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Stato di guerra necessario?

Power cut in the Bait Lahiya North Gaza Strip

Gaza

di Giorgia Durantini,  Hamza Younis

«Quando penso a Gaza ricordo il rumore degli aerei militari israeliani che passavano sopra le nostre teste ogni giorno, il rumore era così forte che non ti lasciava dormire di notte…a Gaza direi che non puoi vivere una vita normale come in qualunque altro paese del mondo».

La popolazione che vive a Gaza è dimenticata e trascurata, quasi tutti vivono nei campi profughi che ormai sono diventati dei villaggi mentre la disoccupazione dei quasi due milioni di persone che vive in questa striscia di terra tocca livelli altissimi. L’aria è irrespirabile, l’acqua è contaminata, poche sono le ore di corrente al giorno e la misera economia all’interno del territorio è strettamente controllata da Israele e altri attori esterni. Non c’è nessun tipo di sicurezza, ci sono morti ogni giorno. Frustrazione, rassegnazione, poca fiducia nel governo mondiale, tanta rabbia e orgoglio.

Questi sono solo alcuni degli aspetti della vita a Gaza secondo la testimonianza di Ihab e Suha, una coppia gazawi che oggi abita a Barcellona. Nonostante la nostra vicinanza alla questione palestinese, siamo estranei alla quotidianità vissuta all’interno del territorio di Gaza, per questo abbiamo pensato di riportare delle esperienze dirette intervistando questa giovane coppia che è nata e cresciuta lì.

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Gaza (ph. da Silva)

Più dettagli ci fornivano, più cresceva in noi la convinzione che avessimo fatto bene ad intervistarli e la sicurezza dell’impossibilità di descrivere la vita a Gaza senza aver mai vissuto quelle condizioni. La nostra convinzione, forse ingenua e utopica, che il dialogo e la tolleranza reciproca sono le uniche vie d’uscita da questa situazione, non ha trovato riscontro quando ci siamo confrontati con i nostri interlocutori.

«La nostra sofferenza da chi è provocata? Viene da gente che proviene da fuori, che ha occupato la nostra terra, le nostre case»

Cosa potevamo rispondere ad un’affermazione del genere? Ihab ha poi continuato: «L’autorità palestinese ha accettato la creazione di due Stati ma gli israeliani non vogliono rispettare neanche questi accordi. Vogliono prendersi tutto il territorio che apparteneva alla Palestina […] Abbiamo visto che il processo di pace non funziona e vediamo Israele che si allarga sempre di più. Noi a Gaza abbiamo scelto di resistere perché vediamo chiaramente che con Oslo non si arriverà da nessuna parte».

Le sensazioni che piano piano venivano fuori dalle loro parole erano di saturazione e rabbia nei confronti di una situazione che si protrae da molto tempo e sembra non vedere la luce in fondo al tunnel. Ihab e Suha hanno richiamato alla mente i racconti dei loro genitori sulle bande sioniste che presero con forza le loro case, descrivono Gaza come una prigione in cui la speranza di fuggire si è ridotta ormai al minimo.

Continuando la nostra conversazione, ci siamo soffermati sul rapporto e i contatti tra israeliani e palestinesi. «Prima c’erano le colonie sul territorio, da quando non ci sono più e c’è stato l’embargo […] siamo totalmente isolati». Suha, la moglie, racconta che la prima volta in cui ha incontrato un ebreo è stata in Spagna.

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Gaza (ph. V. Nicolosi)

Ma l’affermazione che più ci ha colpito è stata quando abbiamo chiesto alla coppia se facessero differenza tra le istituzioni e la popolazione israeliana. Alla nostra domanda Considerate tutti gli israeliani allo stesso livello? loro hanno risposto fermamente:

«Certo! Loro sanno che questa terra è occupata ingiustamente ma vengono comunque a vivere qua. Qual è la differenza tra il governo che ti prende la casa direttamente o ti viene regalata? Un poliziotto, un medico o un’insegnante sono tutti complici […] i loro cecchini sparano a gente non armata che vuole solo tornare a casa propria».

Quello che trapela dalle loro parole è una sensazione di profonda ingiustizia che denota principalmente il loro forte desiderio di riavere ciò che considerano loro, rubato ai propri avi, senza alcun tipo di compromesso. Con una memoria storica simile e dopo aver vissuto queste condizioni, sembra difficile che possano mettere da parte l’orgoglio e pensare ad una vita pacifica con il nemico.

Dal nostro punto di vista, il dialogo e il contatto con l’altro sono decisivi per poter cambiare idea e per un eventuale avvicinamento tra le persone; una cosa che sembra del tutto mancare nel contesto di Gaza. Dai loro occhi sembra chiaro che la situazione è destinata a protrarsi ancora per un tempo lungo e indefinito.

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Gaza

Quelle di questa coppia gazawi, sono parole dure e dette con molta decisione. Ci chiediamo: questa rabbia potrebbe giocare a favore di coloro che guadagnano dal conflitto? Probabilmente la striscia di Gaza e la minaccia arabo-islamica giocano un ruolo fondamentale nella creazione e nella sopravvivenza dello Stato ebraico. Gaza rappresenta il riciclo delle merci scadute e la forza lavoro con il costo più basso nel mercato israeliano. Allo stesso tempo tiene coeso un gruppo di persone molto variegato che effettivamente dà poco peso alla religione ebraica. La strategia e la narrazione della minaccia permanente dell’altro, del nemico, permettono all’élite askenazita di marginalizzare le altre minoranze nel loro stesso Stato e trascurare le loro richieste fondamentali, esigenze che avrebbero permesso a queste minoranze di crescere e di competere con chi governa sul suo trono. Ad esempio, in tempi di guerra non c’è bisogno di costruire scuole o migliorare l’infrastruttura in Um al Fahem o Hadera, e quando c’è lo stato d’emergenza le divergenze tra lo stile di vita degli ebrei ortodossi e il loro governo diventano secondarie. Israele insegna che la paura sulla propria vita è quella più forte tra tutte le minacce, prende il primato su tutte le esigenze.

Quando finirà questa guerra e con quale esito? E qual è la colpa dei bambini nati a Gaza per la quale sono condannati a vivere la loro vita in una grande prigione? Più che risposte, ci sono sorte delle domande che ci piacerebbe condividere e, data la complessità di questo tema, siamo consapevoli che questa intervista non può essere completa senza avere il confronto con chi invece vive a Tel Aviv.

 Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019

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Giorgia Durantini, giovane studentessa italiana. Ha studiato Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l’Università di Teramo e frequenta la magistrale in Relazioni Internazionali all’Università di Torino. È specializzata in politica del Medio Oriente e del Nord Africa, oltre che in questioni mediterranee. In questo periodo, sta svolgendo uno stage presso IEM e nel dipartimento di Cultura e società.
Hamza Younis, giovane studente israeliano di origine palestinese, ha studiato ad Haifa e si è laureato in Economia e Management presso l’Università degli studi di Parma e iscritto al corso magistrale in Antropologia culturale presso l’Università di Torino. Ha seguito i corsi e i workshop focalizzati allo studio dell’area mediterranea e ha recentemente intrapreso un progetto di ricerca sull’Islam quotidiano e in particolare sulla comunità marocchina insediata a Torino.

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