativi aspetti della mentalità dei secoli scorsi, alcuni dei quali si sono protratti fino ai nostri giorni e che fino a pochi decenni fa abbiamo chiamato, genericamente, tradizioni popolari.

Il libro, che contiene diversi testi apparsi in riviste e volumi collettanei (qualcuno anche inedito), si apre con una lettera mai pubblicata ed indirizzata a Paolo Flores d’Arcais, direttore della rivista Micromega, intitolata La mia liberazione. Si tratta di pagine autobiografiche che parlano dell’esperienza che l’autore visse da ragazzo negli anni della guerra e della Resistenza, ma è anche la rielaborazione storica, filosofica e morale di quell’esperienza che a tutt’oggi gli fornisce i parametri per valutare le vicende odierne e la bussola per orientare la sua vita e i suoi studi. Il tutto esposto con una prosa meditata e dallo straordinario nitore linguistico.

Seguono poi ben dodici saggi di vari argomenti e due appendici: si va dalla festa del 1° maggio al significato antropologico del battesimo cristiano, alla peste raccontata dal Manzoni, dall’antropologia della morte discussa in vari modi alle questioni che Robert Hertz pone nelle sue opere. Premetto che nel recensire il volume privilegerò i temi antropologici, lasciando agli storici il compito di occuparsi degli altri.

Apre il volume il saggio La Pasqua dei lavoratori. Sulla “preistoria” del Primo Maggio; si tratta di un excursus sulla Festa dei Lavoratori, su come e quando  è stata istituita, sulle commistioni che, durante gli anni della sua esistenza, si sono verificate con altre feste, sia quelle di origine cattolica, sia quelle similari dell’ambiente operaio e soprattutto quegli antichi riti della fertilità di lunga tradizione contadina, come il Maggio o Maggiolata, rintracciati questi ultimi nel folklore odierno e in documenti cinquecenteschi  che sono stati attentamente studiati ed esaminati. È un testo in cui l’indagine antropologica va di pari passo con quella storica e dalla quale emergono numerose testimonianze di una festa agraria che segnalano la forza e il vigore di riti così profondamente radicati nella cultura contadina da resistere per secoli alle condanne di natura religiosa e all’azione erosiva dovuta all’evoluzione della società e alle trasformazioni tecniche e tecnologiche che hanno investito nel corso dell’ultimo secolo il mondo agricolo.

galileo-di-fronte-al-santuffizio-dipinto-di-joseph-nicolas-robert-fleury

Galileo di fronte al Santo Uffizio, di Joseph Nicolas Robert-Fleury, 1847

Il capitolo sui Processi a Galileo riguarda, invece, più la disciplina storica che l’antropologia: qui siamo in presenza di una dettagliata analisi di tutte le contraddizioni e le aporie presenti nei due processi intentati dal S. Uffizio a Galilei (quello del 1616 e quello del 1633; per gli inquirenti si trattava, però, di un unico procedimento, malgrado gli anni trascorsi e le modifiche alle imputazioni). Lo storico non fornisce soluzioni, per mancanza di sufficiente dati d’archivio, ma ci dà una puntuale e lucida esposizione delle questioni.

Col capitolo Battesimo ed identità cristiana nella prima età moderna, gli aspetti antropologici, sempre sorretti da una sostanziosa documentazione storica, assumono maggiore rilevanza. Il battesimo, secondo il cristianesimo, infonde nel corpo un’anima, trasforma l’uomo in un essere destinato alla vita eterna, gli dà un’identità e una dignità, lo fa diventare “persona” in possesso di diritti che il semplice genoma non può fornire: esso equivale ad una seconda nascita ma questa volta solo spirituale. Per questi motivi ha assorbito una variegata carica di significati intorno ai quali sono sorte discussioni dottrinarie, polemiche violente tra Cattolici e Protestanti, nonché complesse elaborazioni di riti e cerimonie che, originariamente nati come forme inalterabili, si sono poi dovuti modificare con l’evoluzione storica. Soprattutto il rito del battesimo e la sua celebrazione hanno generato molti elementi che si sono manifestati sia nella cultura popolare come superstizioni legate alla nascita, considerata come uno dei passaggi del ciclo della vita, sia nel vasto corollario dei tipi di padrinaggio e di comparaggio, sia nella scelta del nome del bambino e nella conseguente trasmissione dei nomi familiari.

