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Sguardi migranti. Ri-conoscersi e dis-conoscersi tra i cittadini stranieri del Polo Sociale Integrato di Palermo

Palermo, Festa del sacrificio Eid Al Adha, al Foro Italico, 28 giugno 2023

Palermo, Festa del sacrificio Eid Al Adha, al Foro Italico, 28 giugno 2023

di Valeria Salanitro

La pratica dello sguardo è connotata culturalmente. L’azione del guardare implica, non solo la trasposizione naturale dell’osservazione fisiologica, ma la determinazione delle categorie cognitive che accompagnano la visione. Sulla pratica del visuale, le teorie e le disquisizioni sono molteplici; sia nell’ambito della filosofia politica, che dei visual studies.

Cosa guardo? Com’è determinato lo sguardo? Quali categorie e dispositivi socio-culturali intervengono nella configurazione dello sguardo? Esiste una sola connotazione sociale e culturale della visione?

La “visione” non è la mera percezione fisiologica del vedere, quanto piuttosto l’attivazione di habitus (Bourdieu, 2001: 78) che rimandano a risposte comportamentali fortemente connotate in senso culturale.

Uno sguardo “accentrato” ed etnocentricamente determinato, costituisce la propria identità su basi autoreferenziali e tautologiche. Gli atteggiamenti pregiudizievoli, che connotano la pratica dello sguardo sono il prodotto di eterne dicotomie e “scontri di civiltàmetastorici e anacronistici, che tornano utili nei contesti più disparati.

L’ attuale scacchiere internazionale, cornice nella quale si inseriscono differenze sociali, statuti e politiche identitarie costruite ad hoc; specie in merito alle politiche migratorie, attestano la natura squisitamente sociale, culturale, ma soprattutto politica dello sguardo. La visione non è naturale, ma socialmente e politicamente determinata (Cometa, 2000: 41).

Perché, dunque, è importante decentrare lo sguardo? Ce lo insegna Michel Foucault, quando, disquisendo sulle pratiche di costruzione disciplinari dello stesso, ne confutava la natura genealogicamente costruita e legata alla “microfisica del potere” degli atti del guardare. Vedere, guardare e sapere su/con l’Altro sono pratiche correlate al contesto sociale e culturale nel quale si è inseriti e rappresentano degli schemi percettivi, che determinano la categorizzazione aprioristica della realtà.

Ciò premesso, come rappresento l’Altro attraverso lo sguardo? Parlare di sguardi in un contesto multietnico come quello attuale è importante per scardinare concezioni pregiudizievoli e atteggiamenti xenofobi reiterati e reificanti, che fanno da sfondo a guerre per procura, pratiche di razzismo e di esclusione sociale, nonché di dis-gregazione socio-culturale, oltre che politico-lavorativa.

Quando guardo l’Altro, mi ri-conosco o mi dis-conosco? Tale quesito solleva argomentazioni molteplici e, per certi versi, provocatorie. Se il processo di costitutività del soggetto passa dalla relazione e ha una natura dialogica, per intenderci, l’io nasce in relazione all’Altro, per dirla con gli strutturalisti, perché siamo invasi da etnocentrismi plurali e metastorici? L’idea di essere “culturalmente” superiori, per motivi legati a questioni genetiche o ideologiche è, da sempre, un problema da decostruire e che, purtroppo, determina l’agire sociale di molti attori; con tutte le conseguenze che ne derivano. Ebbene, sollevare dubbi e problematizzare la questione, potrebbe essere utile per porre fine alla famigerata “questione etnica e identitaria” attivando politiche di sensibilizzazione nei confronti dei migranti e degli “stranieri” in generale.

Il Polo di sostegno di Palermo

Il Polo Sociale Integrato di Palermo

Le pratiche di disconoscimento dell’Altro generalizzato sono il frutto di azioni sociali che spingono l’individuo ad assumere comportamenti esclusivisti, espressioni stereotipiche e sguardi pregiudizievoli, nonché l’idea che sentirsi superiori rispetto al prossimo possa essere fonte di gratificazione personale. Gli haters che bullizzano l’utente x, coloro i quali inveiscono contro gli stranieri e i migranti, ancorando le loro “solide” argomentazioni a metastoriche ideologie e regimi politici trascorsi, ma di fatto presenti; nonché i commenti di leoni da tastiera sbeffeggianti nei confronti dei poveri caduti in mare duranti i viaggi estenuanti, perché il colore politico dei loro partiti prescrive di essere all’apice della piramide sociale rispetto a chiunque, figurarsi un migrante, sono le variabili che dovrebbero fare riflettere l’umanità per comprendere che ri-conoscersi nello sguardo altrui è la chiave che apre la porta della pluralità identitaria e sociale. 

