dialoghi intorno al virus
di Vito Teti [*]
20 aprile
Il grande sconquasso. «Madonna mia, chi rivotura» («Madonna mia, che sconquasso»)
Il sole che tramonta, tra Scilla e Cariddi, lo Stretto, le colline, i paesi e le nuvole d’ogni colore, le sabbie, i boschi, anche questa sera 10 marzo 2020, sembrano quelli di sempre. Sono gli stessi che osservo, guardo, fotografo da anni nel miei viaggi «attorno alla mia camera» o nelle mie scorribande da fermo dei giorni e delle ore, in cui vivo un “tempo ordinario” Eppure, tutto è diverso perché sono diverse le mie sensazioni, le mie percezioni, il mio sguardo sul mondo, il mio essere nel mondo. Continuo a guardare, ad aprire la finestra, a misurare gli spazi della mia casa, a tirare libri dagli scaffali. Essere fermo per necessità e per responsabilità non è lo stesso di quando si è fermi per scelta.
Mentre vedo il sole coricarsi e le ombre della sera abbracciare i miei paesi, ascoltando il bollettino ufficiale del governo, trovo abbastanza banali, inutili, fastidiosi tanti ingenui ottimismi e consolatorie le affermazioni che, dopo il coronavirus, nulla sarà più «come prima». L’ho sentito ripetere, tante volte, nella mia vita, ma poi, pure cambiando, sempre il mondo, l’Homo Sapiens si adatta a tutto, tutto dimentica e, in un certo senso, tutto torna come prima. Perché questo piccolo, fragile, spaventato animale, che cerca e immagina di diventare Dio, non può fermarsi, deve dimenticare, non rinuncia all’esercizio del dominio e del potere e, dinnanzi alle catastrofi, le sue magnifiche e sublimi costruzioni culturali e artistiche, la sua «razionalità», si sfarinano come polvere al sole. Tendiamo troppo presto, a volte nell’arco di una generazione, a dimenticare, a rimuovere, a cancellare anche gli avvenimenti più dolorosi della storia del mondo. Anche di quello a noi vicino.
Guardo il tramonto infuocato: ho cercato sempre di guardare e di mostrare il bello, ed ho scelto di mandare segnali positivi senza immagini di strade vuote, case abbandonate, abitazioni incompiute, orti che franano, campagne e strade franate, colline e coste ferite. Sapevo che l’incantevole e non descrivibile a parole paesaggio di meraviglie e di bellezze era anche il risultato di una lunga storia millenaria delle mie campagne di sabbia e conchiglie, resti di un’era geologica in cui qui, come dicevano gli anziani di quando io ero bambino, dove noi abitiamo era tutto mare. Conosco a memoria i punti, le linee, le strisce le luci dove ancora affiorano e si scorgono i resti di villaggi neolitici, di pianure con ossidiana portata dalle Eolie, di città magnogreche, di strade e insediamenti romani, bizantini, medievali, normanni e poi le città sepolte o ricostruite, o trasferite, di devastanti terremoti (1659, 1783, 1905, 1907, 1908, per citare i più noti) che hanno cancellato Mileto e Castelmonardo (poi rinata come Filadelfia), anche Reggio e Messina, tanti piccoli villaggi di cui resta il nome in qualche documento di archivio, hanno spostato colline e letti di fiumi, cancellato boschi e risucchiato pianure, fino ad arrivare alle distruzioni e alle ferite dei bombardamenti degli americani durante la seconda guerra mondiale (morti, feriti a centinaia, lutti infiniti), i paesi abbandonati anche di recente per alluvioni, frane, per la fuga della gente, per un esodo avvenuto in silenzio e senza grandi proclami. La memoria orale, i canti, le leggende, i culti, i riti, gli studi sul gran flagello e sulle Apocalissi (penso a quelli di Augusto Placanica) raccontano queste storie di fine del mondo, di fine di mondo, di cui però non abbiamo memoria e da cui non traiamo insegnamento per conoscere il nostro essere a rischio perenne o per curare il territorio, prevedere l’imprevedibile, attenuare i danni e le devastazioni di una catastrofe sempre in agguato, che non sappiamo quando, non sappiamo come ed esattamente dove, prima o poi si ripeterà.
Adesso il sole si è coricato, l’orizzonte si è fatto di colore viola, rossiccio chiazzato da puntini di piccole nuvole scure o azzurre, sento il rumore della fiumara e il cinguettio degli uccelli – da tempo avevo badato più alle visioni che ai suoni, ai rumori, alle voci, della natura, delle fiumare, del bosco, del vento, delle acque, degli animali che adesso sento più nitidi, più lucidi, più bisognosi di ascolto e mi viene da pensare alle Tesi della filosofia della Storia di Walter Benjamin (in Id., Angelus Novus, Einaudi, 1976: 72-81), in particolare alla nona tesi, dove mette in scena il famoso Angelo della storia, ispirato all’Angelus Novus di Klee, che avanza verso il futuro a ritroso, con gli occhi rivolti al passato, le ali gonfiate da un terribile vento che inesorabilmente lo aspira indietro. Egli vede ammonticchiarsi, ai propri piedi, sotto i propri passi, un gigantesco ammasso di rovine che salgono verso il cielo e sono ciò in cui si trasforma costantemente, incessantemente, quasi a getto continuo, il presente.
