Stampa Articolo

Sciascia morde ancora

cop-sciasciadi Francesco Virga

Ancora fresco di stampa ho in mano gli Atti del Convegno Internazionale sull’opera di Leonardo Sciascia – Leonardo Sciascia. Letteratura, critica, militanza civile, edizione curata dal Centro Studi Filologici e Linguistici Siciliani (2021) – svoltosi a Palermo nel novembre 2019, in occasione del trentennale della morte dello scrittore di Racalmuto [1]. Un Convegno particolarmente interessante e sorprendente che ha messo a fuoco, in una prospettiva nuova rispetto al passato, i molteplici aspetti dell’opera di Leonardo Sciascia che, com’è noto, vanno ben oltre il loro valore strettamente letterario. Ho trovato particolarmente stimolante la lettura delle 380 pagine che compongono il volume. Pensavo che non ci fosse più nulla di nuovo da dire sull’opera di Sciascia. Ma mi sono dovuto ricredere.

D’altra parte è proprio vero che gli autori classici – e Sciascia indubbiamente lo è [2] – non finiscono mai dire quello che hanno da dire. Di seguito mi soffermo sulle relazioni mi sono apparse più originali e ricche di spunti per nuovi ulteriori approfondimenti.

La “filosofia” di Leonardo Sciascia: la garbage science

Andrea Le Moli in questo Convegno tratteggia, in modo sommario e generico, la profonda vocazione filosofica dello scrittore siciliano. La sua principale fonte sembra essere Gaspare Polizzi che – in un suo ottimo articolo, Sciascia nello specchio della filosofia, pubblicato nel 2015 su Todomodo – aveva provato a fissare la cornice entro cui va collocato ogni discorso sul tema. Convince poco però l’affermazione di Le Moli secondo cui «l’autore filosofico inconsapevolmente più vicino a Sciascia è il raramente citato Platone»; più fondata mi appare, invece, la sua ricerca dei rapporti tra mistero, ragione e verità che attraversa tutta l’opera del nostro Autore, da Il giorno della civetta (1961) a Una storia semplice (1989), con il miraggio della cosiddetta “legge del pozzo”: «La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità» (Il giorno della civetta).

i__id9633_mw600_mh900_t1600698485__1xAiuta molto di più a comprendere la “filosofia” di Sciascia l’intervento di Giuseppe Traina che, soffermandosi ad analizzare, con grande acume critico, Il cavaliere e la morte, individua in Michel Foucault la chiave per decifrare, oltre ad uno dei migliori racconti sciasciani, il senso della sua intera opera. Secondo Traina i libri di Foucault – e in specie la Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, 1977 – sono stati meditati a fondo da Sciascia: «tutta la sua produzione degli anni settanta e ottanta, sia sul versante narrativo che su quello polemistico e saggistico, lo dimostra». Insomma, secondo Traina, il racconto di Sciascia chiarisce in forma narrativa quello che Foucault aveva sostenuto una dozzina di anni prima, ovvero il valore “produttivo”, non solo “repressivo del potere:

«Quel che fa sì che il potere regga, che lo si accetti, è semplicemente che non pesa solo come una potenza che dice no, ma che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, genera discorsi; bisogna considerarlo come una rete produttiva che passa attraverso tutto il corpo sociale» (Foucault, op.cit.: 13).

Ma per la verità questa rappresentazione del potere si trova già in Pasolini, prima ancora che in Foucault. E, considerati i rapporti stretti che ci sono stati tra Sciascia e Pasolini, sorprende non poco che nessun relatore se ne sia occupato [3]. Traina più avanti offre un altro spunto particolarmente stimolante facendo riferimento alla passione storica dello scrittore siciliano:

