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Radici, identità, cittadinanza, cittadinanza attiva

 

66f7d77e-d0ac-4ef4-a88e-9e86845d59a9_largeper la cittadinanza

di Antonio Pioletti

Il tema della cittadinanza, e ancor più quello della cittadinanza attiva, chiama in causa il nostro stare insieme, la questione delle nostre cosiddette radici, della nostra identità, del rapporto con l’Altro in una fase storica di grandi mutamenti e sommovimenti quale quella nella quale viviamo. Qui, alcune sintetiche riflessioni da discutere.

Radici e identità

Vorrei prendere spunto da un “aureo” libretto, pubblicato nel 2011, che porta la firma di Maurizio Bettini, filologo classico di grande prestigio che ha fondato il “Centro Antropologia e Mondo Classico” presso l’Università di Siena e interprete di assoluto rilievo di un filone di studi, oggi affermatosi negli studi letterari, di “antropologia del testo”. Il suo titolo è Contro le radici. Tradizione, identità, memoria.

Bettini prende le mosse dalla constatazione di un fenomeno, solo apparentemente contraddittorio, che è sotto gli occhi di tutti: fra i processi della modernità si è assistito, non da oggi, a quello di una omologazione crescente di usi, costumi, mode, di una circolazione di capitali, merci, tecnologie, persone, che comunemente è etichettata come globalizzazione. Lo sviluppo dell’informatica, del digitale, di grandi Network nel campo della comunicazione e dell’informazione ha contribuito e contribuisce in modo decisivo a dare l’immagine di una cittadinanza del mondo.

La realtà è invero ben diversa, come di seguito si vedrà, e comunque ben più complessa: si combinano infatti aspetti contrastanti che vedono, accanto a siffatte aperture e circolazioni internazionali, acuirsi i dislivelli fra territori e intere aree del pianeta, fra centri e periferie e fra i gruppi sociali; economie e società nelle quali anche nell’Occidente “avanzato e democratico” crescono le disuguaglianze e le diversità. Caduto un “muro”, ne sono sorti molti altri, caduta la contrapposizione fra due blocchi egemonizzati da due superpotenze, si è profilato un sistema policentrico di egemonie da Est a Ovest, Cina, Russia, USA, India, solo in parte un’Europa che balbetta, ciascuno con i suoi Paesi-satellite e comunque con alleanze che si compongono e scompongono sulla base degli interessi.

I processi di globalizzazione vedono anche – ha rilevato Bettini (2011: 5) – una «progressiva rinascita della tradizione», la riaffermazione all’interno delle Nazioni, e comunque di loro settori, di una propria identità, della differenza «fra noi e loro», riaffermazione che i fenomeni di migrazioni dovute alla povertà, alla fame, alla siccità, alle guerre che devastano parti dei Continenti, alimentano fino all’ideologia e alla pratica della creazione del nemico, della venerazione, sia detto come metafora e non solo, dell’acqua del Po, dell’esaltazione della caccia a chi è diverso, diverso per colore di pelle, per religione, per tendenze affettive e sessuali.

S’instaura così un nesso fra tradizione-identità-cittadinanza. La tradizione fonda l’identità, l’identità si fonda sulla tradizione. Ora, non v’è dubbio che esistono tradizioni, più che una tradizione, il che è facilmente comprensibile e dimostrabile in diversi campi, dalle arti tutte a usi e costumi diffusi, fino alla culinaria: si tratta però di entrarvi nel merito e si potrà altrettanto agevolmente dimostrare che molte di esse sono mescidate, risultato di contaminazioni fra culture diverse e spesso dei tanti incontri di civiltà che, per limitarsi all’Europa, si sono succeduti nei secoli.

Non esiste una tradizione, esistono tradizioni stratificatesi nel tempo, spesso, per citare il Gramsci di Osservazioni sul folclore, «frammenti indigesti»: «Del resto niente di più contraddittorio e frammentario del folclore (Gramsci 1950, II: 1105). Ma la tradizione per eccellenza cui gli apologeti delle identità pure si riferiscono è quella giudaico-cristiana e greco-romana: «Scendiamo da tre colline: il Sinai, il Golgota, l’Acropoli», ebbe a sostenere Marcello Pera aprendo un Meeting dell’Amicizia a Rimini nel 2005 (vd. Bettini 2011: 15).