Il presente si accumula soltanto nella forma della rovina: è un accatastamento di rovine. La rovina perde il suo carattere estetico-poetico, la sua aspirazione alla memoria, la sua vocazione all’ammonimento, il suo segnalare fine e decadenza futura, e diventa segno di una fine in corso o già avvenuta. Che nome dare a quello che abbiamo davanti, che stiamo vivendo, che, forse, avevamo già con noi, dietro di noi? Guerra è il termine che è stato maggiormente adoperato per indicare quanto è accaduto e accade con il Coronavirus. Altri studiosi hanno parlato, con fondati argomenti, di crollo, calamità, disastro, sospensione. Ma anche con queste metafore non restituiscono il senso estremo, il senso di «ultimità» che qualcuno aveva temuto, annunciato, prefigurato, ma nessuno aveva mai vissuto. Ho pensato al termine «catastrofe» (dal lat. tardo catastrŏpha, catastrŏphe, gr. Καταστροϕή), con cui scrittori antichi indicavano un «rivolgimento», un «rovesciamento», una grave sciagura, un improvviso disastro, con conseguenze drammatiche, luttuose, dolorose. Dalla matematica, da René Thom (1923-2002) e dalla biologia la complessa teoria delle catastrofi, applicabile allo studio di tutti quei sistemi il cui comportamento muta in modo discontinuo al variare in modo continuo di un certo insieme di parametri, mentre non subisce alterazioni qualitative per piccole variazioni di tali parametri (ipotesi di stabilità strutturale), il termine «catastrofe» passa in altre discipline e in altri ambiti. Terremoti con effetti disastrosi, maremoti, alluvioni con perdite di vite umane, crolli del mercato, crisi finanziarie e così via sono stati indicati con il termine catastrofe.
Nelle mie ricerche e nei miei lavori ho avuto modo di ricordare come, per i contadini e i ceti popolari, il mondo e la vita cambiavano a seconda che venissero considerate «prima» o «dopo» l’emigrazione che, già con la sola partenza di migliaia e migliaia di persone, modificava assetto fondiario, relazioni sociali, ordine familiare, culture, mentalità, forme di autorappresentazione e avrebbe portato all’abbandono e allo spopolamento di montagne, aree interne, campagne e paesi, a un vuoto che oggi ha assunto dimensioni catastrofiche, e anche a un pieno, a un intasamento delle coste, alla nascita di paesi doppi, in loco o all’estero, e a un mancato legame tra «i non più luoghi» e i «non ancora luoghi».
La catastrofe rende impossibile, sempre e comunque, il ritorno a un prima. Lo sappiamo dalla nostra esperienza individuale che un incidente, un lutto, una perdita, una devastante delusione, la fine di un amore significano una catastrofe che non rende possibile alcun ritorno al prima, anzi spesso si resta fissati e imprigionati nel prima, senza riuscire a vedere un dopo dentro cui camminare e abitare. Ma anche il termine catastrofe mi sembra inadeguato, parziale, limitato per dare conto della prima pandemia globale, come tale vissuta e condivisa dagli abitanti di tutti i paesi del mondo.
La tentazione di adoperare il termine Apocalisse è forte. Per qualche studioso l’Apocalisse sarebbe già avvenuta e noi non stiamo facendo che prenderne atto. Il senso, però, potrebbe essere che siamo tutti in una Apocalisse in corso (Baudrillard, Power Inferno, 2002). L’apocalisse «è già presente, sotto forma di liquidazione inesorabile di ogni civiltà, e forse addirittura della specie. Ma ciò che è liquidato resta ancora da distruggere» (Ibid.: 21). Il problema posto dalla storia «non è che essa avrà fine», ma al contrario, che «essa non avrà fine – dunque non avrà finalità, scopo, telos» (Baudrillard, 2000, parole chiave: 53-55). Per René Girard (Intervista con Robert Doran, Pensare l’apocalisse dopo l’11 settembre, in Prima l’Apocalisse, 2010) l’apocalisse cristiana non deve essere concepita in termini arcaici o fondamentalistici, come una violenza divina, ma come prerogativa del tutto umana di una potenziale auto-distruzione. Per questa via, si entra in una nuova dimensione, su scala globale, della violenza e si determina ciò che i testi apocalittici annunciavano: la confusione fra disastri causati dalla natura e i disastri causati dagli uomini, la confusione tra il naturale e l’artificiale: oggi riscaldamento globale e innalzamento dei mari non sono più metafore. La corsa verso l’apocalisse è la realizzazione superiore dell’umanità, ma più la fine si fa probabile e meno se ne parla. Penso alle apocalissi, che ho vissuto in questi ultimi tempi, e così, mentre la casa sulla collina di fronte sembra assumere un colore spettrale e melanconico, mi arriva da dove non so dove un verbo e un modo di dire che, ogni tanto, adoperava mia madre, quando sentiva un rumore, un frastuono, un disordine, di cui non capiva la provenienza o l’entità, il carattere innocuo o devastante. «Madonna mia, figlio, chi “rivutura”». Madonna mia, figlio, che frastuono, che baccano (come traduce e rende Gerhard Rohlfs, Nuovo Dizionario dialettale della Calabria, Longo, 1977). Un canto popolare di San Gregorio di Ipppona parla del «rugurusu terremotu», rovinoso, rumoroso, sconvolgente terremoto che colpì il paese e tutto il Vibonese nl 1905. Le persone che nei loro diari e racconti hanno lasciato memorie di un terremoto vissuto parlano del rombo, del tuono, dello sconquasso, del sommovimento, del rovesciamento che provocavano i terribili flagelli.
Un termine che alludeva a un ribaltamento, a un rovesciamento, a un sovvertimento, a una “rivoluzione”. Ed ecco, allora, che da lontano, dalla memoria, dalle premure, dalle paure, di mia madre mi giunge il messaggio che questa pandemia vada considerata un rovesciamento, un disordine, un ribaltamento, che «gira il mondo sotto sopra», sconvolge l’ordine abituale, non in una logica carnevalesca, ma all’insegna di un caos che deve rifondare un nuovo ordine, in cui il prima e il dopo non hanno più un legame evidente e, se mai, hanno bisogno di essere collegati per riannodare i fili tra passato e presente, per cercare una presenza in un mondo che non sarà come prima.