«Se in diversi suoi testi, in cui ha utilizzato fonti e metodologie tipiche degli storici di professione, Sciascia si è spesso trovato in disaccordo con costoro […]. La forza e l’attualità ancora perturbante di tanti suoi libri (soprattutto de L’affaire Moro ma anche de Il cavaliere e la morte) è data proprio dall’uso di quello sguardo verso il basso che per Foucault è tipico della “storia effettiva”: un uso che in Sciascia dimostra determinazione, consapevolezza, precisione dettagliata, straniante prospettiva di sguardo. E se analizziamo nel concreto i materiali dell’analisi sciasciana, nel romanzo dell’88 troviamo elementi come l’attenzione per i sensi e per i corpi ma anche per l’oblio sociale che ha investito la memoria, per la condizione dei bambini e dei cani nel mondo contemporaneo, per la presenza invasiva dell’immondizia: l’immondizia non mente mai”: precetto sociologico, ormai” (Il cavaliere e la morte, Adelphi, 1988: 29)».

Sciascia riserva due pagine esemplari del suo racconto alla scienza dei rifiuti, la garbage science, ricordando che un giornalista aveva cercato i segreti della più segreta politica americana nelle immondizie di Henry Kissinger e la polizia i segreti della mafia siculo-americana in quelle di Joseph Bonanno (Cfr. Il cavaliere e la morte:28-29).

Se si tiene poi presente quanto sia invadente l’immondizia in una città come Palermo, dove Sciascia ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, e dove la munnizza ha assunto ormai un valore anche simbolico, il cerchio sembra chiudersi davvero. Anche Foucault, peraltro, invita a cercare la vera storia del mondo, la “storia effettiva”, fra le decadenze.

Un altro elemento tipicamente foucaultiano, che andrebbe ricercato in altre opere di Sciascia, è quello che si è soliti definire “biopolitico”. E lo stesso Traina giustamente indica nell’attenzione per i corpi un altro tratto distintivo del modo di narrare dello scrittore siciliano che, ad esempio, mentre ne Il Consiglio d’Egitto e in Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia festeggia una vera e propria gioia dei corpi, ne Il cavaliere e la morte mette a nudo la potenza distruttiva della malattia e della morte (Cfr. Il cavaliere e la morte: 111-112)

5000000072773_0_0_0_768_75Nero su nero

Nero su nero è uno dei libri di Leonardo Sciascia più citati e variamente interpretati da quasi tutti i partecipanti al Convegno di cui parliamo. Il libro venne pubblicato dall’editore Einaudi nel giugno 1979. Lo stesso autore spiega, nella quarta di copertina, la sua genesi: siamo di fronte ad una sorta di diario, simile al Diario in pubblico di Vittorini. In esso Sciascia ha raccolto note e appunti scritti nell’arco temporale compreso tra l’estate del 1969 e il 12 giugno 1979. La maggior parte di queste note erano già state pubblicate su giornali come Corriere della sera, La Stampa e L’Ora. Il titolo, precisa l’autore, «vuole essere parodistica risposta all’accusa di pessimismo che di solito mi si rivolge: la nera scrittura sulla nera pagina della realtà». Sciascia, come è noto, curava spesso anche le copertine dei suoi libri. In questo è riprodotta l’acquaforte del cecoslovacco Jindrich Pilecek, intitolata Specchio, che lo scrittore teneva nel suo studio palermitano, come ironico memento del realismo socialista.

Oltre ai libri di Sciascia, mancano oggi particolarmente i suoi puntuali e taglienti interventi sulla stampa quotidiana e periodica. In un momento in cui tanti scrittori ed intellettuali sembrano diventati ciechi e muti, si avverte ancora di più il vuoto che ha lasciato. In alcune delle pagine più belle di Nero su nero, Sciascia ricorda in modo struggente l’amicizia che lo ha legato, fin dai primi anni cinquanta, a Pasolini, scrivendo:

«Io ero – e lo dico senza vantarmene, dolorosamente – la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. […] La sua morte – quali che siano i motivi per cui è stato ucciso [...] – io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitamente dibattuto scrivendo, nell’ ultimo numero del “Mondo”, una lettera a Italo Calvino» (Nero su nero: 175-176).