Tra l’altro, proprio sull’imposizione dei nomi si svolse una dura battaglia tra Cattolici e Protestanti: i primi preferivano i nomi dei santi cristiani, gli altri proponevano i nomi rintracciabili nelle pagine della Bibbia, opponendosi, specie i calvinisti, con severo rigore all’antroponimia cattolica. Anche il padrinaggio ebbe effetti molto durevoli nel comportamento sociale dei credenti: il Concilio di Trento, definendo il battesimo come nascita spirituale impose al padrino e alla madrina il divieto di sposarsi tra di loro, come se attraverso il padrinaggio avessero contratto una parentela di sangue. Questo presunto legame spirituale è stato usato in tempi recenti come un fattore di coesione tra i membri di consorterie mafiose e di gruppi criminali, presso i quali il comparaggio costituisce un vincolo primario.

Il battesimo voleva dire anche possibilità di un conteggio dei membri delle comunità mediante la tenuta di registri parrocchiali, diventati nelle mani degli storici importanti fonti storiche perché, oltre a fornirci i patrimoni onomastici di certe zone, ci danno notizie anche sui genitori, sulla parentela e sui padrini del bambino battezzato. Con i registri battesimali le persone acquisiscono pertanto il diritto alla memoria storica e, da parte loro, gli Stati hanno la possibilità di conoscere l’entità della propria popolazione, in modo da poter organizzare il sistema fiscale, quello burocratico, nonché quello militare.

La scelta del nome spesso non era una questione riguardante i singoli: nelle colonie latino-americane, per esempio, il nome cattolico era imposto alle popolazioni indigene dai dominatori per costringerli ad acquisire una nuova nazionalità e un’altra lingua, con la perdita ovviamente di quelle precedenti. La scelta del nome, quindi, in certe occasioni significava manifestare la propria appartenenza ad una Nazione oltre che ad una fede.

Durante i secoli 1500/1600, tuttavia, si preferì trasmettere ai neonati i nomi degli antenati, quasi a voler costituire una stirpe, una famiglia da poter rappresentare in un albero genealogico. I modi con cui i nomi venivano imposti appartengono ad un altro settore importante dell’antropologia, perché i sistemi antroponimici ci spiegano aspetti particolari della cultura e delle mode di un certo periodo, perché ci parlano di strategie familiari e sociali.

La divisione rigorosa del mondo dell’aldilà dei cattolici (Paradiso, Purgatorio ed Inferno), aveva sue norme precise: chi era stato battezzato dopo la morte poteva accedere ad uno di quei luoghi; chi invece non aveva ricevuto il sacramento ne era escluso e gli era vietata perfino la sepoltura nei cimiteri. Il problema assumeva aspetti particolarmente gravi in una società in cui la mortalità infantile era molto diffusa: qui numerosi bambini morti prima del battesimo erano considerati inesistenti, come se non fossero mai vissuti. La Chiesa sembra essere stata in questi casi meno pietosa di Dante, che si era inventato il Limbo (sempre però collocato nei pressi dell’Inferno), in quanto essa non riconosceva loro nessun diritto ad avere riti funebri e, spesse volte, anche bambini di cinque/sette anni non battezzati finivano sepolti in un campo qualsiasi, in una fossa anonima. Nacque così il fenomeno del répit, della “resurrezione provvisoria”: si trovavano sempre persone disposte a testimoniare che il bambino era «resuscitato», giusto per il tempo necessario a ricevere il sacramento. Così è stato possibile per molti bambini, nati morti o deceduti appena dopo la nascita, essere sepolti in terra consacrata.

Queste pagine sui bambini morti senza essere stati prima battezzati e sul répit assumono oggi un’attualità scottante, dal momento che da anni è in corso, in Italia, una vivace polemica politica e filosofica sui problemi dell’aborto (quando il feto diventa “persona”?), sulla maternità assistita e perfino sulle unioni tra omosessuali. È uno dei motivi per cui ritengo che l’antropologia debba fare i conti con la storia e soprattutto con le reali condizioni di vita delle comunità che si vogliono studiare, anche quando gli oggetti dell’indagine appartengono al nostro tempo.

