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Sardi nel mondo: l’orgoglio ferito

vi-congresso-lugano-2023di Aldo Aledda [*] 

Il sardo errante

Uno dei temi che è stato sempre all’ordine del giorno dell’agenda regionale sarda è come si possa tenere coeso un’ideale popolazione, per una metà residente nella terra di origine e per l’altra fuori. Non vi è dubbio che su questo problema la classe politica sarda dal dopoguerra a oggi abbia fatto la sua parte, come dimostra che la Regione Sardegna in questo campo è leader in Italia per attenzione al problema con risorse finanziarie, interventi e investimenti. Ciò va riconosciuto prima di tutto nell’appuntamento del 13 e 15 ottobre di quella che storicamente è tra le federazioni più organizzate e importanti di emigrati sardi all’estero (non a caso la personalità di spicco degli emigrati sardi all’estero, il cav. Domenico Scala, ne è stato per anni lo storico presidente) e che giustamente si preoccupa di guardare un futuro che ormai è alle porte, come recita lo slogan dell’evento. Un appuntamento nel quale, per inciso, si è raccolta l’emigrazione sarda di tutto il mondo.

A una attenzione, abbastanza relativa, dunque, è corrisposta una maggiore reciprocità da parte del mondo organizzato dell’emigrazione sarda che, sentendosi chiamato in causa dalla politica, ha cercato di mostrarsi sempre all’altezza delle aspettative. Ma altrettanto si può dire abbia fatto la società sarda e il resto delle istituzioni pubbliche e private dell’Isola? Questa è la domanda che ci poniamo ai margini di questo appuntamento, chiedendoci in particolare se e come i corregionali emigrati possono dare corso alla loro eterna aspirazione di contribuire allo sviluppo della terra di origine.

I punti di attacco per capire se i sardi siano in grado di contribuire o, addirittura, di essere artefici dello sviluppo del territorio di cui un tempo loro o i propri avi facevano parte sono molteplici, anche se molti di essi possono divenire altrettanti ostacoli alla realizzazione di un disegno coerente. Ma perché l’analisi possa essere puntuale e realistica prima di tutto dobbiamo capire quali sono i nodi da sciogliere e le conseguenti difficoltà da affrontare.

images-1Quando l’emigrato diventa scomodo

Il primo ostacolo proviene dallo strascico del risentimento causato dalla decisione assunta a suo tempo da larga fetta della popolazione residente di abbandonare la propria terra, in cui colpiva l’immaginario collettivo la massa di giovani che lasciavano a casa anziani e coetanei che non intendevano seguirli in una decisione che in gran parte non condividevano. Una vicenda questa su cui non sempre è calato l’oblio e meno che mai ci sono stati segnali di riappacificazione, per cui non si può affermare con certezza che sia stata rimossa soprattutto nella misura in cui essa appare strettamente collegata alle ragioni che sono state a monte della decisione di fuggire dalla propria terra. 

Le teorie sulle cause per cui i popoli nel corso della storia si muovono, si spostano, emigrano a ben vedere obbediscono a schemi interpretativi che non possono fare a meno di rifarsi alle categorie di pensiero e agli impianti ideologici del proprio tempo o a quello dell’autore, per cui tante volte si risolvono in pregiudizi basati su una falsa lettura della realtà. Risalendo nel tempo troviamo, per esempio, che in epoca romana i movimenti di popoli e di tribù provenienti dal nord e dall’est del continente euroasiatico e che comportarono significative modificazioni nella struttura sociale e politica, furono definiti “invasioni barbariche”, idea questa che si mantenne ferma nella storia fintanto che non intervennero a precisarla e a confutarla storici del livello di Henry Pirenne e George Le Goff. Questo fenomeno, contrariamente a ciò che dicono molti, non portò all’abbattimento dell’Impero che invece sopravvisse per altri tre secoli, fu riconosciuto come costituito da flussi migratori proprio da questi studiosi, quindi tardivamente rispetto al suo presentarsi. Tuttavia l’impressione dell’invasione, così come l’abbiamo appresa nelle aule scolastiche, è diventata così forte ed è ancora talmente radicata nella nostra cultura da essere utilizzata grottescamente ancora oggi da molte correnti di pensiero e forze politiche per designare immigrazioni considerate eccessivamente massive, composte da etnie differenti da quelle del Paese in cui si riversano e nelle quali i residenti sembrano scorgere tratti di aggressività che riporterebbero all’epoca in cui i residenti all’interno dei confini della Roma imperiale vedevano tribù aggirarsi dall’est e dal nord alla ricerca di spazi vitali che non gli appartenevano.

Per continuare nel nostro breve excursus storico, vediamo che successivamente lo schema dei movimenti delle popolazioni, soprattutto all’interno del continente europeo e in parte in quello americano che si incominciava a occupare, ha privilegiato le cause religiose, a seguito soprattutto della Riforma e della Controriforma della Chiesa con le relative persecuzioni e lotte che ne seguirono. Dall’Ottocento ai nostri giorni, nel quadro delle visioni economicistiche, sia di stampo liberale sia marxista che si andavano affermando nella cultura e nella società, l’origine dei flussi, in una logica di rapporto tra strutture e sovrastrutture, è stata ascritta soprattutto alle trasformazioni economiche che, nel caso singolo, si risolvevano soprattutto nella ricerca di un’opportunità lavorativa. A dimostrazione di come i ragionamenti sui motivi per cui si abbandona la propria terra alla ricerca di condizioni migliori siano in costante evoluzione, oggi incominciano a fare capolino le cosiddette cause climatiche, una relativa novità che rende l’idea di masse di individui intenti a fuggire dai Paesi più colpiti dal surriscaldamento dell’orbe terracqueo in direzione di quelli in cui gli effetti sembrano più tollerabili: il caso di scuola è quello dell’emigrazione africana verso l’Europa.