Il mondo ribaltato. «Lu mundu suttasupa» («Il mondo sottosopra»)
Mi vengono in mente le Lettere persiane di Montesquieu, il romanzo epistolare del 1721, la satira pungente dei costumi francesi, analizzati dal punto di vista di due viaggiatori persiani, colti e ricchi, appartenenti all’alta società. I sarcasmi delle lettere non risparmiano né le istituzioni, né gli uomini del tempo. I personaggi, essendo stranieri, vedono la Francia in modo distaccato, criticando vita e costumi di una società cattolica e assolutistica? Su gli altri che guardano noi e su noi che diventiamo altri, sulla necessità di tenere conto del punto di vista di chi guardiamo e ci guarda, sull’antropologia come dialogo e come conversazione, come critica delle nostre certezze, gli scritti, le analisi, le polemiche si sono sprecate. E se guardassimo il presente con gli occhi, lo sguardo, la mentalità, i sentimenti, le passioni delle donne e degli uomini del passato? E se provassimo a cogliere scampoli di verità, avvertimenti, presagi nel “sentire” e nel “vedere” quanto sarebbe accaduto quando si dimenticava i limiti della vita?
Nel riferimento al “prima” Coronavirus, nell’interrogare e interpretare le tracce e i segni, le memorie e le avvertenze, che ci hanno inviato le persone del passato, non c’è nessun sentimento di rimpianto, nessuna inautentica nostalgia, nessuna proposta di un insensato, peraltro impossibile, ritorno al tempo andato. L’uomo è sempre andato avanti, non ha mai camminato all’indietro. Jared Diamond, ne Il mondo di ieri, si chiede cosa possiamo imparare dalle società tradizionali e ricostruisce tecniche e conoscenze sofisticate, acquisite nel corso dei millenni, per trattare e custodire le acque. Conoscenze e sistemi tradizionali in situazioni profondamente mutate, in società in cui l’abbondanza e la penuria si presentano in altre forme, dopo che nuovi bisogni e nuovi sprechi si sono affermati, hanno una loro validità o hanno ancora qualcosa da suggerire e da insegnare. Una lunga e significativa tradizione di pensiero ha sottolineato l’inconciliabità tra memoria e nostalgia, la diversità che c’è tra ricordo e desiderio del “ritorno”, ma, a ben vedere, i due termini si incontrano nell’arte di ritrovare il mondo futuro.
Giocchino da Fiore, Telesio, Campanella, Alvaro hanno sempre tenuto in stretto legame passato e presente, rapporto con i il mondo di origine e apertura alle novità esterne, nostalgia e utopia, denuncia sociale e rinnovamento. Edward P. Thompson (The Making of the English Working Class, London, 1963) è tra gli autori che segnalano come la storia delle vie mai imboccate, dei fallimenti, è storia delle discontinuità, dei fili spezzati, dei frammenti, delle contingenze. Scrivere la storia dell’utopia vuol dire desiderare un futuro dipinto con i colori della nostalgia passata, capace di immaginare un futuro diverso da quello realizzato. Il passato deve essere salvaguardato per fornire modi alternativi di vedere le cose e per fornire nuovi valori per il futuro. Il passato dovrebbe essere riscattato come contenitore di potenzialità diverse, non realizzate ma suscettibili di future realizzazioni. Cercare l’utopia nel passato non significa essere nostalgici di una felicità perduta, ma rintracciare piccole isole di intimità nel mare della sofferenza. Il passato può e deve essere riscattato come un universo, un mondo sommerso di potenzialità diverse, non compiute, ma suscettibili di future realizzazioni. Un riscatto, un risarcimento, una restituzione che diventano un esercizio morale attraverso cui pensare il presente non nella forma di «quello che è» ma nei termini di «quello che potrebbe essere». Questa prospettiva invita a riguardare con un altro occhio luoghi, paesaggi, acque, relazioni sociali.
Nessuna retorica identitaria o visione estetizzante o neoromantica del passato, nessuna mitologia della decrescita felice possono essere affermate con riferimento a un universo dove la gente aveva sete, non poteva lavarsi, dove tutti i beni erano precari e necessari e quindi sacri, come diceva Pier Paolo Pasolini. Per essere contemporanei c’è bisogno di pensare il passato e il futuro. La fine delle grandi narrazioni si applicava alla supposta scomparsa sia dei miti delle origini (cosmogonie) per effetto della modernità sia dei miti escatologici universalistici a causa della condizione postmoderna successiva delle disillusioni del XX secolo. Non è possibile stabilire cesure e non scorgere anche continuità. Yuval Noah Harari (21 Lezioni per il XXI secolo, Bompiani, 2019), che vede nella nostalgia esasperata e in visioni apocalittiche estreme i mali maggiori per il possibile futuro dell’uomo oggi, ricorda come l’umanità abbia cancellato e dimenticato altre possibili forme di pensiero, di narrazione, e abbia rinunciato a saperi, a poteri, dimensioni oniriche e spirituali, immaginazioni e visioni che potevano portare in territori diversi e che magari avrebbero portato in altre direzioni.
Quanto sta accadendo e si annuncia ci ricorda che la storia dell’umanità non è stata mai progressiva e che a periodi felici sono succeduti periodi di crisi e di catastrofi. Etnologi e archeologi hanno mostrato la fine di civiltà molto “avanzate” e il ritorno a uno stato miserevole e primitivo di luoghi che avevano ospitato grandi civiltà. In questi giorni ripenso ai detti degli anziani e alle storie che mi raccontavano nonna e mamma. Forse contenevano una saggezza, un concezione del tempo e del mondo, il senso del limite, l’invito a non strafare che dovrebbero essere ripensati. Il passato così trova una sorta di risarcimento e l’umanità potrebbe essere spinta ad imboccare per il futuro una delle tante vie non viste, delle potenzialità inespresse, in un passato in cui decidevano i vincitori. Siamo, allora, in viaggio. Anche da fermi. Anche attorno alla nostra stanza. Un viaggio non scelto, inatteso, ma che, forse, abbiamo voluto sempre rimuovere e rimandare. Perché nell’imprevedibile c’era, da tempo, qualcosa di molto prevedibile. Nulla sarà come prima nemmeno per la filosofia, la letteratura, l’antropologia.