«Non è più possibile scrivere: si riscrive», ricorda Ester Gurnari nella sua bella relazione citando Sciascia. La studiosa dell’Università di Cambridge riflette in modo originale sulla pratica della riscrittura e dell’intertestualità nell’opera sciasciana, mettendo a fuoco l’arco temporale che va dal 1969 al 1979, anni corrispondenti alla stesura di Nero su nero, che invita a leggere come un palinsesto su cui poggia l’analisi di intertesti e riscritture come Il Contesto (1971), Todo modo (1974), La scomparsa di Majorana (1975) e L’affaire Moro (1978). In questi testi si può osservare come i riferimenti letterari abbiano una funzione sia epistemologica che etica che affronta i problemi della Verità e della Giustizia sempre intimamente legati nell’opera di Sciascia.

Nella sua articolata ed acuta esposizione Ester Gurnari prende le mosse da una intervista rilasciata dallo scrittore di Racalmuto nel 1987 a Claude Ambroise, primo curatore delle sue opere complete, pubblicate da Bompiani mentre era ancora vivo l’autore, laddove Sciascia afferma: «Non è più possibile scrivere: si riscrive. [...] Del riscrivere io ho fatto, per così dire, la mia poetica: un consapevole, aperto, non maldestro e certamente non ignobile riscrivere» (14 domande a Leonardo Sciascia).

81rrohl4jblLetteratura e microstorie (confronti)

Il Convegno ha dato spazio alla ricerca di inediti confronti tra l’opera di Sciascia e quella di altri importanti autori del 900. Particolarmente convincenti mi sono apparsi i contributi di Donatella La Monaca e Michele Maiolani che, rispettivamente hanno messo a fuoco i rapporti tra lo scrittore siciliano e Anna Maria Ortese e Carlo Ginzburg.

Donatella La Monaca ha colto ne La comune passione del giusto il profondo legame che unisce Sciascia alla Ortese. La Monaca prende le mosse dal carteggio tra i due scrittori venuto alla luce nel 2009, grazie all’infaticabile lavoro di ricerca di Antonio Motta che lo ha pubblicato sulla sua rivista Il Giannone. La lettura di questo “carteggio lacunoso”, risalente al 1978, offre più di uno spunto per comprendere il comune sentire tra i due autori. La Monaca concentra la sua attenzione, soprattutto, nell’analisi di due loro grandi opere: Il mare non bagna Napoli (1953) e Le parrocchie di Regalpetra (1956). Libri generati entrambi da grumi autobiografici fondanti, la militanza giornalistica nella rivista Sud per la Ortese e la prassi dell’insegnamento elementare per Sciascia: «Sin da allora la voluta ibridazione di saggio antropologico, documento e invenzione narrativa si alimenta della percezione acuta delle divaricazioni sociali, dell’indigenza mortificante, della privazione dei diritti fondamentali».

Ed è proprio attraverso l’analisi puntuale delle opere dei due autori che l’autrice comprende le ragioni che spingeranno Sciascia il 4 novembre 1978, dopo un lungo silente dialogo con la scrittrice napoletana, a scriverle una straordinaria lettera dove si possono leggere queste parole:

«Le sue domande sono anche le mie. E principalmente questa: che cos’è questo Paese? Un Paese, sembra, senza verità; un Paese che non ha bisogno di scrittori, che non ha bisogno di intellettuali. Disperato. Pieno di odio. E nella disperazione e nell’odio, propriamente spensierato di una insensata sciocca vitalità».

Il confronto tra le narrazioni documentarie sciasciane e i saggi di microstoria di Carlo Ginzburg è il tema che affronta Michele Maiolani nel suo ottimo intervento. Il legame tra Sciascia e lo storico torinese, spesso taciuto dalla critica, rivela diversi punti di contatto, non solo nei temi trattati, ma soprattutto nel campo delle scelte stilistiche e delle tecniche retorico-narrative adottate. Benché le opere dei due autori facciano riferimento a due distinti criteri di verità – quello della storiografia e quello della letteratura – Sciascia e Ginzburg ricorrono a metodi e strumenti simili per far parlare documenti d’archivio lacunosi e di difficile lettura.

