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“Space is the place” o l’inevitabilità del luogo

nonluoghi-001di Giuseppe Sorce

Chi legge i miei contributi sa che da tempo conduco una riflessione sull’esperienza dello spazio, dalla sua cognizione alla sua significazione. Mi è capitato recentemente fra le mani un volume fotografico intitolato Nonluoghi, a cura di Michele Di Donato, pubblicato da The Dead Artist Society (2020), con una intensa prefazione di Fabiola Di Maggio. Il risultato di una riflessione narrativo-fotografica sui nonluoghi appunto, oggetti-non-oggetti spaziali che i fotografi hanno scomposto e osservato e inventato in alcuni casi, scoperto addirittura, si può dire, in altri. Alcuni “percorsi di visione”, come lo stesso Di Donato chiama i diversi progetti-reportage-narrazioni, riescono nell’intento di interrogarsi sulla natura dei luoghi nel loro negarsi in qualche modo, sottrarsi a una immediata lettura, a uno sguardo veloce che non basta nella decriptazione delle dinamiche relazionali ed esperienziali.

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Nonluoghi (ph. Anna Nosari)

Ogni percorso del volume è «un transito, – scrive Di Maggio nella prefazione – un passaggio immaginale che riflette in varia misura alcune caratteristiche della moderna so­cietà globale: la carenza di concreti rapporti sociali, il proliferare degli stati di individualismo solitario e di abbandono, la fugacità delle cose e delle persone, la smania convulsa di consumo, l’incomunicabilità nella perenne connessione, l’ubiquità dell’altrove virtuale negli spazi reali, l’eterno presente senza memoria e proiezione, la velocità senza dimensione di approdo, il disabitare qualsiasi luogo, persino la propria casa e la propria vita».

Alcuni di questi percorsi sono particolarmente riusciti sia fotograficamente che narrativamente, poiché ridiscutono e ripensano il luogo osservato e quasi lo rimpolpano di nuovi significati – di chi scatta e di chi si ritrova poi a guardare gli scatti – altri mancano il bersaglio ma senza colpa a mio avviso, senza demerito.

Una ragione è che alle volte i testi che accompagnano i percorsi fotografici nulla aggiungono anzi tolgono alla potenza che il linguaggio della fotografia riesce a sprigionare anche nel più semplice all’apparenza dei soggetti. Dico questo perché la riflessione sul luogo è quanto mai un problema di relazioni con e fra lo spazio e le relazioni rientrano nell’ambito della qualità delle cose del mondo più che nella quantità ed è molto complesso scrivere la qualità e con la luce e con le parole e quando entrambi gli strumenti entrano in gioco, entrambi i linguaggi, fotografia e lingua, il gioco si fa duro.

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Nonluoghi (ph. Valentina Brancaforte)

Ci sono però per questo dei percorsi che offrono un respiro in più come dicevo, riuscendo anche a scavalcare le didascalie che, e questa è una nota del tutto personale, pur volendo spiegare, motivare e contestualizzare la ricerca fotografica finiscono invece per depotenziarla appunto, semplificarla, inquadrarla in un ragionamento alle volte solo dannosamente superfluo. Ciò che ispira infatti i vari lavori dovrebbe essere il concetto di nonluogo che, per fortuna, alcuni dei percorsi di visione problematizzano con creatività. Il punto critico però è proprio questo poiché l’altra ragione delle disomogeneità interne a questo volume è invece quella più importante e strutturante a tutti gli effetti.

È ora infatti di dirlo a voce il più possibile chiara e schietta: il concetto di nonluogo è tanto cool quanto bugiardo e fallace. Non sono necessari studi accademici per riuscire a notare questo aspetto del nonluogo poiché basterebbe per esempio soffermarci su quei “percorsi di visioni” che funzionano meglio e rovesciarli.