L’antropologia è chiamata a un profondo rinnovamento, a un nuovo modo di guardare e di raccontare. Di partecipare, di condividere, di ammonire. Di fare scelte politiche più radicali di quelle che non ha ancora fatto. In nome di una presunta oggettività della scienza e di sterili, accademiche, distinzioni tra sguardo da lontano e sguardo da vicino, tra giro lungo e giro corto. Agli studenti del mio corso, che seguono attenti, curiosi, smarriti, spiazzati, è piaciuta molto l’immagine dell’antropologia come terapia. Terapia per noi stessi? Per gli altri? Proverò con loro, come per l’appunto ho scritto nel mio saluto di apertura al corso, di adoperare in maniera rigorosa termini (o espressioni) come catastrofe, calamità, cultura, identità, festa, rito, presenza, crisi della presenza, fine del mondo, apocalisse, comunità, persona, parentela, famiglia, genere, classe sociale, rigenerazione, luogo, città, nostalgia, lutto, melanconia, viaggio, ritorno, restare. Parlerò ai miei studenti della storia dell’antropologia, della demologia e dell’etnografia. Proverò ad essere puntuali, precisi, rigorosi, ma senza pretese di possedere verità assolute, senza credere nell’assoluta oggettività della scienza
Qualsiasi cosa dirò ai miei studenti – qualsiasi cosa mi racconteranno – ha come principio fondamentale il fatto che parliamo sempre di storie e culture di persone – del passato e del presente – e che l’antropologia culturale deve essere anche racconto, viaggio, scoperta, curiosità, incontro, dialogo, capacità di rapportarsi all’altro, “critica” del mondo così come è, messa in discussione delle nostre certezze e delle nostre presunzioni, del nostro delirio di onnipotenza, scoperta delle nostre fragilità, delle nostre contraddizioni, delle nostre ombre. Oggi più che mai dobbiamo credere nell’ascolto, nel dialogo, nella vicinanza, nella capacità di avere cura di noi e degli altri e di farlo con affetto, con amore, ma anche con competenza, con conoscenza, con amore per il sapere e per la cultura (cultura nel senso tradizionale, classico, comune, di tipo prescrittivo e normativo e cultura nel senso antropologico, analitico, descrittivo).
Sarei felice – come docente e come studioso, come persona, come abitante del mondo – se riuscissi a fornire parole, spunti, idee, suggerimenti, stimoli, per invitare a guardare, e per guardare io stesso, grazie a loro, i luoghi, il mondo, la terra, il paesaggio, le persone, gli ultimi, gli altri, noi, noi appartenenti all’Homo Sapiens (che ha fatto cose grandiose e cose terribili), gli animali – in maniera diversa da come abbiamo fatto finora, in maniera critica, problematica, aperta. Non si finisce mai di imparare. La vita riserva sempre sorprese, stupori, imprevisti, fatiche, gioie, dolori. Il futuro potrebbe anche non accadere, diceva Jorge Luis Borges, o forse potrebbe anche accadere. Dipende da noi.
La caduta. «Lu peju passu è duve cadi» («Il peggiore passo è dove cadi»)
Difficile fermare il viaggio tormentato dentro di me, da fermo, «attorno alla mia camera» (cito De Maistre). Dal «balcone» di casa mia osservo il campanile della Chiesa Madre del paese. Lo faccio da sempre, ma adesso non è la stessa cosa. Sono mutati il senso del tempo e dello spazio, la mia idea dello «stare fermo» e del viaggiare, il senso dei luoghi e degli altri. Sono mutate, come leggo anche attraverso gli scritti su qualche profilo, su riviste, su riflessioni di colleghi (ne darò notizie in prossime occasioni), le percezioni e le rappresentazioni che tutti – senza distinzione di ceto, di appartenenza, di genere, di età – adesso abbiamo del corpo, dello spazio abitato, sognato, immaginato. Mentre guardo il panneggiamento delle nuvole che camminano – e mi fanno camminare da fermo – tra lo Stretto di Messina e il campanile della chiesa del paese, mi tornano in mente gli scritti di Ernesto De Martino e in particolare il celebre e incompiuto La fine del mondo (Einaudi, 1977) dove il grande etnologo ha scritto pagine importanti, belle e fondamentali, da etnologo e da poeta, sulle apocalissi culturali, sull’angoscia territoriale e sul rischio di «perdita della presenza» che le persone vivono nelle situazioni di crisi esistenziale, individuale e collettiva, dinnanzi a una morte, a una crisi esistenziale o a una catastrofe.
In due pagine che conosco quasi a memoria e che portano come titolo «il campanile di Marcellinara» (in realtà il grande etnologo si riferisce quasi sicuramente a Settingiano) racconta il senso di smarrimento e d’inquietudine che avvolgono le persone quando si allontanano dal campanile del loro paese. La scomparsa alla vista del «campanile di Marcellinara» è metafora dell’angoscia, della paura di perdere il centro, il punto di riferimento che accomuna gli individui delle nostre società tradizionali. Il disagio territoriale ti poteva cogliere anche all’interno di luoghi del paese, considerati estranei, o nelle campagne poco frequentate, nei luoghi poco abitati. Una deriva e un’esasperazione della modernità ha immaginato, in anni a noi vicini, una sorta di individuo anostalgico, una sorta di abitatore permanente di non-luoghi, di cosmopolita senza radici e senza appartenenza. L’anostalgia starebbe al non-luogo come la nostalgia era stata al luogo. Nei miei libri avevo scritto che, forse, si poteva pensare che ai non-luoghi, alla scomparsa dei luoghi storici, concreti, relazionali, di cui ha scritto Marc Augé (Non luoghi: introduzione ad una antropologia della surmodernit”, Elèuthera, 1993), corrisponda l’anostalgia come fine del sentimento del luogo, la negazione di ogni possibile appartenenza: l’anostalgico del nostro presente non avrebbe ‘sentimento dei luoghi’ (Teti, Il senso dei luoghi, Donzelli, 2004), di nessun luogo, perché la surmodernità crea dei «non luoghi antropologici», desacralizzati, uguali, uniformi.