Maiolani mette a confronto la Morte dell’inquisitore (1964), uno dei testi più cari allo stesso Sciascia che più si avvicina ai canoni della scrittura storica, con due libri di Ginzburg, I benandanti (1966) e Il formaggio e i vermi (1976). Non c’è prova di filiazione diretta tra queste opere. Ma è fuor di dubbio che, a partire dalla fine degli anni Sessanta, Sciascia e Ginzburg conoscessero le opere dell’uno e dell’altro. D’altra parte esse, oltre ad avere una comune radice manzoniana, mostrano una particolare attenzione verso il tema dell’eresia e dell’Inquisizione, come aveva già notato in maniera piuttosto isolata Ivan Pupo nel saggio del 2011: Narrare l’inquisizione. Appunti sul “paradigma indiziario in Ginzburg e in Sciascia.

L’importante contributo di Michele Maiolani mostra come focalizzare l’attenzione su aspetti apparentemente minori del passato o riscoprire vicende dimenticate può portare a rileggere un periodo storico in modo inaspettato, rimediando alle distorsioni etnocentriche della storiografia positivista (Ginzburg) o portando avanti un’operazione critica di “controstoria” (Sciascia).

f093abd26b893e414ab887803436934a_w_h_mw600_mh900_cs_cx_cyLa Sicilia come metafora del mondo

È fin troppo nota la centralità che ha la Sicilia nell’opera di Leonardo Sciascia. Nessuno ha mai avuto dubbi sulle radici siciliane dello scrittore di Racalmuto. Ma taluni hanno preso spunto da questo dato di fatto per tentare di ridimensionarne il valore arrivando a considerarla provinciale. In realtà non meriterebbero neppure di essere prese in considerazione certe posizioni. Nel Convegno è toccato ad Alessandro Secomandi il compito di parlare della fortuna internazionale di Sciascia ricordando l’opera dello scrittore messicano Federico Campbell. A Campbell, oltre a tanti racconti, si deve una delle migliori monografie che siano state scritte su Sciascia. Così ne parla Claude Ambroise:

«La migliore presentazione […] è un libro in lingua spagnola, scritto da un messicano [La memoria di Sciascia] che, senza pedanteria, ma con precisione e passione, delinea il contenuto della ricerca sciasciana. L’appartenenza di Campbell alla hispanidad gli consente anche di dare maggiore spessore al lato spagnolo dello scrittore siciliano: non per sentito dire, il critico messicano riattiva […], in un contesto sudamericano, le riflessioni sull’Inquisizione e sulla giustizia» (Ambroise, La fortuna critica di L. Sciascia, in Opere, vol. III,1991, citato da Secomandi).

Secondo Campbell il Messico è simile alla Sicilia per le radici storico-culturali comuni: dominazione spagnola, cattolicesimo, Inquisizione. Anche per questo in Italia, come in Messico, «nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere». Campbell ammira anche lo stile narrativo dello scrittore siciliano: «Leonardo Sciascia è uno scrittore secco: appartiene a quella specie che aspirano a dire il più con il meno. […] la stessa Sicilia è la metafora del mondo».

Sono i fatti a dare ragione a Sciascia. I suoi ragionamenti non scaturiscono da precostituiti schemi ideologici ma dalla osservazione critica della realtà. Tutti gli scritti di Sciascia riescono a rappresentare la realtà senza veli, anche quelli considerati minori. Ad esempio Marina Castiglione, nel proporre una originale “analisi pragmatica” di una piece teatrale, L’ onorevole (1965), dello scrittore di Racalmuto, svela i meccanismi della corruzione che hanno trasformato radicalmente intellettuali e politici:

«Un esame impietoso e profetico, che ancora nulla sapeva di ciò che sarebbe accaduto tra prime, seconde e terze repubbliche, della sua stessa esperienza di onorevole deluso, ma che nella mente lucida e senza pregiudizi di Leonardo Sciascia aveva già tutti gli addendi necessari per ricavarne la futura somma di vizi pubblici e privati» (La parabola disonorevole del prof. Frangipane e del ruolo dell’intellettuale).
img-20191124-wa0016

Marina Castiglione al centro, in occasione di un seminario internazionale su Sciascia

Studi linguistici su Sciascia e nuova edizione di tutte le sue opere

Come nota Roberto Sottile nel suo intervento (Per uno “sciasciario dialettale” 100 e più parole delle “Parrocchie” siciliane), Sciascia è stato poco esplorato dal punto di vista linguistico, pur essendo stato uno degli scrittori italiani più studiato sul piano storico-letterario. Il Convegno ha cercato di colmare questa lacuna riservando una ampia e approfondita sezione all’analisi linguistica della sua opera. Non possiamo adesso, in questo spazio, riprendere per esteso i diversi contributi che occupano più di cento pagine del volume che stiamo esaminando, come si può vedere già dall’Indice. Ci riserviamo di analizzare e discutere questi importanti ed originali contributi in un’altra occasione. Qui ci limitiamo a segnalare, tra gli gli altri, il prezioso contributo di Salvatore Claudio Sgroi (Gli studi (meta)linguistici su Leonardo Sciascia) che, oltre al suo indubbio valore specialistico, aiuta a sgombrare il campo da tante inutili polemiche che hanno accompagnato la sfortuna critica dello scrittore di Racalmuto.

I lavori del Convegno si sono conclusi con la relazione del filologo Paolo Squillacioti che ha illustrato il metodo ed i criteri seguiti nel proporre la nuova edizione delle Opere di Leonardo Sciascia nella collana La Nave Argo di Adelphi.

Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] Gli Atti pubblicati sono stati curati da Marina Castiglione e da Elena Riccio che hanno collocato i diversi contributi dei partecipanti al Convegno all’interno di cinque macro aree tematiche: Pensiero e metodo, Opere, Confronti, Lingua, Tradizione. Gli interventi degli studiosi sono stati inseriti, all’interno delle suddette sezioni, senza alcuna distinzione di carattere anagrafico e di ruolo accademico, al fine di tenere insieme le voci più affermate della critica sciasciana con alcuni degli sguardi più recenti e innovativi sull’opera dello scrittore.
[2] Colgo l’occasione per polemizzare cordialmente con i curatori di questo bel volume che nell’ Introduzione, in modo discutibile, affermano che Sciascia non avrebbe «tuttora a pieno titolo compiuto il suo ingresso nel canone italiano del 900». Ma vien da chiedersi: a cosa servono i canoni? E quale autorità può stabilire chi è dentro e chi fuori?
[3] Rinvio, al riguardo, ad un mio saggio, disponibile in rete, pubblicato dieci anni fa su Quaderns d’Italià, n. 16, 2011: Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini.

 _________________________________________________________

Francesco Virga, laureato in storia e filosofia con una tesi su Antonio Gramsci nel 1975, fino al 1977 lavora con Danilo Dolci nel Centro Studi e Iniziative di Partinico. Successivamente insegna Italiano nelle scuole medie della provincia di Palermo. Nel 1978 crea il Centro Studi e Iniziative di Marineo che continua ad animare anche attraverso un blog. È stato redattore delle riviste «Città Nuove», «Segno» e «Nuova Busambra». Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Il concetto di egemonia in Gramsci (1979); I beni culturali a Marineo (1981); I mafiosi come mediatori politici (1986); Cosa è poesia? (1995); Leonardo Sciascia è ancora vivo (1999); Pier Paolo Pasolini corsaro (2004); Giacomo Giardina, bosco e versi (2006); Poesia e storia in Tutti dicono Germania Germania di Stefano Vilardo (2010); Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini (2011); Danilo Dolci quando giocava solo. Il sistema di potere clientelare-mafioso dagli anni cinquanta ai nostri giorni (2012).

_______________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Letture. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>