Pagine molto importanti, che toccano anche dibattiti odierni, Prosperi scrive sulla tortura, reato che il Parlamento italiano non ha ancora voluto inserire nel codice penale. Il saggio si apre con la testimonianza di J. Améry (un tedesco che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, preferì anagrammare il suo cognome che originariamente era Mayer), che era stato torturato ad Auschwitz e che su quell’esperienza scrisse un libro spiegando quale dolore fisico e quale degrado psicologico procuri la tortura. Dopodiché l’Autore prosegue esaminando altre testimonianze di epoca più antica. La sua conclusione è che gli inquisitori dei secoli precedenti, diversamente di quelli moderni, erano ossessionati dalla ricerca della verità, per ottenere la quale ricorrevano alla tortura, insensibili allo strazio delle vittime.

storia-della-colonna-infame-183588Ma già nel corso del 1700 cominciavano a levarsi voci contro questa orribile pratica; tra i più autorevoli oppositori ci fu Pietro Verri che si occupò del famigerato processo contro i presunti untori della peste del 1630 e durante il quale gli inquisitori ricorsero alla tortura malgrado fosse evidente che i due principali imputati erano del tutto innocenti. Diversi decenni dopo, anche Alessandro Manzoni si occupò dello stesso processo, nell’opera Storia della colonna infame, arrivando a conclusioni diverse di quelle del Verri: questi ritenne che i due infelici furono torturati e uccisi perché erano in vigore norme penali antiquate ed ingiuste; per il Manzoni, invece, non si era trattato solo di leggi sbagliate o ingiuste, ma soprattutto della disonestà dei giudici che, pur accorgendosi dell’innocenza degli imputati, continuarono a processarli (e a torturarli) fino alla condanna. A questa opinione lo scrittore poté giungere perché, come suggerisce Prosperi, poteva valutare, essendone a conoscenza, due fattori esterni che influirono sul processo: siccome tra i presunti imputati del complotto c’era il figlio del governatore spagnolo, se al processo si fosse dimostrata la veridicità dell’accusa, il potere degli occupanti spagnoli della Lombardia sarebbe stato di molto indebolito; inoltre la condanna dei due imputati avrebbe dimostrato alla terrorizzata opinione pubblica che il governo aveva l’autorità e la forza per debellare il pericolo. Il processo non poteva non concludersi che con la condanna a morte dei due infelici.

Le considerazioni che Prosperi poi svolge nelle pagine seguenti fanno luce anche sul dramma attuale causato dall’infezione da covid19: le dicerie sui complotti e gli untori, le azioni di difesa dei governanti di allora (quarantena, documento di buona salute per i viaggiatori) trovano riscontro in quelle cui stiamo assistendo oggi in tutti i Paesi del mondo. E come allora, la vera peste odierna è il Terrore, che può nascere spontaneamente, ma che può anche essere diffuso a bella posta da chi vuol pescare nel torbido. Un Terrore che si prova per un nemico misterioso, invisibile e letale e che genera le ipotesi più varie e fantasiose sulle sue origini.

Le ultimissime pagine del saggio, probabilmente riscritte di recente, sono di estrema attualità e parlano della speciale Malattia di cui l’Italia è afflitta, quella che nasce dal rapporto tra cittadino e agenti che devono tutelarne la sicurezza: invece di sentirsi difesa dalle forze di polizia, la gente comune comincia ad avere paura delle divise, perché di fronte alle minacce eversive e a quelle che una grave pandemia può apportare, il ricorso ai militari, all’impunità che ad essi viene riservata in caso di comportamenti eccessivi, alle restrizioni della libertà individuale e sociale può apparire come provvedimento necessario tanto da essere accettato supinamente; questa assuefazione, tuttavia, può procurare rischi ben più gravi di quelli minacciati dagli stessi pericoli reali.