Le cose non sono così scontate. Giovanni Ferraro nei suoi appunti incompiuti, scrive che il «moderno distrugge luoghi, ma si condanna poi a riprodurne i simulacri affannosamente. Il moderno dimentica i luoghi, ma ne coltiva al tempo stesso la nostalgia e la ricerca» (Ferraro, Il libro dei luoghi, Jaca Book, 2001: 433). Il luogo ha continuato, anche nel presente, pure con la perdita della sacralità, ad affermare la sua esigenza sul nonluogo. La «desacralizzazione non è mai compiuta, non è mai pervenuta a cancellare del tutto le tracce del sacro, nascoste metamorfosate, ridotte a caricature anche nei non-luoghi contemporanei» (Ibid.:21). E adesso? Cosa avrebbe scritto il grande etnologo della crisi della presenza, dell’angoscia, dello smarrimento di chi resta in casa per responsabilità, per necessità, per pandemia, per catastrofe? Domani si ricorderà, certo, l’angoscia del contadino che si allontana dal campanile, dall’emigrato che lascia il villaggio, dell’astronauta che guarda dal cielo la terra, ma soprattutto ci si interrogherà sul lutto, il dolore, lo smarrimento, l’angoscia, il dolore, la tenacia, il sacrificio di chi assiste alla «fine di un mondo» e spera nella nascita e nella rifondazione di un mondo del tutto nuovo, non più “come prima”. Che significato e che senso daremo a termini che spesso abbiamo coniugato (erroneamente) in opposizione come paese-città; centro-periferie; Nord-Sud; restare-partire; locale-globale; Paese Mondo? Non lo so. Intanto, nel chiuso delle nostre stanze sempre aperte sul campanile e sul mondo, raccogliamo e custodiamo memorie, dialoghiamo con chi ci è accanto e con chi, anche lontano, sentiamo vicini, e nello stesso tempo poniamo domande a cui saranno chiamate le nuove generazioni.
Nulla sarà come prima. Tutto potrebbe diventare meglio di prima, ma solo se prendiamo atto che il virus è all’interno del mondo che noi abbiamo ereditato e costruito e, forse, era ed è all’interno di noi. Tutto potrebbe diventare «peggio di prima», se non si raccoglie, assieme al senso e al valore tanti dolori, sacrifici, generosità, voglia di bellezza e di vita di moltissime persone, ma anche quella che suona come una delle ultime drammatiche avvertenze, uno degli ultimi ammonimenti, dati al Sapiens.
Dopo quasi settant’anni di sogni, realizzazioni, illusione di sviluppo illimitato, ingenua fiducia nelle «magnifiche sorti progressive» dell’umanità, i giovani e i meno giovani – assieme ai grandi, agli adulti, che non hanno saputo fermarsi e scorgere il limite – dovranno fare i conti con un mondo che ha «girato all’indietro» e ha conosciuto una catastrofe (letteralmente un «rovesciamento») per affrontare e superare la quale non servono né visioni esasperatamente apocalittiche, né retoriche nostalgie di un passato mitico e nemmeno ottimismo ingenuo e a buon mercato. Consolarsi aiuta molto ed è bello, ma bisogna guardare il mondo così com’è, come lo abbiamo ereditato e costruito, non come vorremmo che fosse. Il «come avremmo voluto» non serve. Abbiamo bisogno di capire cosa si possa volere e fare oggi e come e cosa fare o non fare domani. Serviranno a tutti capacità di analisi, momenti di riflessione, progetto e idee del tutto nuove per domani, sentimenti di amore, fiducia, pazienza, responsabilità, sguardo sugli ultimi e sui poveri della terra, su tutti noi, per capire e per scegliere in che direzione andare, come, assieme a chi. Il cammino dovrà riprendere senza chiudere gli occhi e senza rimuovere l’angoscia, il dolore, lo smarrimento, i sentimenti di speranza che, a dispetto di tutto, continuano a palpitare nel cuore e nelle menti, nel corpo e nell’anima delle persone. Scorgo, in lontananza, una lucina come capitava ai bambini che, nelle fiabe, si perdevano, ma poi trovavano la via. Non è una Fiaba questa che viviamo, ma al lieto fine in qualche modo abbiamo bisogno di credere. Avevamo temuto il crollo dei monumenti, delle cattedrali, i simboli della nostra civiltà, della modernità a seguito di attacchi terroristici, spettacolari e inattesi bombardamenti, terroristi-bombe alla guida di aerei piccoli e grandi ed ecco che le macerie vuote, silenziose, deserte, mute sono tra noi per un piccolo, sconosciuto virus. Forse erano dentro di noi.
Delle luci fioche faticano ad arrivare, inviate, da chi soffre, da chi sta male, da chi è generosamente impegnato, fino al sacrificio, per riaffermare le ragioni e il senso della vita. Guardo dentro di me, non trovo risposte, mi assalgono mille domande, ascolto il dolore e la speranza degli altri, vedo tante ombre e piccole luci. Provo ad accendere queste assieme agli altri, a tutti, e, con Kant, penso alla legge morale, all’imperativo etico che l’Homo Sapiens dovrebbe assumere nei confronti della terra, della natura, agli animali, del Cielo, delle stelle, delle nuvole, delle nebbie, delle acque, di se stesso e dei suoi simili, della vita che deve andare sempre «contro la morte», provo ad ascoltare il lamento dei morti.