In buona sostanza la monocausalità delle ragioni per cui un individuo emigra tende a non tenere conto del punto di vista del singolo emigrante, che non si può negare si muova personalmente alla ricerca di nuove o migliori opportunità lavorative. Essa, tuttavia, funziona meglio come analisi del sistema nel suo complesso, in cui non appare scorretto prendere in considerazione le ripercussioni economiche dovute alla divisione internazionale del lavoro, agli squilibri economici tra nord e sud o tra est e ovest, le leggi di mercato, i dislivelli di reddito, ecc., ossia tutti fattori macroeconomici che spingerebbero la parte della popolazione che si trova a subirne le ripercussioni a spostarsi in aree dove esisterebbero migliori opportunità occupazionali.

Un altro limite della teoria economica è di considerare il migrante, da un lato, un homo oeconomicus in grado di esercitare una razionalità e un discernimento poco verosimile e, dall’altro, trattarlo alla stregua di un soggetto passivo in totale balia delle leggi di mercato, incapace di darsi un progetto di vita che non provenga dalla costrizione o dai limiti di un sistema. Quest’ultima sensazione è favorita soprattutto dall’impressione di omogeneità umana che danno spesso i flussi migratori quando ad abbandonare la propria terra sono in massa gli abitanti di un certo villaggio o di una particolare area geografica, che inducono a ritenere che la volontà individuale si annulli in tutti i modi nella decisione collettiva deresponsabilizzando nella sostanza l’individuo che la assume. Ciò appare tanto più evidente quando, per esempio, si vede che più di ogni altro aspetto a stimolare i flussi migratori sono le cosiddette “catene” che risalgono a cerchie di parenti e di amici del proprio villaggio e indirettamente selezionano chi parte con logiche che sono relativamente economiche ma che non mancano di componenti affettive. Coerentemente con le tesi che andiamo illustrando, ossia che l’incidenza del fattore economico sia inferiore a ciò che appare nella realtà è dimostrato anche dal fatto che la decisione di alcuni emigranti che hanno fatto fortuna all’estero di rientrare nella terra di origine portandovi iniziative e ricchezze – e ciò vale per molti Paesi nel mondo, non solo per l’Italia e per la Sardegna – avviene in omaggio a una ragione che, in ultima analisi, non è razionalmente economica bensì meramente  sentimentale.

foto-bando-circolo-dei-sardiIn realtà se si analizzano le singole biografie anche di coloro che decidono di unirsi a un gruppo che sembra avere organizzato (o essere organizzato come fu per i contratti di emigrazione del secondo dopoguerra in cambio di carbone verso l’Europa centrale giusta anche l’analisi dello storico dell’emigrazione italiana, Toni Ricciardi [1]), osserviamo che esistono margini di discrezionalità che l’interessato si riserva di sfruttare sino alla fine. Si tratta di quelle ragioni che la gran parte degli studiosi dei flussi migratori, pur considerandole molteplici e concomitanti, hanno reputato marginali. Ma che a un’attenta visione del problema diventano, sì, concomitanti ma all’occorrenza addirittura più decisive di quelle economiche che tutt’al più, come la mancanza momentanea di un’occupazione, ritengo che vadano considerate più correttamente scatenanti. Mi riferisco sia alla struttura sociale in cui vive il potenziale emigrante sia a tutta una serie di soggetti che influenzano, determinano e condizionano la vita sociale. Ciò che voglio dire rispetto al più specifico problema è che il mancato occultamento o il risorgere delle ragioni che portarono alla decisione di abbandonare la propria terra, anche in una logica di “profezia autoverificantesi”, come la definiva il sociologo americano Robert K. Merton, il migrante si autoconvince che le ragioni che stanno a monte della sua decisione di abbandonare la terra di origine siano prettamente economiche e perciò decide di portarsele appresso come un documento di identità e giustificazione per bypassare tutti gli ostacoli che si frappongono al suo rientro, comprese le ragioni di indole sociale che furono all’origine dello strappo col  suo territorio.

In questa prospettiva lo sguardo va esteso alla società di provenienza del migrante che già a suo tempo si presentava come un sistema chiuso e, come capita ancora oggi, poco meritocratico, scarsamente remunerativo, e poco disponibile al ricambio oltre che agli stimoli e ai cambiamenti che provenivano da proposte e progettualità magari ancora male espresse o che semplicemente si manifestavano in termini di ansie e di aspirazioni, soprattutto da parte di quelle giovani generazioni che ritenevano non avesse più senso indugiare in un tipo di società in cui per loro non c’era più posto. Nel secondo caso alludo ai soggetti che governano il sistema. Nel caso della Sardegna un ruolo fondamentale lo ha esercitato la figura del padre padrone elaborata per la prima volta con molto acume da Gavino Ledda nell’omonimo romanzo e poi divenuta schema universale. Tanti emigrati, e non solo sardi, sono dovuti scappare dal contesto familiare a causa del genitore che non lasciava ai figli alcuno spazio nell’attività imprenditoriale o, più in generale, da un contesto familiare complessivo – madri, soprattutto per le donne, ma anche fratelli e sorelle maggiori, zii, zie ­­– che pretendevano di imporre a tutti i componenti del nucleo decisioni di vita, sempre naturalmente ratificate dal padre, semplicemente ispirate alla tradizione e contro le singole scelte e le precipue vocazioni.

logo-definitivo-italiano640Un ruolo analogo se lo sono ritagliati anche i leader della comunità, dal parroco al sindaco fino al politico locale di riferimento, i quali imponevano comportamenti, etica, doveri e obblighi non sempre condivisi dagli interessati (per esempio, votare per quel partito politico o fare un matrimonio di un certo tipo o occupare un “posto” di lavoro più funzionale alle strategie familiari o alla cerchia di riferimento più vasta ma disfunzionale all’interessato). E tutto ciò senza giungere alle patologie del cosiddetto familismo amorale [2], in particolare riferendosi alle organizzazioni criminali così diffuse soprattutto nel meridione d’Italia (anche se qualche volta queste sono a loro volta emigrate, pensiamo non solo ai mafiosi e ai camorristi che si sono trasferiti con i compaesani in America o in Germania, ma anche ai banditi che hanno seguito o si sono confusi con i pastori sardi in Toscana e in Emilia).