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Nonluoghi (ph. Silvia Narducci)

Prima di tutto privarli dell’etichetta di nonluogo, poi cogliere ciò che le fotografie mostrano, ciò che banalmente non mostrano e ciò che mostrano pur non volendolo mostrare. Ed è qui che a mio avviso alcuni percorsi sono proprio loro stessi a mettere in crisi (inconsapevolmente?) l’etichetta del nonluogo che fallace appunto si scopre. Non una qualità quindi ma un’etichetta impressa senza attenzione quando invece è proprio l’attenzione che sta dietro ogni scatto, il pensiero e la visione meno filtrata dai pre-giudizi, che svela l’essenza bugiarda del concetto di nonluogo.

Non vi dirò quali, a mio avviso, sono i percorsi critico-creativi che affondano più efficacemente il coltello nella piaga concettuale del non luogo. Non vi dirò quali smentiscono con successo le loro stesse didascalie, svuotandole dall’interno attraverso la potenza del linguaggio della fotografia. Le immagini vanno lette e vanno interpretate ma le fotografie non sono immagini e basta, come notturni di Chopin non sono note musicali e basta, e in un volume come questo, dove sono raccolti più percorsi di più autori, lo svelamento è inevitabile.

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Nonluoghi (ph. Raffaele Di Raimondo)

Il concetto di nonluogo è un miraggio che ci attira e ci attira sì bene verso una riflessione che, se seria, porterebbe inevitabilmente ad ammettere appunto la sua natura illusoria. “Ma è il viaggio ciò che conta!”, allora okay. Allora l’idea dei nonluoghi semmai va letta controluce, cosa ci vuole occludere? Cosa si nasconde dietro questo concetto, dietro il “non” come prefisso, cosa ci nasconde soprattutto dei tempi, delle menti e degli spazi che hanno concepito l’idea di nonluogo e strenuamente continuano a portarlo avanti in tempi invece come quelli attuali in cui si parla già pubblicamente di terraformare Marte?

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Nonluoghi (ph. Simona Ottolenghi)

Perché sì il punto è anche questo, capire in che modo si può parlare di un centro commerciale come un nonluogo, delle identità della rete come solo “virtuali” quando ci sono persone che fatturano milioni di dollari, veri, “reali”, su ciò che per alcuni è solo virtuale, un nonluogo delle nonidentità. È grottesca la cosa, perché è facile deridere i negazionisti del covid mentre siamo abituati a non deridere chi ha la pretesa ancora oggi di guardare il mondo con questi occhi discriminatori per quel poco che ancora riescono a vedere. Sì, c’è ancora chi guarda i centri commerciali come i grandi antagonisti della società del “prima era meglio”, quando c’erano le piccole botteghe era meglio, quando non c’erano i videogame si giocava per strada, ed era meglio, quando volare costava troppo era bello però fare il viaggio in treno, quando non c’erano i telefonini si spedivano le lettere, si faceva la fila alle cabine telefoniche, ti ricordi?

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Nonluoghi (ph. Garcia Llorens)

Non starò qui a contestare accademicamente il concetto di nonluogo perché lo ha già fatto Meschiari molto bene: «quello che Augé non prese in conto, etnografando un adesso forse nuovo per la sua disciplina ma non per Homo sapiens, erano le strategie di riappropriazione spaziale che i luoghi estranei, e quindi anche i non-luoghi, innescano sempre in chi vi transita»)[1]. Ho già riflettuto su luogo e spazio qui su Dialoghi Mediterranei [2], e per questo voglio provare a rovesciare il concetto di nonluogo, non demolirlo, si badi bene, ma rivoltarlo come un capo double face.

La mia idea è che il concetto di nonluogo sia sintomo di vigliaccheria politica, una scusa che ci consente di non farci le domanda che conta e cioè come si abita uno spazio, come si fa luogo. La mia opinione, la mia provocazione, è che il concetto di nonluogo sia frutto di pigrizia intellettuale, uno stilema che consente chi lo usa di fermarsi lì con i ragionamenti ma soprattutto con le domande e con la messa in discussione di quei paradigmi di cui troppo spesso ci innamoriamo.