Geoantropologia del vuoto. «Saccu vacanti non staci all’arditta» («Sacco vuoto non sta all’impiedi»)
Non sogno piante e fiori, in queste notti. Al mattino guardo le piante sui miei balconi e mi accorgo meglio delle piante, degli alberi, dei fiori lungo le strade e gli orti vicini. Mi vengono in mente i tanti paesi quasi spopolati, o a volte del tutto abbandonati, dove qualche mano pietosa, dinnanzi a porte e finestre chiuse di case vuote, abbandonate, cadenti, ha collocato dei vasi e delle piante di fuori. Estremo atto di fiducia e di speranza che il paese non debba finire e che le persone di un tempo stiano sempre per tornare. Forse, oltre ai suoni e alle voci che dobbiamo scambiarci, bisogna coltivare memorie e speranze. Dobbiamo guardare, curare, annaffiare, con rinnovata attenzione, con dolente speranza, i fiori. Per ricordare quanti se ne sono andati senza i familiari, una cerimonia di cordoglio, una messa, dei mazzi di fiore, e, anche, per confermare a noi stessi che c’è un domani da aspettare, con pazienza, con un rinnovato senso della bellezza, una cura tutta nuova per le piccole cose.
Maria della Rocca è seduta al solito posto e attende che faccia buio. Mi vede aprire la finestra ed è felice. Mi chiama e si capisce che ha voglia di parlare. «Non passa nessuno, dice, va bene che anche prima era così. Anzi adesso qualche macchina si vede». La strada della Croce, alla mia sinistra, quella davanti ai balconi che danno sulla strada, sono deserte, vuote. Come gli altri giorni, da anni, prima del Coronavirus. Qualche caminetto dà segnali di vita e anche qualche balcone di case appollaiate e riparate, negli anni alla meglio, è aperto. Ho vissuto immagini di strade vuote, case abbandonate, abitazioni incompiute, orti che franano, campagne e strade franate, colline e coste ferite. Il vuoto da decenni ormai ha vinto sul pieno e non c’è da gioire. I suoni, le voci, i rumori, le musiche non fanno parte più della vita di un universo forzatamente muto. Le case nuove e restaurate di Giulia e di Rini e Bruna sono chiuse e vuote. Giulia vive a Toronto da sessanta anni e, ormai, non torna più in paese da venti. Rina e Bruno vivono a Roma da circa cinquant’anni e tornano a volte d’inverno e quasi sempre d’estate. Sono vuote e disabitate le case di Rosamaria, di Emilia, di Vito, dei Punga: e ogni porta chiusa mi mostra le ombre di persone che chiedono ascolto, di cui ricordo il volto, le storie, le voci e di cui ho profonda nostalgia. Da giovane avevo immaginato chiusure e partenze “a termine”. Col tempo avrei scoperto che tutto era definitivo. Per sempre. E tutto questo in quasi tutti i paesi dell’interno e anche alle marine, anche nei centri storici della città. E non c’era bisogno del Coronavirus.
Per telefono o con sms, qualcuno che è uscito per necessità, ci dice che «tutti sono preoccupati, corrono, si salutano a distanza, ma anzi si vede qualcuno in più rispetto agli altri giorni». «Vedete come è bello che la gente suona in quasi tutte le città italiane. Perché non suoniamo anche qui?», scrive qualcuno su un gruppo del paese. «E che cazzo vuoi suonare – risponde un suo amico – che qui, nella mia ruga, abitiamo solo due famiglie e il primo con cui potrei suonare non lo vedo, sta a duecento metri di distanza!». Su un gruppo del paese, qualcuno posta delle foto con la piazza e le strade vuote. «Mai viste così vuote!».
Commenti di tristezza e di amarezza. Sconsolati. Poi da Toronto qualcuno scrive: «Veramente sono vuote come le ho viste ogni volta che sono tornato negli ultimi anni!».
I nostri paesi erano anche questo da decenni: deserti, “non più luoghi”, spazi vuoti e senza persone e relazioni. Adesso, forse, è il caso di continuare a dire, con più forza, delle verità. Questa terribile pandemia colpisce e devasta periferie urbane inabitabili e inquinate, città devastate dal cemento e dallo smog, si avvina a paesi in parte già ammalati, se non morti. Gli esperti parlano di morte per coronavirus e di morte da coronavirus. Come se cambiasse la sostanza delle cose e che, comunque, a morire sono persone. La sensazione è che anche i luoghi antichi, per varie ragioni, fossero debilitati, fiacchi, depressi e che il coronavirus si espande in territori già fragili o anche “non più luoghi”, “non più comunità”, “non ancora luoghi”.
Puntare e ribaltare lo sguardo. «Vidire la gurpi e cercare la pedata» («Vedere la volpe e cercare la pedata»)
Non ci sono, questa mattina, 25 marzo 2020, le nuvole basse o le albe colorate nel paesaggio infinito che scorgo dai miei balconi o dalle mie finestre. Non si sentono, come appena l’altro ieri, il cinguettio delle rondini, che avevano annunciato la primavera. Vedo il “tempo” chiuso, denso, ombroso, fitto, mentre cadono lenti i chicchi di neve. Albe, tramonti, nuvole, nebbie, pioggia, neve, rondini tornano e, sembrano indifferenti al nostro dolore, ai nostri lutti, ai nostri tormenti. Quasi a ricordarci, quasi con dispetto, che le stagioni, i colori dei giorni, le luci e le ombre dei mesi tornano anche quando noi non possiamo guardarli, non possiamo osservarli e che torneranno anche quando noi non ci saremo. Esisteranno i luoghi, le case, le città, i paesi, le cose senza che nessuno le guardi? Forse no. Non dobbiamo dimenticare, però, che a guardare non siamo soltanto noi Sapiens (che anzi non abbiamo saputo guardare, abbiamo chiuso gli occhi, ci siamo condannati alla «cecità»). A guardare, senza di noi, ci sarebbero le rondini, gli uccelli, altre specie animali (quelle resistite alla distruzione del Sapiens) a cui questo pianeta, pure, appartiene e che, siamo crudi, continuerebbe a vivere, in qualche modo, ancora a lungo, anche senza di noi.