Ciò che voglio dire è che il sistema non dimentica chi a suo tempo lo ebbe a “tradire”. Chi è emigrato in queste condizioni generalmente è “perdonato” appena dalla madre, ma più difficilmente dal padre, dai fratelli e dagli amici. E tutti costoro, sia pure col sorriso sulle labbra e l’apparente professione di affetto o di amicizia il giorno del rientro, già quello successivo sono pronti a fargli il vuoto intorno quando e se per caso quello fosse definitivo, disposti a far cadere proposte e vanificare buone volontà e disponibilità a rendersi utile per il proprio paese.

L’incomunicabilità che ne discende è alimentata oltre che dalla memoria mai cessata delle ragioni che a suo tempo determinarono la volontà di emigrare e che furono all’origine di litigi, incomprensioni, rottura di rapporti, ma lo è anche dalla personalità bipolare che spesso matura il migrante nel corso della sua esperienza, comportamento questo che infastidisce non poco chi è rimasto. Infatti, tantissimi, ambiguamente socializzati nella nuova terra di elezione, mentre stanno all’estero elogiano e proclamano il primato della terra di origine: più bella, dalle spiagge più fantastiche del mondo, con la gente meravigliosa, schietta, sincera, in cui risolvi tutto con una stretta di mano, meglio ancora davanti a un bicchiere di vino in un convivio gioioso e sincero che tutto accetta e tutto fa passare. Poi, magari quando torna in Sardegna la stessa persona non fa che decantare i pregi del paese che li ha accolti: ben altra organizzazione sociale, ben altro sistema sanitario, altra cosa la pulizia degli ambienti fisici e della gente – che oltretutto è più gentile e educata –, senza contare le migliori opportunità per vivere e divertirsi, per non parlare del lavoro e delle iniziative economiche, dove tutto è più semplice e alla portata.

Questi atteggiamenti, soprattutto se portati allo stremo e per quanto per certi versi siano condivisi da chi ascolta, alla lunga stancano e diventano ancora di più motivo di rigetto del familiare o dell’amico che li esprime. Non solo, ma rinfocolano il risentimento che si era formato quando l’aspirante migrante, per effetto del fenomeno noto in sociologia come ‘socializzazione anticipatoria’, professava i propositi di recarsi in quei luoghi che erano decantati da chi li aveva già conosciuti e li riteneva migliori giurando che anche i suoi compaesani vi avrebbero trovato realizzazione. In quel modo, spesso anche senza accorgersene, offendeva l’intelligenza e la sensibilità dei suoi familiari e degli amici che lo stavano ad ascoltare e che magari si erano rimboccati le maniche per rendere migliore il posto in cui vivevano, considerando il migrante solo uno che fuggiva dalle responsabilità nei confronti della propria terra e della propria gente [3].

Sardi nel mondo, mappa

Sardi nel mondo, mappa

Il risentimento istituzionale

Tuttavia, l’aspetto più grave è costituito dalla proiezione di codesto risentimento a livello istituzionale. In Italia si manifesta, da un lato, nell’atteggiamento negativo assunto verso gli emigrati dalle rappresentanze diplomatiche e consolari all’estero, aggravando il peso degli adempimenti burocratici, avversando taluni e favorendo talaltri, ecc. e , dall’altro, anche negli istituti pubblici, come quelli pensionistici, fiscali, scolastici e universitari che sembra facciano a gara a creare intoppi e difficoltà agli italiani, anche cittadini, che vivono fuori dai confini nazionali non corrispondendo le somme dovute, tassando prime case come seconde di chi non ne ha all’estero, ecc., ecc.

L’appesantimento burocratico è lo strumento preferito per tenere a bada il migrante che allargasse troppo nelle sue richieste, e lo si vede anche in Sardegna. La polemica costituisce una costante della lamentazione degli emigrati sardi da quando esistono le loro organizzazioni e ne abbiamo visto strascichi anche in questo congresso. La ragione è semplice: quando dalle enunciazioni politiche e le promesse, altisonanti e rassicuranti, si passa alle realizzazioni il sistema ­– a maggior ragione in questi ultimi decenni in cui il legislatore nazionale e regionale ha voluto scindere le responsabilità politiche da quelle attuative e gestionali affidando queste ultime al solo apparato burocratico dimenticandosi di introdurre le necessarie modifiche che fin dal dopoguerra i politici e gli studiosi più accorti richiedevano – il sistema, dunque, appare sempre più inadeguato. Se ieri in Sardegna col vecchio meccanismo il politico poteva far prendere altre pieghe alle decisioni dell’ottuso burocrate, oggi questo non è più possibile se non rivolgendosi alle magistrature specializzate. Il risultato è di alimentare maggiormente la frustrazione del mondo dell’emigrazione accrescendone il senso di impotenza e, in particolare, accentuando la sensazione di trovarsi costantemente immessi in un gioco dell’oca in cui si ritorna sempre alla prima casella e riesce ad andare avanti solo chi, vivendo nel territorio nazionale e quindi essendo abituato a questo modo patologico di condursi le cose in Italia, riesce ad avere maggior successo.

Se si passa dal mondo organizzato dell’emigrazione e dal rapporto dei singoli emigrati-utenti con la burocrazia italiana a quello dell’imprenditoria e delle professionalità dei sardi all’estero è noto che se non si hanno sponde e consulenze in Sardegna il rischio di fare buchi nell’acqua è sempre in agguato. Vi è, infatti, un piccolo capitolo di questa dolorosa storia costituito da un numero non indifferente di operatori economici o semplici artigiani che desideravano portare le proprie esperienze e competenze nell’isola che sono stati frenati o espulsi proprio dagli ingranaggi di questo meccanismo. Ed è stata spesso questa la sorte del rientro che mi accingo a definire spontaneo.

logo-circolo-4-mori-aps-rivoli_Rientri spontanei o assecondati?

Possiamo definire le modalità di collaborazione tra quelle che in genere si definiscono le due sponde, fondamentalmente due: “spontanea” o “assecondata”. Nel primo caso si designa un tipo di rapporto con la terra di origine basato sull’iniziativa individuale, in cui il caso classico è di chi decide di rientrare perché ha raggiunto la pensione oppure di chi ha la possibilità di fare un investimento economico in un settore di sua competenza, esempio tipico quello turistico. Si tratta dell’ipotesi più debole, sia perché è difficilmente quantificabile e quindi meno adatta a delineare un fenomeno; poi, vi è la conseguenza più seria, costituita dal fatto che il trasferimento individuale non modifica la cultura dell’area in cui ci si riporta, nella fattispecie quella sarda, in senso moderno e meritocratico ma rischia al contrario di risucchiare il rientrante negli aspetti più negativi della mentalità locale, sia dal punto di vista imprenditoriale sia sociale.