Sulla peste e sulle conseguenze che il suo terrore crea nella mente della gente, Prosperi torna altre due volte, prima discutendo il libro che la peste del 1630 suggerì al Manzoni e poi con il capitolo Morte in palude e morte del padule. Le riflessioni, che nel volume Storia della colonna infame, il Manzoni svolge sulla peste e sul termine stesso della epidemia e sugli effetti che essa produsse nella cultura e nella mentalità del ‘600, offrono a Prosperi l’occasione per confermare ed arricchire l’alto giudizio che sullo scrittore la storia letteraria ci ha consegnato, per illustrare qualche elemento rimasto tra le pieghe del giudizio stesso e soprattutto per affrontare questioni che l’antropologia odierna ritiene, a torto, poco interessanti. La prima di esse sta nel modo con cui un fenomeno così tragico viene conosciuto ed assimilato nella cultura generale e nella mentalità popolare. Sono pagine che chi si occupa di demologia dovrebbe leggere e meditare, onde evitare spiegazioni superficiali desunte dagli studi positivistici sulla circolazione culturale. La quale esiste ma non è così veloce e non ha meccanismi deterministici come per lungo tempo molti hanno creduto. Nei processi culturali, fa notare Prosperi, ci sono improvvise interruzioni, inaspettate scomparse di credenze ed usanze che sembravano fortemente radicate e, per quel che riguarda la comprensione di certi fenomeni oggi spacciati per modernità, ci sono comportamenti ed idee che persistono per lunghi secoli. Leggendo l’analisi di Prosperi ci si accorge che tra il secolo diciassettesimo e il ventunesimo ci sono molte omogeneità, ci sono episodi ricorrenti che mettono in crisi alcune certezze date per definitive.

8-prosperi-processo-originale-degli-untori-nella-peste-del-1630-milano-a-spese-degli-editori-e-gaspare-truffi-1839

Processo degli untori nella peste del 1630, stampa edita da Gaspare Truffi, 1839

Un’altra questione, suggerita dalla lettura della Colonna infame, riguarda l’atteggiamento che gli intellettuali della cultura dominante hanno avuto e hanno nei confronti della mentalità popolare. L’illuminista Manzoni ha difficoltà a comprenderla, quando nota che l’evidente gravità del contagio non fa nascere fra il popolo «nemmeno una sterile inquietudine»; anzi, veniva accolto «con beffe incredule, con disprezzo iracondo» chi avesse osato parlare di peste. Sembra quasi di leggere cronache del nostro tempo caratterizzato dalla pandemia e da un atteggiamento di irresponsabilità, non si sa quanto ingenua, di chi parla di complotti, di inesistenza dell’infezione e manifesta intemperanze nei confronti dei vaccini e della scienza medica.

L’incomprensione del Manzoni, tuttavia, si manifesta anche come un ironico e paternalistico distacco nei confronti di altri aspetti, come quando, nel romanzo, riferisce le letture del sarto: oggi sappiamo che per lunghi secoli i contadini si sono nutriti di letture che agli intellettuali appaiono banalmente fantasiose, come le storie dei santi, del Guerrin Meschino, dei Reali di Francia e di altra letteratura “triviale”.  A parte questo aspetto, c’è tuttavia nel Manzoni, come fa osservare Prosperi, una sincera solidarietà nei confronti degli analfabeti quando descrive i tentativi di corrispondenza tra Agnese e Renzo: chi è privo della scrittura è veramente e obbligatoriamente un subalterno.

Il saggio su Morte in padule e morte del padule parla di un caso di peste, ma poi il discorso affronta ancora una volta il tema della morte che è poi quello, come vedremo più oltre, su cui più a lungo si sofferma l’Autore in tutto il volume. Nel capitolo intitolato Fra venerazione e iconoclastia. Le immagini a soggetto religioso tra Quattrocento e Cinquecento è affrontato un vasto dibattito polemico che vide ai ferri corti Cattolici e Protestanti e che verteva sulla liceità teologica della venerazione di santi e divinità rappresentati in affreschi, tele e statue. I primi non vedevano nulla di male nella venerazione dei dipinti e delle stampe, viceversa i Protestanti vi trovavano molti elementi di superstizione e di idolatria.

L’argomento e il saggio hanno prevalentemente un tono storico, ma senza questa caratteristica sarebbe stato difficile per gli studi antropologici individuare il perimetro dentro il quale, nei secoli passati, si è formata e strutturata la mentalità religiosa in modo così solido e profondo da ritrovarla quasi identica nelle odierne feste cattoliche dedicate ai santi patroni delle comunità e nelle rispettive processioni religiose.

Nel Quattrocento la venerazione delle divinità poteva avvenire sia privatamente che pubblicamente. Quella privata si concretizzava nelle cappelle fatte edificare dentro le chiese dalle famiglie ricche; ma c’era anche una devozione casalinga che faceva uso dei cosiddetti libri di devozione o «libri d’ore». La venerazione pubblica faceva capo all’istituzione Chiesa e si manifestava nella liturgia, specie quella festiva delle processioni, ma anche negli affreschi e nelle tele che adornavano le pareti degli edifici sacri.