Ricevo, in questi primi giorni di marzo, centinaia di mail, sms, di amici, ma anche dai miei studenti e dai miei ex studenti. Ne pubblico uno: «Caro prof. Teti, negli anni 90 sono stato suo studente all’Unical, ora vivo in Piemonte ad Alba, la sera scorsa alla notizia dell’assalto dei treni da Milano per il sud non ho potuto che pensare all’episodio del campanile di Marcellinara raccontato dal De Martino e al nostro maggiore poeta Franco Costabile: “Siamo i marciapiedi più affollati. Siamo i treni più lunghi…”. “Mio treno di notte lento nella pianura Battipaglia…Salerno…mio paesano, stanco sulla valigia, cane vagabondo….”. Ci siamo di nuovo…nostalgia, malinconia…terra, persone… cordialmente V. A.».
Questo mio ex studente, che è partito per necessità e per cercare un lavoro e si è creato una vita altrove, è rimasto nel posto in cui ora vive. La stessa scelta saggia e responsabile hanno fatto tante amiche e amici che vivono fuori e sarebbero voluti «tornare a casa», pure in preda a preoccupazione e a nostalgia, ma hanno deciso di non farlo per evitare di danneggiare loro stessi, i familiari rimasti in paese, i compaesani. Per i meridionali “rimasti” e per chi si è affrettato a tornare valgono il rispetto rigido della “quarantena”, delle norme e delle prescrizioni sacrosante emanate dal governo, dai governatori, dagli esperti e dagli scienziati. Avendo, per anni, scritto delle complesse dinamiche che si creano tra chi parte e chi resta, dei loro controversi sentimenti di amore-distanza, di un legame che andrebbe risolto per i suoi aspetti di arricchimento, adesso posso auspicare che non si creino barriere e steccati nei rapporti tra partiti e rimasti. Avendo per anni, a volte con retorica, molti calabresi, proclamato la loro cultura dell’accoglienza, a volte evocata senza convinzione e in maniera retorica, il loro principio: «aperite, aperite» («aprite, aprite»), «trasite, trasite» (entrate, entrate») anche per contrastare chi voleva chiudere i porti ed erigere muri, non cerchiano adesso capri espiatori proprio nei loro fratelli.
I figli del Sud non si dividano tra chi è partito, chi è rimasto, chi torna. Appartengono tutti alla stessa storia. La giusta rigidità e il doveroso richiamo alle responsabilità di ognuno non escludono comportamenti amorevoli e di solidarietà. I meridionali, vittime di esclusioni e di razzismo, non cedano a sentimenti contro presunti «untori» del Nord o che abitano al Nord, che sono le prime vittime di questo grande flagello che trova tutti impreparati e lascia tutti sgomenti. Il fraterno e duro rimprovero a chi è tornato, in maniera, forse incauta, precipitosa (ma la percezione del pericolo, la paura, la ricerca di un rifugio sicuro possono essere controllati davvero?), il sacrosanto e necessario invito ad osservare norme e prescrizioni sia anche accompagnato da amorevole attenzione per tutti quelli che vogliono tornare. Non è il momento di divisione o di cercare capri espiatori: è il tempo della responsabilità, della meditazione, della riflessione, del ripensamento radicale di questo modello di sviluppo che rapina, devasta e crea morte e anche una vera messa in discussione (radicale e convinta) del nostro stile di vita. Non si dica agli emigrati: «Non tornate», si dica, con garbo e con affetto: «Vi attendiamo con amore. Tornate non appena possibile». Ma chi, con retorica populista, invita a un tornare subito e tutti, comunque, non ha in mente un progetto e nemmeno la storia del passato. Adopera slogan facili dagli esiti anche rischiosi. Non è il tempo di generiche prediche e di maniera da parte di chi non sa di cosa parla e non si rende conto della situazione drammatica che viviamo. Non è tempo di banali «istruzioni per l’uso» e di consigli alternativi e altisonanti che, in realtà, portano verso il contagio e il trionfo del virus. Bisogna decifrare, capire in maniera profonda, la nostalgia, il disagio, il senso di fallimento, la delusione di chi è fuori e bisogna domandarsi se anche una nostalgia attiva non possa diventare motivo di ricostruzione e di rifondazione. Assieme agli altri. Ai rimasti, a chi arriva da fuori.
Leggo che qualcuno, che non si era accorto mai dei paesi vuoti e solitari, e che aveva il mito della città e del pieno, del rumore, dice che il futuro d’Italia sarà nei piccoli borghi. Penso però che ci sia bisogno di un grande progetto rivoluzionario. Tutto è cambiato. Vuoto e pieno, città e campagna, Nord e Sud ecc. vanno ripensati alla luce del prima e dell’oggi. Non dobbiamo dimenticare che i paesi erano già vuoti, dopo un’erosione di almeno settanta anni. Non si può ignorare una crisi demografica che dura da decenni. Non si può non capire la lunga storia di creazione del vuoto e del deserto, che non si cancellano con un appello. Non dobbiamo dimenticare nemmeno che non si torna mai o si torna in modo diverso. Non si torna più indietro una volta che ci si è messi in viaggio. Non si può tornare più alla casa lasciata. Bisogna capire cosa potranno fare i rimasti e quelli che, eventualmente, tornano. Quale idea hanno del loro futuro e che senso dell’abitare vogliono creare. Purtroppo, spesso, più che proposte, progetti, analisi, leggo slogan, buone intenzioni, proclami. Così si torna indietro, non si inventa il futuro. Portando avanti discorsi seri, interventi immediati e di lunga durata, rovesciando lo sguardo, investendo nella cultura, nella scuola, aprendo musei e biblioteche nei più piccoli centri. Bisogna ridare diritti (anche doveri) alle persone: buona sanità, ospedali, scuole sicure, un paesaggio rigenerato, economie e opportunità legate alla terra, ai prodotti locali e biologici, all’artigianato e al turismo sostenibili. Sostenere concretamente piccole imprese, cooperative di giovani, famiglie che vogliono investire. C’è bisogno di buona e sana politica, che non può vedere protagonista ancora un ceto che ha rovinato il Paese e distrutto i paesi. C’è bisogno di un movimento dal basso, di partecipazione attiva. I paesi, le periferie urbane, i centri storici avevano, adesso più che mai hanno e avranno bisogno di politiche di rinascita e di rigenerazione. Tornare al «prima» significherebbe tornare esattamente ai ritmi frenetici, alla mancanza di lavoro, al degrado, alle patologie, agli inquinamenti, al modello di sviluppo, alle ingiustizie sociali, alla distruzione della sanità pubblica, ai tagli indiscriminati alla ricerca, a tutte le negatività che hanno prodotto questo orrendo presente.