Il secondo caso, del rientro assecondato, intanto è quello che qualifica meglio una “politica” in questa direzione e, poi, giacché può contare su una massa d’urto in grado non solo di resistere alle pratiche negative del territorio ma anche di trasformarne la cultura, è quello che in ultima analisi si rivela più produttivo. Ma perché ciò sia possibile è necessario l’intervento a monte di due soggetti. Il primo è l’istituzione locale, nel nostro caso la Regione e i comuni, che siano in grado di mettere in piedi un’autentica politica di “rientro” e di “inserimento” nel tessuto sociale di chi ha suo tempo è emigrato. Il secondo è l’esistenza di un sistema nel Paese di origine, a partire dalle istituzioni pubbliche – ambasciate e consolati, in primis – e a finire col mondo dell’associazionismo organizzato, che renda realizzabili questi propositi.

copertina-evento-facebook-sardi-nel-mondo-2020Le scelte politiche

L’aspetto più rilevante è che l’impegno politico, soprattutto dall’inizio del nuovo millennio non sempre è stato all’altezza di queste esigenze, nel senso che anche in epoche di maggiore sensibilità nei confronti dei sardi fuori dell’isola la classe politica e dirigenziale della Sardegna non è mai voluto andare troppo al fondo di codesto problema, accontentandosi di slogan e di luoghi comuni. Come spiego più diffusamente anche nel mio libro, Sardi in fuga in Italia e dall’Italia, vi sono stati almeno tre tentativi ricorrenti nella storia dell’autonomia [4]. Il primo, quando negli anni Sessanta col Piano di Rinascita si cercò di invertire i flussi migratori allora in corso preoccupandosi soprattutto di quella classe operaia che si recava nel nord e centro Europa con il famoso slogan “torna c’è un posto anche per te”, operazione che ebbe una consacrazione legislativa con la legge del 1965 del Fondo Sociale, ma che non si può dire abbia avuto successo. Il secondo tentativo si registra negli anni Ottanta quando ci si rivolse soprattutto alla piccola imprenditoria semiartigianale cercando di semplificare anche il percorso burocratico (creando, tra le varie cose un apposito ufficio di consulenza presso l’assessorato del lavoro) e prevedendo incentivi per chi intendeva rientrare con attività proprie; e qui parliamo della legge tuttora vigente, la n.7 del 1991. Tuttavia, anche in questo caso i risultati non furono quelli che ci si attendeva giacché era presupposto che lo spontaneismo si creasse solo sulla base delle informazioni generiche che si potevano trarre da qualche bollettino pubblico o privato o dal passaparola o dei bollettini interni dei circoli sardi e dei consolati italiani all’estero.

Il terzo e ultimo tentativo lo si è avuto agli inizi di questo millennio quando, sia pure senza particolare copertura legislativa, si cercò di sperimentare una formula imprenditoriale: portiamo fuori le iniziative della Sardegna e vediamo se non la persona fisica dell’emigrato sardo almeno i suoi soldi e le sue intraprese potranno permettere un qualche ritorno nell’isola. Inutile dire che anche quella volta non si ebbero riscontri significativi e, considerati la riduzione dei finanziamenti a una mera annualità e lo scarso tempo per agire più in profondità nei territori in cui si vollero istituire i centri di ricerca, praticamente in tutto il mondo, anche a costo di darmi un po’ la zappa sui piedi essendo stato tra gli ideatori dell’iniziativa, devo riconoscere che l’operazione finì in una bolla di sapone. Successivamente si sono avute altre cose, molte delle quali, pare, estemporanee, ma tutto è rimasto come prima.

81azz8f7gql-_ac_uf10001000_ql80_La storia maestra di vita e prospettive future

Prima di procedere, dunque, è bene trarre insegnamento dal passato. Come ho premesso, perché ciò che dico e auspico sia attuabile sono necessarie due sponde: una regionale e un’altra associazionistica. Vediamo nel dettaglio questi aspetti.

Sul fronte interno, quello della Sardegna, è necessario che alla base vi sia una politica seria, non meramente partitica o elettoralistica, ma con lo sguardo rivolto alla sorte e ai problemi di fondo della società sarda e uno più attento alle future generazioni. Sotto questo punto di vista gli aspetti cruciali che si possono mettere in relazione con l’apporto che può giungere dai flussi migratori, in generale ma in particolare sardi, sono due: a) il problema dello spopolamento e dell’invecchiamento della popolazione con relativa carenza di forze giovanili; b) la necessità di acquisire al sistema regionale competenze, professionalità e capacità imprenditoriali e di iniziativa che siano in grado, oltre che ovviare ai precedenti problemi, anche di sostenerlo nel tempo.

Prendendo in esame il sistema regione, per completare le cose già dette, possiamo osservare che esso ha conosciuto rispetto alla propria emigrazione due fasi. Una prima a flussi migratori in atto in cui, a parte la volontà di favorire i rientri con i mezzi più svariati (sussidi, rientro salme e masserizie, ecc.), si è cercato, attraverso la rete dei circoli, di garantire un’esistenza migliore e più pacificata con la terra di origine grazie a una comunità che si raccoglieva sia nel convivio sia nelle attività ricreative rendendo più facili anche i rientri temporanei nell’isola. A questa è seguita una seconda fase caratterizzata, dagli anni Ottanta del secolo scorso a flussi assestati, da una sorta di inversione dei ruoli, laddove non erano più gli emigrati a chiedere alla Regione che cosa poteva fare per loro, ma era questa che, parafrasando un po’ il Presidente John Fitzgerald Kennedy quando si rivolgeva agli americani, chiedeva agli emigrati che cosa potevano fare per la terra di origine. E ciò, specificamente domandandogli di impegnarsi a promuoverne l’immagine, a valorizzarne le molteplici espressioni culturali fino ad aiutarla economicamente sostenendo la sua produzione, soprattutto agroalimentare e artigianale, ma in particolare il turismo, nel mercato internazionale. Questa è stata la fase in cui si sono inseriti gli altri assessorati, segnatamente l’agricoltura, la cultura e i trasporti, accanto a quelli che per legge già si occupavano di emigrazione, in particolare gli affari generali per i rimborsi a chi si recava a votare, la sanità per l’assistenza individuale e i lavori pubblici per i problemi di rientro abitativo, ristrutturazioni, ecc.