Oltre che della raffigurazione dei santi e delle divinità delle opere pittoriche, il saggio si occupa delle immaginette e dei libri d’ore stampati nelle prime tipografie. I temi erano essenzialmente due: il ciclo Mariano e il ciclo della Passione.

Durante il ‘500 si ha una divaricazione tra devozione privata e devozione pubblica, per l’intervento di Erasmo e di altre personalità cattoliche oltre che dei Protestanti, che vedevano nella devozione alle immagini una manifestazione di superstizione. Erasmo derideva la credenza che i santi possano curare il mal di denti; ma santa Apollonia in certe zone è venerata ancor oggi. Il saggio si occupa della diatriba riportando documenti riguardanti vescovi e teologi, ma tra le righe di queste controversie si può vedere di che natura fosse la religiosità popolare di allora: illuminante, a proposito, è la lettura del Libellus ad Leonem X che due frati camaldolesi inviarono al papa, invitandolo ad affrontare le degenerazioni idolatriche dovute alla credenza dei più, secondo la  quale si riteneva reale la facoltà di operare miracoli da parte delle immagini sacre in qualsiasi modo riprodotte.

5649210f9a902d264ebd70bbc59b864b

Stampa devozionale

Secondo i Protestanti la Chiesa non sarebbe mai riuscita a condannare né tanto meno a sconfiggere l’idolatria e la superstizione alimentate dalle raffigurazioni pittoriche e dalle stampe, perché la mentalità popolare era incapace di distinguere tra realtà e rappresentazione. A dire il vero, anche oggi sembra di essere nella stessa situazione di allora se consideriamo gli episodi di Medjugorje, se posiamo uno sguardo più attento su ciò che accade nelle processioni delle feste religiose e se valutiamo l’azione della Chiesa che nei confronti di questi fenomeni non ha mai voluto distinguere (nemmeno nel Direttorio sulla pietà e sulla liturgia pubblicato nel 2002) tra fede e superstizione.

Nel saggio successivo, Pregare in piccolo, si parla ancora di “santini”, di figurine rappresentanti i santi, anzi più che dei santi si racconta l’importanza avuta dalla stampa nella diffusione di un culto di un santo bambino, Simonino, e di tesi antiebraiche. L’iniziativa ebbe come promotore un sacerdote, il vescovo di Trento Hinderbach, che volle fare del santo bambino il simbolo dell’odio antiebraico e del fanatismo religioso. Fin dai suoi inizi, dunque, la stampa ha svolto un’opera fondamentale, sia nel trasmettere argomenti utili alla crescita culturale delle persone, sia, purtroppo, per raccontare storie false, intrise di odio e di razzismo. Oggi, nota Prosperi, è ancora ad una tenace devozione al «santo Simonino che si abbevera il rivolo di antisemitismo dei cattolici tradizionalisti in rivolta contro il popolo».

Il capitolo dedicato a Robert Hertz chiude il libro ma, poiché nei saggi precedenti Prosperi più volte ricorda il suo debito nei confronti delle tesi dell’antropologo francese, qui se ne parla come introduzione ai capitoli in cui si svolgono i temi relativi alla morte. Per Prosperi questo giovane intellettuale ebreo, morto durante le Prima guerra mondiale tra le file dell’esercito francese, è stato il primo che con grande lucidità ha dimostrato che la morte non è solo un fatto naturale, perché attorno ad essa si sono addensati molti comportamenti culturali che hanno attraversato la storia dell’Europa nell’ultimo millennio. Come scrive Prosperi, «Hertz ha visto e ricostruito le regole create dalla cultura nell’imporre i suoi tempi e le sue forme al fatto per sé casuale e puntuale del morire». Analizzando, inoltre, la ritualità di popolazioni etnologiche e riflettendo sull’opera di Lafiteau, I costumi dei selvaggi americani, Hertz ha scoperto «la tendenza umana a organizzare simbolicamente la realtà tra due poli caricati delle opposte energie, positiva e negativa», cioè destra e sinistra: aspetto da cui Prosperi ha ricavato il titolo del volume Il lato sinistro, in quanto in esso si affrontano argomenti considerati generalmente negativi.