«Io resto in casa» diventi anche un’occasione per capire e riflettere. Per guardare nelle proprie luci e nelle proprie ombre. Per discorsi di verità e non consolatori. «Io resto in casa» (in una casa che non sempre riconosciamo o che vogliamo vedere aperta sul mondo) sia un dire che alimenti una cultura del fare, un’identità dell’essere e del fare, con una visione etica, per poter affermare le ragioni della vita e per rendermi, nel mio piccolo, protagonista di nuove forme di incontro e di vicinanze, di dialogo e di fratellanza. Non diventi la casa una prigione, ma un luogo in cui continuiamo a proteggerci e a riconoscerci, a guardare dentro la casa e dentro di noi (magari come non abbiamo mai fatto) e un luogo aperto, condiviso, con quanti oggi lottano per il bene e la vita di tutti. Non bisogna restare o tornare a «come prima»: certo, bisogna stabilire legami veri tra passato e presente, custodire memorie per il futuro, e poi cercare di inventare qualcosa di totalmente nuovo. Vuoto e pieno, città e campagna, Nord e Sud, centro e periferia vanno ripensati alla luce del prima e dell’oggi.
Restare, tornare, abitare ha senso soltanto se ci si sente esiliati, sradicati, corsari, fuori posto nel luogo in cui si decide (a volte per caso) di vivere e di abitare. Sono stato e mi sono sentito fuori posto, ho molto viaggiato e molto camminato, mi sento parte di una tribù nomade, sono sempre errante e inquieto e, dovunque, anche da fermo mi chiedo «che ci faccio qui». Appartengo a una storia di mobilità, emigrazione, fughe, ritorni. Mio nonno paterno, Peppe, e alcuni miei zii sono stati decenni negli Stati Uniti, in Argentina, in altre parti del mondo. Mio padre l’ho visto a otto anni, quando tornava da Toronto, dove era partito quando avevo appena diciotto anni. I miei compagni di scuola e del paese fuggivano stipati nelle macchine a diecine, partivano tra i pianti dei familiari e dei vicini. Toronto è stato una sorta di dilatazione della mia casa, delle mie “rughe”, mio paese. Restare, partire, tornare sono aspetti di uno stesso fenomeno che interessa tutte le parti del mondo e che nel nostro assume aspetti peculiari, essendo noi abitanti di luoghi che si spopolano quotidianamente e nello stesso tempo luogo di richiamo e di possibile accoglienza. Bisogna cercare la volpe e non le orme. Bisogna ribaltare lo sguardo. Partire dai margini, dalle periferie, dalle schegge per «riabitare i luoghi» e per creare una nuova comunità possibile e vivibile.
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
[*] Questo testo fa parte di un lemmario aperto che raccoglie e ragiona su parole, metafore, modi di dire del tempo passato, rimosso, cancellato, segnato da vie mai percorse, per cercare di raccontare, non in chiave nostalgica, ma se mai con una nostalgia del futuro, un tempo presente confuso e difficile, che è già un “dopo”, un “domani”. Sui prossimi due numeri di Dialoghi Mediterranei saranno riportate altre schegge e tracce per immaginare il futuro. Il mio vivo ringraziamento va, per ragioni diverse, a Pietro Clemente, Antonino Cusumano, Isabella Cecchi, Antonella Tarpino, Marco Revelli, Carmine Donzelli. Gli scritti, i saggi, gli articoli prodotti, in questo periodo, su riviste, blog, quotidiani da antropologi e filosofi (a cui, in qualche modo, mi rapporto) sono, davvero, numerosi e non possono essere ricordati. Mi preme precisare che questo lemmario, in cui ho combinato pagine di diario, impressioni, meditazioni, riflessioni aperte, andrebbe necessariamente letto assieme a volumi nei quali mi sono occupato di tematiche affrontate prima del Coronavirus (in particolare: Il senso dei luoghi, 2004; n. ed. 2014; Quel che resta, 2017; Il vampiro e la melanconia, 2018, tutti editi dalla Donzelli editori) e in saggi pubblicati su riviste on line come Volere la luna, L’Antivirus. Dialoghi oltre la quarantena, su quotidiani nazionali e profilo pubblico Facebook Vito Teti) e sono anticipazioni di un volume sul Coronavirus in uscita a maggio per Donzelli editore. Ho mantenuto un tono discorsivo e divulgativo e mi scuso per eventuali mancati riferimenti, peraltro inevitabili in una rivista che, pure conservando una forte impronta scientifica, si prefigge di raggiungere un vasto pubblico di lettori.
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Vito Teti, docente ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, è autore di numerose pubblicazioni, tra le quali si segnalano: Emigrazione, alimentazione e culture popolari; Emigrazione e religiosità popolare nei due volumi di Storia dell’emigrazione italiana (2000; 2001); Storia dell’acqua (2003); Il senso dei luoghi (2004); Storia del peperoncino. Un protagonista delle culture mediterranee (2007); La melanconia del vampiro (2007); Pietre di pane. Un’antropologia del restare (2011); Maledetto Sud (2013); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandono e ritorno (2017), Il vampiro e la melanconia (2018), Pathos (assieme a Salvatore Piermarini), 2019). Autore di documentari etnografici, mostre fotografiche, racconti, mmoir, fa parte di Comitati Scientifici di riviste italiane e straniere. È tra l’altro responsabile dell’Icaf, la sezione italiana dell’Associazione Europea di Antropologia dell’Alimentazione. Fa parte della Deputazione di Storia Patria per la Calabria ed è nel Comitato Scientifico della Rivista “Rogerius”.
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