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Nonluoghi (ph. Tonino Trovato)

Il nonluogo è infatti un esempio della tipica confusione realtà-modello: si è deciso cosa può essere un luogo, si è ulteriormente deciso che quella definizione valesse sempre, in tutti i contesti, in tutti gli spazio-tempo, in tutte le culture e si è infine deciso anche che il mondo, i comportamenti umani, le esperienze e le costruzioni spaziali, sia collettive che singole, funzionassero secondo quel modello di luogo lì e tutto ciò che è oltre il modello semplicemente diventava quel “non” che il modello stesso per contrasto autodefinisce. Così si può perpetrare il modello, quella definizione di luogo lì, semplicemente includendo con il trucco linguistico del “non” anteposto, tutto ciò che in realtà mette in discussione il modello. Ma i granelli di sabbia consumeranno l’ingranaggio e prima di quanto si tema l’ingranaggio si incepperà – anzi, si è già inceppato.

Di seguito propongo degli esempi di alternative semantiche-epistemologiche all’uso della parola-concetto di nonluogo a partire da riferimenti non specifici ai “percorsi di visione” del volume Nonluoghi:

 -  Paesi, villaggi, complessi abitativi abbandonati, dei “dove” c’era una città o una comunità un tempo fiorente -> luoghi spettrali, luoghi abbandonati, luoghi dimenticati|luoghi della memoria.

-   Aeroporti  -> Luoghi di transito, avamposti, frontiere, rifugi, checkpoint.

-   Periferie povere, bidonville, favelas, quartieri popolari -> Ghetti, luoghi di ingiustizia, luoghi del fallimento e della corruzione politica, luoghi della violenza|luoghi della rinascita, margini.

-   Videogiochi, social network, cyberspazi -> cyberplace.

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Nonluoghi (ph.Cristina Marchisio)

Dire nonluogo serve a sollevarci dall’impaccio di dire invece luogo tremendo, luogo omicida, luogo brutto, luogo di disuguaglianza, luogo di colpa, luogo di ingiustizia, luogo di rivalsa, luogo delle possibilità, luogo che non capisco, luogo non è mio ecc. ecc. Etichettare allora come nonluogo una periferia povera dove edifici nuovi edifici costosissimi sono vandalizzati ci salva dalle responsabilità analitica ­­– che diventa quindi politica, nel momento in cui l’analisi di qualsivoglia spazio è allo stesso tempo analisi dei rapporti di potere che soggiacciono alla costruzione e alla rappresentazione di ogni spazio umano – di dire che quel luogo è in quel modo a causa del malfunzionamento dell’amministrazione, della gestione del welfare su scala nazionale, della corruzione degli enti locali, della discriminazione razziale e di classe che si vuole negare e così via.

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Nonluoghi (ph.Mario Benenati)

Dire nonluogo in casi come questo significa evitare la scomodità di chiedersi come si abita quel luogo, come abitano le masse indigenti i luoghi ai margini in cui vengono relegati, ghettizzati, emarginati, spinti più o meno consapevolmente dalle amministrazioni locali, dalle dinamiche sociopolitiche del luogo e dal sistema macro e micro economico. Bisogna invece andarsi a chiedere proprio questo perché le, pochissime, storie di successo di quegli individui che riescono a sottrarsi a quei tritacarne sociali non bastano. Non bastano e spesso fanno il gioco invece della narrazione dominante della classe media zombificata in quanto eccezioni che confermano la regola.

Detto ciò è chiaro come io sia arrivato a dire che un paese abbandonato è non un nonluogo ma un luogo spettrale, un luogo dove un tempo c’era vita, un luogo che era animato e che ora vive di rimasugli memoriali tracciati in ogni vicolo a ogni portone, un luogo che è stato abitato è un luogo che adesso abita l’abbandono e il fallimento politico-gestionale, magari perché è stato abitato un disastro naturale, previsto ma ignorato, o economico, o semplicemente il passare del tempo e dei flussi umani. È inutile dilungarsi perché allo stesso modo un aeroporto per il viaggiatore, per il migrante, per chi ci lavora, per i commessi dei bar e dei negozi, per gli addetti all’impianto di aerazione, non è affatto un nonluogo.