Nel lungo capitolo intitolato I vivi e  i morti, rifacendosi agli storici francesi  Le Roy Ladurie, Philippe Ariès, Pierre Chaunu, ma anche all’Huizinga dell’Autunno del Medioevo, Prosperi rivendica alla storiografia il compito di indagare su vicende di cui  si occupa ampiamente l’antropologia, come «i riti di passaggio, l’elaborazione del lutto, il culto dei morti, i rituali funebri, i meccanismi della trasmissione da una generazione all’altra, delle permanenze e dei mutamenti; sarebbe, dunque, il caso che, per contraccambio, l’antropologia si occupasse di indagare sui fatti e sull’ambiente storico che hanno originato i rapporti che legano i morti ai vivi e sull’influenza che i morti hanno avuto ed hanno sul comportamento e la mentalità dei vivi. Così succede, come osserva G. Gorer citato da Prosperi, che nella moderna società industriale la morte «si nasconde», diventa «oggetto di non-discorso», allo stesso modo di come una volta era taboo parlare di sesso.

minima-sociologie-hertz-2Testimonianze ancora vigorose del fatto che il tema della morte con tutti i suoi corollari abbia dominato la cultura dei secoli passati si hanno se si osserva la cultura popolare della città di Napoli, dove il culto dei morti è incorporato nella vita quotidiana; ma frammenti di questa visione esistenziale si hanno in altri contesti etnologici in cui persistono le credenze sui morti che vagano sulla Terra, sull’esistenza del Limbo e del Purgatorio con le cui anime i vivi hanno ininterrottamente comunicato per secoli, dai tempi, almeno, della Commedia  dantesca fino alle odierne messe officiate per le anime del Purgatorio.

Con la Riforma luterana, tuttavia, questa comunicazione avallata dalla Chiesa si interruppe, con conseguenze complesse: mancando l’appoggio della Chiesa, il dialogo con i morti, con la credenza di una loro presunta protezione sui vivi, è avvenuto attraverso altri canali, come quelli offerti dai negromanti, dai veggenti e dal culto, a volte cannibalico, dei morti.

Un altro strumento, tuttavia, molto efficace per tenere lontana l’immagine della morte e per poterla in parte dominare era il testamento. Con esso il morto continuava a tenere rapporti con i vivi, ne condizionava, oltre alla vita economica, la mentalità e le scelte di vita. In questo modo l’estinto seguitava a vivere sia nella memoria dei discendenti, sia nei terreni e negli edifici che costituivano il suo lascito materiale e perfino negli arredi, anche i più poveri, della casa: gli elenchi dei mobili, delle stoviglie, delle posate, ecc., erano piuttosto lunghi e formavano la parte importante del testamento, dato che mediante essi il defunto continuava ad abitare la casa.

Senza tener di conto di queste operazioni intorno alla morte e al lutto non si capirebbe il peso che ebbe sulla società lo sconvolgimento delle usanze e della mentalità provocato nel 1805 dall’Editto di Saint-Cloud; né si capirebbe appieno il carme Dei sepolcri del Foscolo che, letto senza conoscere quel repentino e, senza dubbio, traumatico cambiamento culturale, resterebbe solo un grande e nobile esercizio di retorica. L’Editto non fu un atto improvviso perché il problema della sepoltura dei morti era stato dibattuto per tutto il ‘700 e alla fine si dimostrò un fenomeno complesso, fu il risultato di un insieme di ragioni economiche, di potere e di governo e soprattutto fu il frutto di un’emergenza sanitaria senza precedenti. La sua promulgazione, infine, vietando sepolcri singoli e contendendo «il nome a’ morti», annullava la memoria dei defunti che per secoli era stata parte essenziale della comunità e il fondamento stesso della vita sociale.

Se storia e antropologia riportano alla luce tutti questi elementi di natura materiale e di natura culturale, allora lo studioso, come aveva intuito Michelet, diventa «il titolare di una magistratura speciale», di un tribunale della storia incaricato di «difendere i più poveri fra tutti i bisognosi di giustizia, quelli che non avevano più voce propria per difendersi». E l’antropologia, da parte sua, può trovare la spiegazione di tanti fenomeni non in ipotesi e congetture esistenti nel mondo delle idee ma in quelle reali condizioni esistenziali degli uomini che la storia ci aiuta a ricostruire.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021

______________________________________________________________

Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadino, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003.  Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici.

______________________________________________________________

 

 

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Letture. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>