Tutto ciò, messo insieme, indubbiamente ha costituito un’importante passo nell’elaborazione politica, in termini finanziari anche più consistente del budget dell’assessorato competente, che concentrava le proprie risorse sull’associazionismo. Infatti, un calcolo che si fece grosso modo del secolo scorso stabilì che, anche sulla base di parametri che aveva offerto per tutta Italia il ministero del tesoro, a fronte di un investimento annuo della Regione di circa sette miliardi di vecchie lire a favore dell’emigrazione sarda, alla fine il ritorno per la Sardegna, tra export, rimesse e turismo, era almeno quattro volte tanto.

Tuttavia, come tutte le politiche, sia pure meritorie e avvedute, come è stata questa, tenute troppo a lungo, mostrano il fiato corto. Perciò oggi possiamo dire che si, grazie anche alle organizzazioni dell’emigrazione sarda nel mondo, i prodotti sardi sono diffusi dappertutto ormai anche a prescindere da queste. Quest’anno sono capitato in un ristorante tedesco in Germania dove sono stato attratto da un piatto guarnito di “fregola sarda”, l’ho assaggiato e ho chiesto se per caso il cuoco fosse sardo, mi è stato risposto che era tedesco.  Altrettanto dicasi per il turismo. A parte che il turismo in Sardegna è stato inventato dagli “stranieri”, Aga Khan in testa, i sardi non si erano neanche accorti di possedere simili bellezze naturali, oggi la Sardegna è ampiamente conosciuta almeno in tutta Europa, anche qui c’entra il merito delle organizzazioni dei sardi che l’hanno promossa presso le comunità che li ospitavano favorendo i viaggi aerei e marittimi; ma ormai è anche questa è divenuta una macchina che cammina da sola. Il sottoscritto si permette di condurre sempre piccole inchieste in questo campo, soprattutto in Europa, frugando nel settore viaggi e turismo delle più importanti librerie nei Paesi che visita, in cui non manca di scoprire che esistono sì libri e guide di Roma, Venezia, Firenze, Napoli o Milano, ci mancherebbe, ma che sulle regioni italiane l’unica che trova, a parte qualche volta la Toscana, è solo la Sardegna, oltretutto in diverse edizioni e in svariate lingue, segno di un attivismo che non è solo dei sardi.

Che cosa significa tutto ciò? Che, pur riconoscendo i meriti innegabili al mondo dell’emigrazione, ormai i vari segmenti della società, della cultura e dell’economia sarda camminano con le proprie gambe, per cui è doveroso chiedersi se per caso non finisca per essere una dispersione di risorse continuare a finanziare iniziative miranti a promuovere questi settori economici e culturali. Più produttivo mi sembra oggi dedicarsi a sviluppare i discorsi cui ho accennato e sui quali si registra ormai una vera emergenza anche in maniera più avveduta e costruttiva di quanto non si faccia di solito. Per cui, parlando di rimedi allo spopolamento e all’invecchiamento, posto che volenti o nolenti, una prima risposta al territorio isolano che si renderà sempre più libero avverrà dai flussi migratori che dal sud del mondo avanzano verso il nord, c’è un altro sud che potrebbe costituire una parte di questa soluzione, ossia quello abitato proprio dai nostri emigrati: l’America latina. Ed è a questo punto che le politiche di ripopolamento da generiche e improbabili possono diventare concrete e settoriali e perfino solidali nei confronti di aree più svantaggiate. Ragionare in questi termini significa anche ribaltare la tradizionale concezione che vuole sempre l’emigrato a chiedere alla Regione col cappello in mano a fare qualcosa per lui e quest’ultima che, altre volte, esige che l’emigrato e le sue organizzazioni si comportino come il maggiordomo che corre ogni volta che il padrone (presidente, assessore o funzionario, che dir si voglia), suona il campanello [5]. Va ricercato un rapporto di parità, basato sulla reciprocità di interessi, ma soprattutto nell’interesse più elevato e nobile della Sardegna.

downloadUn patto faustiano

Oggi, nei principali Paesi del mondo è in corso la ricerca di risorse intellettuali e professionali per attuare meglio le politiche di sviluppo di cui questi hanno necessità per fronteggiare le trasformazioni straordinarie che impongono i cambiamenti climatici e le nuove esigenze energetiche. Perciò non solo in Europa e in Nord America, ma anche nei Paesi più avanzati dell’Asia e in qualcuno anche in Africa, si sta scatenando una lotta per attrarre i cervelli e le professionalità necessarie a questo sviluppo. Qui le politiche devono essere molto accorte, e in questo c’è da dire che l’Italia con le sue regioni non è certo capofila. Le leggi finanziarie del 2010 e del 2020 che hanno tentato quest’operazione si sono clamorosamente infrante nei meccanismi fiscali e burocratici del Paese determinando il quasi generale rientro all’estero di circa 15 mila professionalità che avevano penato di dare credito al Paese di origine e con il quale, sono sicuro, che non penseranno più di avere a che fare.

Ma tra gli appelli più patetici sono quelli che si rivolgono alle forze giovanili perché rimangano a casa perché qualcosa per loro si sta pensando di fare. Il problema anche a un primo sguardo è semplice: se dopo laureato in Italia mi offrite un posto di lavoro a 1000 euro mentre in Germania o in Olanda me ne danno 3000 e in Svizzera 5000 o a Dubai 6000, pur con tutto l’amore che porto per la mia terra e la mia mamma la decisione di dove andare è già nelle cose. E, poi, come pensare a un futuro in Italia quando chi ci vive non solo si è mangiato tutto, ma con un indebitamento pubblico alle stelle rischia di farmi trovare, se ritorno, in braghe di tele?