9788815310620_0_0_626_75Queste sarebbero le nostre radici. Quel che è venuto da altre civiltà, da altri filoni culturali, che non si può occultare, si sarebbe però innestato in un unico tronco ben fondato nelle sue radici. Bettini cita un esemplare passaggio del «manifesto educativo della scuola Bosina, un’istituzione leghista sorta anni fa in provincia di Varese […]: “Gli uomini sono come gli alberi, se non hanno radici sono foglie al vento e i bambini sono i semi che devono trovare il nutrimento dalla [sic] terra in cui vivono per diventare querce secolari, di quelle che affrontano le tempeste della vita rimanendo salde al [sic] terreno”» (Bettini 2011: 18-19).

Un «paradigma metaforico arboricolo», di tradizione classica, in base al quale, in sostanza, rileva ancora Bettini, «la tradizione viene chiamata a far parte addirittura dell’ordine naturale […] è come se noi non potessimo essere altrimenti» (ivi: 25-26). Là starebbe la nostra identità, chi ne è esterno va escluso, rischia di “inquinare”.

Ma le tradizioni, è da chiarire, mutano nel tempo, non solo non sono restate sempre uguali, ma esse stesse rappresentano un alveo in cui sono confluite e confluiscono in una rete orizzontale culture diverse, apporti diversi.

Una questione che, fra le altre, coinvolge, per limitarsi qui a questo livello critico, quel che intendiamo per Occidente e per Oriente. Ho già avuto modo di rilevare che

«Oriente e Occidente sono categorie storiche, non ontologiche, sottoposte a variabili ideologiche. Fuorvianti appaiono partizioni areali fondate su definizioni date prima, che non tengano conto del punto di vista geo-culturale in cui ci si pone e, nello stesso tempo, delle stratificazioni culturali che connotano le singole aree. Quale Oriente? Quale Occidente?» (Pioletti 2019: 6)

Se ci si riferisce alle cosiddette “radici greco-latine”, come si fa a oscurare la collocazione strutturante della Grecia, dall’Antico in poi, entro le reti interorientali entro le quali la sua storia ha trovato corso? L’occidentalizzazione della Grecia è stata operazione ideologica a partire da fine ‘700, condotta dal classicismo tedesco e approdata agli esiti devastanti del nazismo. E così la “latinità” è stata un tramite di una pluralità di culture, di voci, di tempi, di forme.

E che dire delle radici “giudaico-cristiane”? Non solo l’area culturale entro la quale si sviluppa il cristianesimo è orientale, ma la sua stessa nascita, come rilevato da Francesca Cocchini, «non è un evento puntuale nel tempo e neppure universale nello spazio, diverge da luogo a luogo, da momento a momento […] perché di processo bisogna parlare ed è compito dello storico ricostruirlo, individuando le tappe che hanno portato comunità e gruppi a staccarsi progressivamente dalla matrice giudaica» (Cocchini 2010: 89).

jullienE che dire del ruolo fondamentale di tramite che le comunità ebraiche ed arabe presenti nell’Europa romanza svolsero per la diffusione del pensiero scientifico e filosofico greco e non solo? E che dire della straordinaria funzione di filtro svolta da grandi aree di contatto presenti nella comunità interletteraria, e non solo letteraria, rappresentata dal Mediterraneo? Gli Stati Crociati, la Sicilia già prima di Federico II, la Spagna, vettori come i commercianti, i pellegrini, i viaggiatori, i missionari. Fenomeni complessi, acculturazioni reciproche che pur s’intrecciano con eventi di discriminazioni e di violenza. Il mondo arabo, fra l’altro, fu tramite della diffusione nell’ Europa romanza della grande narrativa proveniente dall’Estremo Oriente grazie al filtro rappresentato dalla Persia.