Gli operatori sociali e i mediatori del Polo Sociale Integrato di Palermo;

Gli operatori sociali e i mediatori del Polo Sociale Integrato di Palermo

Tra ri-conoscimento e dis-conoscimento 

Il numero di migranti che hanno raggiunto il nostro Paese recentemente è esponenziale, per ovvi motivi. Basta consultare i dati pubblicati sul Dossier Statistico Immigrazione 2023. La guerra in Ucraina, le rivolte nei Paesi mediorientali, i conflitti che governano guerre centennali tra le Potenze straniere, sono la macrocornice in cui si inserisce la pratica del mis-conoscimento. Perché il pregiudizio, che determina l’esclusione sociale dei “migranti” è linguisticamente, prima che politicamente,  determinato. Il processo di disconoscimento passa dalla disciplina letteraria che oscilla tra denotazione e connotazione, in linea con le logiche della normativizzazione linguistica e culturale.

Lo sguardo dell’individuo segue le strutture strutturanti del pensiero etnocentrico: 

«Del resto, la parola “immigrazione”, la cui prima attestazione risale al 1851, è un derivato da immigrare+zione, per tradurre il francese immigration, dal latino (im)migrare, “l’immigrare e il suo risultato”, in biologia, “l’insediarsi di specie vegetali o animali in zone nuove, dove prima non erano mai diffuse”. Perché fino a una ventina di anni fa, si parlava prevalentemente di immigrati ed emigrati: due partici passati che, com’è ovvio, indicavano due movimenti conclusi, il risultato di una migrazione finita. Sia gli immigrati, sia gli emigrati, si erano mossi, ed erano arrivati a destinazione diventando stanziali. Oggi, si parla piuttosto di migranti: un participio presente. […] indica, insomma, che i migranti non sono arrivati a destinazione, ma se ne devono andare devono continuare il viaggio» (Gheno, 2023:379). 

Dunque, il processo di disconoscimento è insito nelle categorie linguistiche, canonicamente costruite e sono il prodotto di quel pensiero, culturalmente determinato, che incidendo sull’azione sociale dell’essere, attiva configurazioni di sguardi autoreferenziali e pregiudizievoli. Esito visibile di un disconoscimento che parte dal pensiero e arriva allo sguardo. Perché il paradigma a tenore del quale la diversità sia un problema da debellare, in continuità con un pensiero “occidentalmente” strutturato, risulta ancora oggi valido. In realtà, lo sguardo dovrebbe essere ri-configurato e decostruito, per permettere all’attore sociale di guardare oltre e comprendere che la “di-versità” è ricchezza. Pertanto, la dialettica articolata tra ri-conoscimento e dis-conoscimento passa da una decostruzione sociale e culturale degli sguardi.

Lo sguardo migrante è, per antonomasia, lacunoso. Privato di qualsivoglia progettualità, stabilità e identità socio-culturale, oltre che giuridica, legato a pratiche burocratiche complesse e metalessiche, allocato in un limbo dell’incertezza, tra permessi di soggiorno e aree provvisorie stanziali, diffidente nei confronti del prossimo sempre più egocentricamente determinato e in preda alle immagini tanatoprassiche dei lunghi viaggi estenuanti e dei morti in mare in cerca di speranza. Ma è, al contempo, denso e colmo di buoni propositi e intenti, fiducioso e volitivo, motivato da un filo di speranza, dalla voglia di trovare fortuna altrove e ricongiungersi con i propri familiari, dalla dignità che segna questi sguardi attoniti e disorientati, persi nel magma delle incertezze delle politiche migratorie subordinate alle ideologie politiche del tempo, altruisticamente disinteressato, poiché reduce da etnocentrismi di ogni sorta. Perché, per dirla con Edward Said, ci si sente «Sempre nel posto sbagliato». 