Perché ritengo che siano inutili e tardivi i richiami ai giovani. Intanto perché sono privi di senso di responsabilità storica. Gli autori di questi richiami, quando non sono coetanei privilegiati per ragioni familiari o politiche, in genere appartengono alle generazioni che, appunto, hanno lasciato a quelle successive solo un osso da rodere, mangiandosi le pensioni, dandosi retribuzioni elevate e facendo sconquassi all’ambiente. In genere, per dimostrare che il rimedio spesso è peggiore dei mali, cito il caso del Mezzogiorno d’Italia e delle isole il cui squilibrio nei confronti della parte Nord del Paese si è accentuato negli ultimi tre decenni del secolo scorso proprio quando sono cessati i flussi migratori all’estero e dal Sud al Nord e i giovani, quindi, sono rimasti nella terra di origine, magari dopo essersi laureati a Milano o a Bologna. Che cosa è successo? Semplicemente che i giovani, che magari hanno esordito con buoni propositi nella società e nel mondo del lavoro, una volta immessi nel territorio si sono trasformati anch’essi in quei baroni universitari che tanto criticavano o nei sanitari che altro non sapevano fare che affossare il sistema o, peggio ancora, nella classe dirigente e politica che firmava il sottosviluppo [6].

L’insegnamento da trarre, quindi, è che i giovani vanno ricambiati, sì, ma con altri provenienti da altrove o vanno reinseriti dopo una necessaria ed esaustiva esperienza all’estero, sempre che siano ancora disponibili. Oppure va resa più attrattiva l’offerta. E da questo punto di vista in funzione sempre del ricambio e del ripopolamento, a mio avviso, una soluzione che può funzionare, alla luce dell’emigrazione sarda e della relativa attrattività della nostra isola, può essere di rivolgersi ai giovani in cui il dislivello retributivo e le realizzazioni economiche sono inferiori. Ossia quelle che può offrire l’Italia e la Sardegna, ancora una volta ad aree come l’America latina. Per quanto riguarda i giovani residenti nei Paesi più competitivi del nostro l’alternativa può essere quella di proporre soluzioni di nomadismo digitale oppure di lavoro da remoto o temporaneamente per la Sardegna. Ma in tutti i casi perché ciò sia possibile occorre una valida politica regionale.

download-1I sardi organizzati in istituzioni all’estero

L’altro soggetto che rende possibile l’operazione è il fronte dell’associazionismo organizzato dei sardi nel mondo. Anche su questo tema esistono molte tensioni, ma anche la necessità di districarsi nella sua complessità.

Oggi l’associazionismo sardo è endemicamente in crisi. Lo è per tre ragioni fondamentali. La prima è che è in crisi tutto il fenomeno dell’associazionismo nel mondo occidentale, giusta le analisi del sociologo americano di Harvard Robert Putnam, per ragioni che si possono far risalire soprattutto alle trasformazioni sul piano del lavoro e del tempo libero [7]. La seconda è che per quanto riguarda l’emigrazione italiana ci si ritrova davanti all’esaurimento della generazione che lo ha costituito cui o ne succede una nuova oppure tutto è destinato a finire [8]. Nel caso della Sardegna la generazione che ha reso possibile il fiorire dei circoli è quella che è sorta dalla grande emigrazione del secondo dopoguerra che, una volta assestatasi nel Paese ospitante, con l’aiuto della Regione sarda, è stata la protagonista del movimento associazionistico: quasi tutti i circoli sardi, tranne quello di Buenos Aires che data al 1936, sono sorti tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta, ossia quando si alimentò per la prima volta la vera emigrazione di massa dalla Sardegna. La terza ragione è la preferenza delle nuove generazioni di migranti e discendenti dei previ migranti di ritrovarsi attraverso gruppi social invece che in sedi materiali.

Se questo è il quadro diverse sono le patologie e, altrettanto, possono essere le strategie per uscirne. L’associazionismo sardo si è sviluppato grazie all’incontro delle sue comunità più omogenee sparse in tutto il mondo e la volontà della Regione Autonoma della Sardegna non solo di sostenerle, ma anche di promuoverle e darle fiducia. Il sistema si è rivelato vincente fintanto che la prima generazione di emigranti, come abbiamo detto, ha retto ed è stata compartecipe. Non a caso, al culmine del fenomeno, negli anni Novanta avevamo oltre 160 associazioni di sardi nel mondo, organizzate in forma piramidali con federazioni che al vertice facevano riferimento alla Consulta regionale dell’emigrazione.

Al giro di boa del secolo l’associazionismo ha incominciato a scendere, per inciso non solo in Sardegna ma anche in Italia per le ragioni che abbiamo detto, riducendosi oggi a 122. In coincidenza con questo fenomeno anche le istituzioni pubbliche nazionali gradualmente si sono defilate dalla sua gestione. Dalla spesa complessiva in tutta Italia di circa 200 miliardi di vecchie lire nel 2000, appena prima del passaggio all’Euro, si passò a una contrazione del 78% già nel primo decennio del nuovo secolo. E, oggi, per quanto riguarda le regioni, solo quelle speciali, dalla Sardegna al Friuli Venezia Giulia e la Provincia Autonoma di Trento, mettono in bilancio qualcosa di più di un milione di euro l’anno; tutte le altre fanno piccoli progetti turistici, culturali e imprenditoriali con budget appena di qualche centinaio di migliaia di euro.

In Sardegna la contrazione delle risorse ha causato ulteriori patologie. Intanto la graduale scomparsa di federazioni e di circoli all’estero a fronte di un aumento sensibile in Italia, mentre la proporzione standard nel tempo della fioritura dell’associazionismo era di 60 a 40 tra estero e Italia, i numeri oggi si sono praticamente invertiti. Su questo è in corso una più o meno larvata polemica, che potremmo anche definire una guerra tra poveri, alimentata soprattutto dall’emigrazione estera che ha perso più pezzi e contesta ai sardi trasferitisi in Italia perfino la qualifica di emigranti, che invece ritengono l’ordinamento nazionale la attribuisca solo a chi vive all’estero.