Questa “rete fluviale” non può essere oscurata. Fa parte della nostra storia, rappresenta i portolani e gli snodi della nostra cultura plurale, della nostra identità plurale. Ha una cittadinanza di fatto, spesso non adeguatamente riconosciuta come dovrebbe, nelle nostre storie delle arti, delle letterature, delle scienze, nei canoni, nella formazione delle nuove generazioni.

Ho molto apprezzato, per vari aspetti, un libretto di François Jullien, L’identità culturale non esiste (2018), ma con qualche distinguo:

«penso che sia necessario volgere lo sguardo anche a quel che le culture “altre” hanno apportato, risultandone tratto strutturante, alle nostre che, come sopra già rilevato, sono, appunto, eterogenee e plurali. Risulta del tutto ideologica, in quanto frutto di falsa coscienza, una concezione dell’identità come sfera chiusa in sé, monolitica, segnata da “scarti” che la rendono sì dialogica, ma entro i propri confini. Se verifichiamo come le identità si sono costituite e attraverso quali processi mutano, potremo allora forse fare riferimento a identità plurali aperte in movimento, tali da apportare contributi originali proprio perché risultato anche di una storica positiva contaminazione.
Da questa presa di coscienza può derivare la consapevolezza dell’insostenibilità sia della categoria di “radici” e identità intese come assolute, come essenze, sia di quella di un relativismo estremo che porterebbe specularmente a una passiva accettazione della negazione dello scambio reciproco fra culture realizzatosi nella storia e sempre in atto. La questione non mi pare sia quella di negare le identità in sé, ma quella di comprenderne lo statuto, appunto, plurale, aperto, in movimento. Da qui l’importanza della relazione che, fondata sul dia-logo, porta o può portare a livelli nuovi di visioni originali con il concorso vitale delle culture “altre”» (Pioletti 2020: 9).

089cdcaa-55fa-4d80-8b46-84ba8e7a1319_largeDalla cittadinanza alla cittadinanza attiva

Cittadinanza è categoria che rinvia a un «insieme degli abitanti di una città» e così a «appartenenza di un singolo a uno Stato». Civis, da cui civitate(m), deriverebbe da una radice indoeuropea, ki o ci, che indica l’«insediarsi». (vd. Cortellazzo-Zolli, 1979).  Le altre voci derivano, come ben noto, da cittade. Perché trattare oggi della cittadinanza?

Categoria invero ad ampio spettro di significati, valenze, ricadute in ambiti diversi: storici, ideologici, politici, giuridici, legislativi, sociali, culturali.

Per definizione, sta a indicare «condizione di appartenenza di un individui a uno Stato, con i diritti e i doveri che tale relazione comporta” (vd. Enciclopedia Treccani, alla voce relativa). Si tratta di un versante che non può non ricondurre alla, ahimè, vexata quaestio dello ius soli, ma non solo. È ben noto come il relativo Disegno di Legge n. 2092 che apporta significative modifiche alla L. 5 febbraio 1992, n. 91 che regola le Norme sulla Cittadinanza, dopo essere stata approvata alla Camera, è fermo al Senato: una vergogna. La Destra populista e razzista si oppone, i cosiddetti moderati di varia estrazione evocano altre urgenze che vive il nostro Paese, che indubbiamente sono numerose, ma fra esse dovrebbe figurare anche lo ius soli.

L’Italia non è stata invasa da immigrati! In base al Rapporto Immigrazione 2020 della Caritas risulta, per dati ISTAT al 1° gennaio 2020, che i cittadini stranieri residenti in Italia, inclusi i cittadini comunitari, ammontano a 5. 306. 548 (con un’incidenza sulla popolazione italiana dell’8,8%). In Italia nel 2018 il contributo dei migranti al PIL è stato di 139 miliardi di euro, pari al 9% del totale. Il Disegno di Legge n. 2092, di fronte ai sacrosanti diritti di cittadinanza di immigrati ormai radicatisi nelle nostre realtà, indica soluzioni che non appaiono invero “lassiste”, ritengo che esistano le condizioni per maggiore elasticità, e tuttavia segnerebbe un passo avanti con la variabile fra ius soli “temperato” e ius culturae. Dovremmo farne argomento di un’iniziativa ben più efficace e continua.