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Nonluoghi (ph. Maurizio Marchese)

Avete mai dormito in un aeroporto? Vi è mai capitato di lavorare in una città e avere gli affetti in un’altra e che il volo che le collega ha orari impensabili e che gli aeroporti che le collegano sono distanti e che quindi siete obbligati a passare la notte in aeroporto ogni qual volta vogliate tornare in una o nell’altra città? E se questa cosa si ripete ogni tre mesi per dieci anni?  E se avete ormai il “vostro posto” in quei sedili lì, vicino il punto shop h24, dove di notte lavora quel tipo che ormai è vostro amico? Okay questo può essere un caso limite, o forse non così tanto come pensiamo (pandemia a parte), ma in ogni caso, se ci interrogassimo sul come si fa luogo anziché immediatamente etichettare qualcosa che non capiamo nell’immediato come non-qualcosa, scopriremmo che basta guardarsi attorno, fare una rapida etnografia dei luoghi di passaggio contemporanei, degli spazi di tedio, degli spazi di sosta, dei luoghi d’attesa, delle frontiere.

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Nonluoghi (ph. Pinuccia Botta)

Come ho già osservato io stesso qui su Dialoghi Mediterranei in altri contributi, lo smartphone stesso è anche un modo per ricomporre casa altrove, è un modo per ricordarsi chi si è nonostante ci si trovi altrove, è una modalità di fare luogo in uno spazio ostile, disorientante, sconosciuto; basta osservare come l’uomo d’affari, lo studente, il lavoratore, il migrante, in viaggio, reagisce allo spaesamento, «fa casa attorno a sé soffiando sulle braci di uno smartphone, evocando da Facebook i volti del suo clan allargato» (Meschiari), e così via. È chiaro che quei momenti di vuoto, mentre passeggiamo, o siamo seduti al parco, o aspettiamo il nostro turno da qualche parte, o ci annoiamo ad una festa, o siamo in un “nonluogo”, vengono oggi riempiti dall’esperienza del cyberspazio attraverso lo smartphone, «un luogo personale, un collettore di microesistenze tangenti l’una all’altra non è mai un mero recipiente di solitudini o di menti single di passaggio, perché l’uomo vive costantemente nell’urgenza di riempire i vuoti di tempo e di spazio con storie agite e narrate» (Meschiari). Quel miglior mezzo, quale miglior cyberluogo, degli spazi che altri considerano invece nonluoghi, solo virtuali. 

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Nonluoghi (ph. Giovanni Polizzi)

Vogliamo prendere ad esempio i tanto bistrattati centri commerciali, nonluoghi per definizione che invece sono oggi ormai inevitabilmente luoghi di incontro frequentatissimi. Se a qualcuno invece piace pensare le grandi metropoli mondiali con il loro flusso infinito di pendolari, lavoratori instancabili e sfruttati, non parli di nonluoghi, parli invece di sistema economico-sociale distorto, parli di diseguaglianza, di prepotenze sul lavoro, parli di diritti e oppressione, perché Homo sapiens fa luogo ovunque, nel deserto come nella metro di Tokyo, di Londra e così via. Come ha fatto e cercherà di fare sempre, dove è stato, c’è e ci sarà l’uomo ci saranno i luoghi, anche su Marte, che lo è già [3].

Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021 
Note
[1] Meschiari M. 2012, Spazi Uniti d’America. Etnografia di un immaginario, Macerata, Quodlibet Studio: 21
[2] G. Sorce, Cosa è un luogo, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 41, gennaio 2020
[3] Perché «Space is the place», come dice il titolo di questo contributo esemplato sul titolo di un brano dei Men I trust, https://www.youtube.com/watch?v=EvM8xfiBJd0. Il semplice fatto che si parli ormai concretamente di terraformare Marte, di colonizzarlo, lo fa un luogo. Un luogo dell’immaginazione e dell’immaginario, il luogo-frontiera per eccellenza della tecnologia spaziale, per eccellenza l’altrove geografico oltre la Terra, la spinta esploratrice dopo il passaggio a Nord-Ovest. Significa già questo. Ci toccherà semmai abitarlo forse, un giorno, e lì starà l’altra sfida più grande ma appunto, come si abita come si fa luogo è la chiave.

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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof.  Franco Farinelli.

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