Come stanno le cose in questo campo? Effettivamente la legislazione regionale, sorta in un clima autonomistico e per certi tratti anche di orgoglio indipendentista, ha parlato sempre di “Sardi fuori” (la legge vigente sull’emigrazione, la n. 7 del 1991, parla chiaramente, all’art. 1 di “comunità sarde residenti fuori dell’isola”), ricomprendendo in ciò chiaramente anche le migrazioni interne all’Italia (accomunate dall’handicap di dovere attraversare il mare e non i cieli come oggi, dove gli spostamenti sono più rapidi) tanto che all’art. 3 della legge citata si dice che intende «favorire l’associazionismo tra i sardi all’estero e in Italia». E ciò mette al riparo i finanziamenti alle associazioni dei sardi in Italia, ma egualmente giustificherebbe l’ipotesi di scuola per quanto remota che un giorno si decidesse di sostenere le eventuali associazioni di sardi dell’interno che volessero fondare circoli di compaesani a Sassari o a Cagliari sempre sotto l’etichetta dell’emigrazione e magari sotto l’egida della grande federazione italiana dal momento che anch’esse sono in Italia (a meno che  per “Italia” non si intenda una nozione astratta che sta fuori dalla Sardegna, cosa abbastanza improbabile). Tutto ciò è attenuato dal fatto che solo lo Stato per la Costituzione italiana, Titolo Quinto, art. 117, ha competenza esclusiva in materia di politica estera e di rapporti internazionale, come si evince dal Titolo Quinto, art. 117 p.a) della Costituzione italiana, appena attenuata da una competenza legislativa concorrente in materia di rapporti internazionali e l’Unione Europea delle regioni, che si incrocia  con analoga competenza in materia di cittadinanza, stato civile e anagrafe (punto h) rispetto alle quali la regione può legiferare all’interno dei principi che fissa lo Stato e che, per quando riguarda l’emigrazione, non sono mai stati stabiliti [9]. Ciò significa che lo Stato esercita in pieno la sua legislazione esclusiva.  Così pure va chiarito che lo stesso art. 1 della Legge regionale sull’emigrazione sarda, la 7 del 1991, quando parla di regione Sardegna, contiene l’inciso che questa agisce «in armonia con la legislazione statale vigente e nell’ambito delle proprie competenze statutarie».

2602Quando si va controllare codesta legislazione si scopre che essa è costruita e gestita interamente  dallo Stato che la esercita nell’ambito della politica estera, di cui è una branca, attraverso il competente ministero degli esteri [10]; oppure quando gli oriundi italiani volessero rientrare in Italia dai Paesi extraeuropei in cui vivono ricadrebbero nella definizione di “stranieri”, in pratica immigrati, per il Testo Unico n. 286 del 1998 – in cui si dice espressamente che è legge di riforma economica e sociale per le regioni, che quindi devono effettuare i propri interventi all’interno di essa. Se poi si vanno a vedere gli atti ufficiali, come l’attività delle strutture consolari all’estero e gli obblighi dei comuni e degli emigrati in relazione all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero), rientranti chiaramente nell’incrocio delle due summenzionate competenze dei punti a) e h) a tacere dall’ISTAT o quelli di altri istituti pubblici (si prendano a esempio gli articoli delle citate leggi finanziarie del 2010 e 2020 concernenti il rientro dei cervelli in Italia, che si riferiscono solo a chi risiede all’estero e non toccano le migrazioni interne), la definizione di emigrato nelle sue varie formulazioni è riferita esclusivamente a chi risiede all’estero. La ratio delle norme nella sua sistematicità è chiara: mentre il protagonista di immigrazioni all’interno dello Stato, pur soffrendo di handicap sociali, è tutelato, trattato (o maltrattato) e privilegiato dalle leggi al pari di tutti gli altri cittadini italiani, chi emigra all’estero non gode degli stessi vantaggi e perciò merita un occhio di riguardo da parte della legislazione e delle istituzioni italiane. Questo problema è superato a livello locale dalla legislazione regionale, ma è evidente che ponendolo sullo stesso piano dell’emigrazione estera si crea uno squilibrio.

Quindi, in buona sostanza il sostegno all’emigrazione diretta in Italia è perfettamente legittimo da parte dell’istituzione regionale non solo perché le leggi di settore regionale lo prevedono, ma perché rientra negli obiettivi di sviluppo economico e sociale della Sardegna favorire e attendersi vantaggi in qualche modo dai sardi che vivono fuori, ma tutto il discorso va armonizzato con i principi dello Stato italiano e della sua unitarietà che non prevedere una definizione di emigrazione che non sia ricompresa in quella verso destinazioni estere. Detto questo il problema si sposta totalmente sul piano politico. Perciò privilegiare l’emigrazione sarda in Italia rispetto a quella all’estero, intanto, significa porsi al di fuori del fenomeno emigratorio che, per definizione, dopo tutto quello che abbiamo detto, è tale solo se si riferisce all’italiano che sta o si trasferisce all’estero; poi, cosa non meno importante, trattare e mettere sullo stesso piano i due aspetti significa anche creare equivoci nella distribuzione delle risorse.  Che è quello che incomincia ad avvenire oggi.

Orbene la cosa si risolve solo facendo chiarezza nei ruoli, nelle funzioni e nelle competenze in cui si precisi che il sostegno alle pur meritorie e indispensabili organizzazioni dei sardi in Italia ha una valenza economica, sociale e culturale e prescinde dalla condizione sociologica dell’emigrante all’estero cui invece vanno rivolte le attenzioni in relazione al suo status, a prescindere da ogni altro ordine di ragioni che possono essere prese comunque in considerazione. Questo significa, anche in termini di prospettive giuridiche e politiche, che mentre tutto l’associazionismo italiano può trovare una sponda più appropriata in funzione delle sue iniziative economiche e culturali e meno in quanto tale (anche perché in Italia già esistono leggi apposite che regolano il terzo settore e addirittura coinvolgono la stessa Regione), quello estero necessita che vengano incanalate nella sua direzione risorse apposite destinate a mantenere e mettere in piedi organismi che consentano all’associazionismo di prosperare, rinnovarsi e agire nell’interesse della regione di origine.