Ricordo sommessamente che l’art. 3 della nostra Costituzione così recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Perché continuare a frapporre ostacoli, relativi proprio a razza, lingua, religione, a diventare cittadino italiano a chi da anni vive, lavora, studia nel nostro Paese con regolarità e rispetto delle leggi? La questione è semplicemente una questione di civiltà. I valori della cittadinanza, essi stessi, sono una questione di civiltà.

La cittadinanza non è un dato “ontologico” legato a “suolo e sangue”, come la destra xenofoba vorrebbe: è un dato culturale, di visione, di scelte. La cittadinanza implica la pratica dei valori e dei diritti, oltre che il rispetto dei doveri. Oggi imperano la demagogia, le strumentalizzazioni politiche, la confusa “demenza digitale” di molti dei cosiddetti social. Abbiamo il dovere, soprattutto chi opera nel mondo della cultura e della formazione, di adoperarci per favorire percorsi per una cittadinanza attiva.

Non è sufficiente formare a una professione, come vuole l’attuale dominante paradigma aziendalistico che è a base delle scelte in ambito scolastico e universitario.

Occorre formare anzitutto cittadini coscienti del mondo in cui vivono, dotati di un pensiero critico che li porti a saper distinguere, e che sia, esso stesso, a base di un’auspicabile professionalizzazione. Devastanti oggi l’evasione e la dispersione scolastiche, devastante l’analfabetismo di ritorno. Il nostro impegno va triplicato, a tutti i livelli.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Riferimenti bibliografici
Bettini, M. 2011, Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, il Mulino, Bologna.
Cocchini, F. 2010, Il cristianesimo: le sue origini alla ricerca di un’identità, in «Critica del Testo», Cercando l’Europa, XIII, 3: 89-98.
Cortellazzo, M, – Zolli, P. 1979, Dizionario etimologico della lingua italiana, 5 voll., 1/A-C, Zanichelli, Bologna.
 Gramsci, A. 1950, Osservazioni sul folclore, in Id. Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Giarratana, Torino, 4 voll., II: 2309-2317.
 Jullien, F. 2018, L’identità culturale non esiste, Einaudi, Torino [ed. or. 2017].
Pioletti, A. 2019, Introduzione a Linee storiografiche e nuove prospettive di ricerca. Atti dell’XI Colloquio Internazionale (Roma, 27-28 febbraio 2018), a cura di F. Bellino, E. Creazzo, A. Pioletti, Rubbettino, Soveria Mannelli: 5-8.
            2020, Multiverso, alterità, relazione, dia-logo negli studi di “Medioevo Romanzo e Orientale”, in Medioevo e Moderno: fenomenologia delle rappresentazioni dell’alterità fra Oriente e Occidente, I. Voisinage et altérité en littérature et autres disciplines. Atti del XII Colloquio Internazionale (Parigi, 8-9 novembre 2018), a cura di L. Bottini, M. Cassarino, A. Chraïbi, Rubbettino, Soveria Mannelli: 3-12.

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Antonio Pioletti, professore emerito di Filologia romanza dell’Università degli Studi di Catania, ha condotto le sue ricerche negli ambiti delle letterature francese, spagnola e italiana medievali, della teoria della letteratura e della comparatistica, con interessi rivolti anche al Moderno e al Contemporaneo. Sue pubblicazioni principali sono Forme del racconto arturiano (1984); Renaut de Beaujeu, Il bel cavaliere sconosciuto (1992); La fatica d’amore. Sulla ricezione del Floire et Blancheflor (1992); La porta dei cronotopi (2014); La porta dei cronotopi 2 (2019). Vasta la produzione saggistica su testi epici, materia arturiana, Commedia di Dante, rapporti letterari e culturali fra Oriente e Occidente, rappresentazione letteraria dell’alterità, ricezione delle letterature romanze, canone letterario, costruzione del tempo-spazio nei testi letterari. È condirettore delle riviste «Critica del testo» e «Le forme e la storia», oltre che della Collana «Medioevo Romanzo e Orientale».

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