Il mediatore di lingua araba del nostro centro di supporto per stranieri residenti;

Il mediatore di lingua araba del nostro centro di supporto per stranieri residenti

La reciprocità degli sguardi come pratica concreta al Polo Sociale Integrato di Palermo 

Uno sguardo dialogico che si riconosce nei “panni dell’altro”, privato di qualsivoglia pregiudizio e categoria di ogni sorta è quello che incontrano quotidianamente gli operatori del Polo Sociale Inte­grato di Palermo. L’Assessorato della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro della Regione Sici­liana coordina il progetto dei Poli Sociali Integrati: progetti di supporto e orientamen­to dei cittadini extra-comunitari regolarmente soggiornanti sul territorio regionale, disseminati in ciascuna delle 9 Provincie dell’Isola. Le attività dei Poli hanno preso avvio nel 2022 all’interno della macro-progettualità di Su. Pr. Eme. Italia, a sua volta finanziato dai fondi AMIF – Emergency Funds (AP 2019) della Com­missione Europea – DG Migration and Home Affairs. Nel 2023 è stata data continuità all’attività dei Poli con “Più Supreme a valere sul PON Inclusione FSE 2014 – 2020 in favore degli Immigra­ti”. Il Polo di Palermo è gestito operativa­mente da Asante Onlus, associazione che da anni opera nel settore dell’accoglienza prima di minori stranieri non accompagnati (MSNA) e oggi di adulti rientranti nel per­corso di accoglienza straordinaria (CAS). 

Il centro multiculturale di Palermo offre dei servizi plurali e fortemente conte­stualizzati alle esigenze degli utenti provenienti da diversi Paesi. Proponendo un modello inclusivo e aderente alla realtà panormita, il Polo Sociale Integrato si prefigge l’obiettivo di creare un’intesa tra i soggetti pubblici e privati che si occupano di stranieri, al fine di ridurre gap informativi e garantire un dialogo tra le politiche territoriali e quelle migratorie. Un percorso multiplo e articolato accompagna i migranti che chiedono aiuto al Polo: 

•  uno sportello di ascolto che supporti i cittadini stranieri che decidono di investire in questa città; un servizio di mediazione interculturale, con l’ausilio di mediatori specializzati, che garantisce una proficua comprensione dei bisogni e delle esigenze palesate dagli utenti e un ponte tra le  culture della multietnica città panormita;

• un’attività di assistenza sociale concernente tutto ciò che afferisce al processo di inclusione;

•   uno sportello di assistenza legale, che permetta ai cittadini stranieri di adempiere agli obblighi derivati dal contesto giuridico italiano, nonché enucleare, caso per caso, le normative di riferimento in relazione alla sfera giuridico-istituzionale, di concerto con lo status del cittadino straniero;

•   un supporto psicologico, fornito dagli psicologi del Polo, a fronte dei molteplici disagi presentati dagli utenti. 

La densità degli sguardi tra gli utenti 

L’assistente sociale e il Legale del Polo Sociale Integrato di Palermo durante un consulto

L’assistente sociale e il Legale del Polo Sociale Integrato di Palermo durante un consulto

La diffidenza insita nello sguardo dei cittadini stranieri residenti nella città panormita è l’esito visibile di quel processo di liminalizzazione (Fabietti, 2009: 249) di cui sono portatori. Precarietà ontologiche, traumi emotivi, dinamiche intrafamiliari problematiche e, spesso, luttuose, eterni viaggi e cicatrici indelebili sul corpo, segno di quel processo di stigmatizzazione di cui sono protagonisti; nonché distanze sociali e sfiducia, tecniche del corpo perfettamente assimilate, sono le determinanti che connotano quello status limbico di straniamento che accompagna i migranti lungo il sentiero della speranza. Lo si percepisce guardandoli. Uno sguardo straniato, remissivo, rispettoso, dedito al riconoscimento e alla voglia di vivere legittimamente, che fa da sfondo a racconti drammatici e vicende nefaste che li conducono in Italia in cerca di riscatto sociale e giuridico.

Per questo, il Polo Sociale Integrato di Palermo, offre un servizio di assistenza in senso olistico, partendo dall’ascolto empatico e proseguendo con un supporto legato alla sfera psicologica, sociale e legale, ultimo, ma non meno importante, l’aspetto lavorativo. Gli operatori del centro, infatti, si battono contro ogni forma di sfruttamento lavorativo e di economia sommersa, strada percorsa spesso dai migranti in cerca di speranza. Offrendo dei percorsi professionalizzanti, di supporto e inserimento lavorativo, nonché di dialogo tra gli utenti e le imprese, il Polo crea un ponte tra le istituzioni e i cittadini stranieri residenti. Il calderone burocratico, giuridico e istituzionale cui sono immersi gli stranieri, rappresenta la barriera all’ingresso di cui sono spesso vittime. 