Egualmente deve essere chiaro che l’associazionismo all’estero va promosso dove esistono comunità di sardi emigrati, possibilmente almeno da qualche generazione. E ciò perché la legge, in primo luogo, riguarda l’emigrazione e non la promozione della Sardegna in settori specifici per i quali la Regione, qualora volesse, dispone o potrebbe intervenire con ben altri e più potenziati strumenti; e, poi, perché l’esperienza ci ha insegnato che fondare circoli dove non c’è comunità radicata, ma solo una presenza di sardi dispersa su un territorio troppo vasto oppure appena una élite esistente temporaneamente per ragioni lavorative o professionali,  equivale a costruire un edificio sulla sabbia. Comprendo che essere presenti nei centri più importanti nel mondo a prima vista può apparire appagante per la Sardegna, e ci sono cascato anch’io quando ero in sala macchine, ma se la comunità è esigua e precaria per l’amministrazione, a parte il divertimento di andarci qualche volta, diventa solo uno sperpero di risorse.

L’ultimo problema da mettere a posto con l’associazionismo italiano è il rapporto con le giovani generazioni, sia i discendenti sia i nuovi arrivi. Pensare che i due sistemi – o le sedi fisiche o le aggregazioni sull’etere – siano alternative è inappropriato, giacché tutte le operazioni attraverso social o strumenti informatici, hanno sempre la necessità di materializzarsi. Che si tratti di ricevere un pacco o di organizzare un incontro tra amici da qualche parte sempre sul piano fisico, fosse solo un bicchiere di vetro o una tazza di ceramica, si deve ricadere. Per questo motivo opportunità vuole che le giovani generazioni restino sempre collegate tra loro, si incontrino online e attraverso lo stesso strumento costruiscano i loro rapporti, ma poi in qualche modo occorre che si vada a finire in una sede fisica nell’incontro tra persone. E queste ci sono, sono i circoli, e non c’è bisogno di inventarne altre. Ecco perché è miope lasciare che queste sedi vengano chiuse: vale meglio un’esistenza precaria perché da qualche radice di essa può nascere una pianta che una chiusura netta che renderà sempre più difficile ricominciare.

imagesLa bolla di sapone

In conclusione, possiamo affermare che a fronte di una Regione che, dal 1965 agli inizi del nuovo millennio (35 anni), ha speso per gli emigrati sardi e le loro organizzazioni in tutto circa 200 miliardi e dall’inizio del secolo altri 20/25 milioni di Euro, a tacere della cifra maggiore stanziata dalle altre branche dell’amministrazione (turismo, agricoltura, edilizia, cultura, assistenza, ecc.), sarebbe veramente impolitico che questo sforzo ricadesse nel nulla. Il sistema ha mostrato limiti, soprattutto dell’assistenzialismo, che vanno perciò rivisti, ma è necessario rivitalizzarlo reindirizzandolo verso obiettivi politici a vantaggio sia di chi un tempo abbandonò la Sardegna riconoscendogli o rendendogli tutto l’onore per ciò che ha fatto e rappresentato per la sua terra nei diversi angoli del mondo. E sia degli stessi sardi e delle istituzioni dell’isola cui va riconosciuto lo sforzo notevole e generoso, oltre che la buona fede, della propria terra di tenerli sempre legati a sé.

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
[*] Il testo rielabora la relazione tenuta dall’autore nel Congresso della Federazione dei sardi in Svizzera a Lugano il 13 -15 ottobre 2023.
 Note
[1] Cfr. Ricciardi, Toni (2016), Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone, Roma, Donzelli editore, passim.
[2] Cfr. Banfield, E.C. (1958), The Moral Basis of Backward Society, Free Press, New York
[3] Analizzo a fondo questo fenomeno nel mio primo libro sull’emigrazione sarda (1991), I sardi nel mondo. Chi sono, come vivono, che cosa pensano, Cagliari, Dattena, essenzialmente il terzo capitolo, La diaspora culturale: 139 ss.
[4] Aledda, Aldo (2023), Sardi in fuga in Italia e dall’Italia. Politica, amministrazione e società in Sardegna nell’era delle moderne emigrazioni, Milano, Franco Angeli: 123 ss.
[5] Ibidem: 193 ss.
[6] Sullo squilibrio Nord Sud in Italia cfr. Cottarelli, Carlo (2019), I sette peccati capitali dell’economia italiana, Milano, Feltrinelli: 120.
[7] Putnam, D. Robert (2000), Bowling alone. The collapse and revival of American community, New York, Touchstone [trad. It. Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Bologna, il Mulino 2004: 227 ss.]
[8] Me ne sono occupato, in particolare per l’emigrazione italiana in Aledda, Aldo (2018), Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche. La politica italiana nei confronti dell’emigrazione e delle sue forme di volontariato all’estero, Milano, Franco Angeli: 161 ss.
[9] In realtà, nell’ambito della prima Conferenza Stato-Regioni-CGIE, un gruppo di lavoro coordinato dallo scrivente predispose una legge quadro sull’emigrazione per le regioni, ma la proposta non andò mai avanti, segno di quanto lo Stato centrale non intendeva dare ulteriore spazio alle regioni in questa materia.
[10] In effetti lo stato italiano aveva incominciato a definire lo status di emigrante già in legge nel 1901 e nel 1913, definendo tale, a parte altri requisiti, colui che andava oltre il Canale di Suez o nei paesi oltre lo stretto di Gibilterra, escluse le colonie, cfr.  Marucco, Dora, Le statistiche dell’emigrazione italiana in Aa.Vv., Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, Donzelli 2001: 68 ss.

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Aldo Aledda, ha rivestito importanti cariche istituzionali nella regione Sardegna e nel Coordinamento interregionale italiano, è autore di I sardi nel mondo. Chi sono, come vivono, che cosa pensano (Cagliari, Dattena 1991), Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche. (Milano, FrancoAngeli 2018), Sardi in fuga in Italia e dall’Italia. Politica, amministrazione e società in Sardegna nell’era delle grandi migrazioni. La politica italiana nei confronti dell’emigrazione e delle sue forme di volontariato all’estero (Milano, FrancoAngeli 2023).

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