La grande vittoria del centro è quella di adottare un modello inclusivo concreto, che permetta ai cittadini stranieri residenti nella città di Palermo, di vivere dignitosamente, di non essere abbandonati a se stessi e di avere un supporto concreto, che prescinda da retoriche paternalistiche e politiche migratorie fallaci.  Il modello inclusivo proposto è, infatti, concreto e dialogico, dedito al prossimo e altruisticamente disinteressato. Perché per gli operatori sociali del Polo, restituire dignità agli sguardi mi­granti è fondamentale, e si pratica con un concreto decentramento dello sguardo, che travalica ogni pensiero preconfezionato e tende una mano allo smarrimento dei migranti adulti che raggiungono il nostro territorio. Perché il decentramento dello sguardo passa dall’incontro dialogico e relazionale dell’esserci come sostanza. 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023 
Note 
[1] «L’habitus è l’insieme di pratiche spontanee, grossolane, naturali che concorrono a costituire la naturalezza dell’indi­vidualità dell’uomo. L’habitus è ciò che consente agli uomini di prendere decisioni, orientarsi fra le scelte, osserva­re il mondo e attribuirgli un significato. Qualsiasi azione, volontaria o meno, è frutto di un’elaborazione im­plicita dell’habitus. Bourdieu precisa che l’habitus non vada confuso con il concetto di “abitudine”». Cfr. P. Bour­dieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 2001: 78. 
[2] Nel suo «Pictorial Turn» W.J.T. Mitchell, ricorda, infatti, che: «la visione sia una costruzione culturale, che si impara e si colti­va, e non data semplicemente in natura». Cfr. M. Cometa, Cultura Visuale paradigmi a confronto, a cura di R.Coglitore, ed :duepunti, Palermo 2008: 41. 
[3]    Secondo il Dossier Statistico Immigrazione 20223, nel Mondo i migranti – le persone che vivono fuori dal Paese di resi­denza – ammontano a 281 milioni (1 ogni 30 dei 7,9 miliardi di abitanti della Terra), di cui 169 milioni sono la­voratori. Cfr. Dossier Statistico Migrazione 2002, Centro Studi e Ricerche IDOS. Elaborazioni su dati Onu, Euro­stat, Ministero dell’Interno, Istat, Miur, Unhcr, Banca Mondiale, Infocamere, Mef, Ministero della Giustizia, Mini­stero del Lavoro e delle Politiche sociali (https://www.dossierimmigrazione.it/). 
[4]  V. Gheno, Parole d’altro genere. Come le scrittrici hanno cambiato il mondo. Rizzoli-Mondadori, Milano 2023: 379. 
[5]  La nozione liminalità è stata sviluppata dall’antropologo americano Victor Turner. Con essa si allude, ad una so­spensione di status che, secondo l’antropologo Van Gennep, era tipica della fase di margine. Turner, studiando i riti di passaggio, mostrò come questi prevedano una fase – quella liminale appunto – con caratteristiche che la oppon­gono in maniera radi­cale alla situazione di “normalità”. Nella contrapposizione tra normalità/liminalità, Turner indi­viduò quella che definì l’opposizione tra struttura/antistruttura, la quale, però, non è caratteristica esclusivamente della fase rituale, ma può di­ventare una caratteristica permanente di alcuni gruppi, specialmente all’interno di con­testi stratificati e differenziati. La pratica sociale individuata dall’antropologo presuppone una natura agentiva e di rottura nei confronti dell’ordine pre­stabilito ed è rintracciabile nella disobbedienza delle donne, ma allude altresì a quella precarietà identitaria cui si trova­no le donne afghane, appunto, bandite dal sistema e private di status identita­rio e sociale, alla stregua di quanto avviene durante i riti di passaggio presso le popolazioni extra-occidentali. Cfr. U. Fabietti, Elementi di Antropologia Culturale, Mondadori, Milano, 2009: 249. 

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Valeria Salanitro, ha conseguito una laurea magistrale in Scienze della Comunicazione Pubblica, d’Impresa e Pubblicità (curriculum Comunicazione Sociale e Istituzionale), presso l’Università degli Studi di Palermo; nonché un diploma in Politica In­ternazionale (ISPI) e uno in Studi Europei (I. Me.SI.). Ricercatrice indipendente, redattrice e autrice di molteplici contributi inerenti la Politica estera, le Scienze Umane e i Gender Studies. Ha collaborato con diversi Istituti e testa­te giornalistiche. Il suo ambito di ricerca verte sui Visual and Culture Studies e sulla Sociologia dei fenomeni Politici; si oc­cupa di immagini declinate in senso plurale, nonché dell’uso politico delle medesime nel contesto internazionale. Tra le sue pubblicazioni scientifiche annoveriamo: La rappresentazione mediatica dello Stato Islamico, edito da Aracne 2022 e Immagini di genere. Donne, potere e violenza politica in Afghanistan, Aracne 2023.

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