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Possiamo riparare il mondo che abbiamo già?

 

il-mondo-che-avrete_v4-1di Cinzia Costa

All’inizio del XIX secolo, agli albori della diffusione tecnologica delle macchine di produzione seriale, un movimento operaio, quello dei Luddisti, si fece conoscere per le azioni di opposizione violenta, sabotaggio e distruzione delle prime forme di produzione industriale. La rivoluzione industriale vide sul nascere, dunque, la forte opposizione di gruppi di lavoratori, tra i primi i framework-knitters, lavoratori di calze e maglie al telaio, che vedevano nello sviluppo tecnologico e industriale una minaccia alla propria occupazione, sia in termini di competenze e know how, che in termini salariali. In virtù di questo imminente pericolo i contestatori si recavano nottetempo nelle fabbriche di Nottingham, luogo della prima rivolta del 1811, ma anche di Yorkshire, Lancashire, Derbyshire e Leicestershire, per distruggere i telai meccanici e le macchine che li avrebbero in breve tempo sostituiti nelle mansioni di produzione [1].

La storia dei luddisti non è molto nota, o per lo meno non ricordo di averla mai incontrata tra le pagine dei libri di scuola, quasi certamente perché il movimento operaio ebbe vita breve e venne represso nella violenza con impiccagioni e deportazioni dei rivoltosi quasi sul nascere. Quello che di certo, invece, ho studiato è la Rivoluzione industriale e i suoi fasti, la repentina crescita e l’importanza che le innovazioni tecnologiche introdotte ebbero nell’evoluzione della storia a livello mondiale.

Faccio ricorso a questa breve premessa, non di certo per richiamare con nostalgia un movimento violento e in qualche modo reazionario, ma per evidenziare che la storia dell’Occidente si è caratterizzata per una crescita unidirezionale, che ha preso in considerazione una sola possibile opzione di sviluppo e che ha invece soppresso e rimosso, anche storicamente, tutto ciò che ostacolasse o anche solo mettesse in dubbio la giustezza dell’obiettivo perseguito.

Ciò che intendo dire, e che spiegano molto bene nel loro ultimo testo Il mondo che avrete. Virus, Antropocene, Rivoluzione Marco Aime, Adriano Favole e Francesco Remotti (Utet 2020), è che nella razionale e scientifica società occidentale capitalista esiste vivo e forte un dogma, che vige pressoché indiscusso e indiscutibile da decenni ormai: il mito del progresso infinito. Un mito che mira ad una continua e ininterrotta evoluzione tecnologica, che consuma risorse e che guarda ad un presente imperituro senza preoccuparsi delle ripercussioni che le azioni di oggi avranno sul mondo di domani. Questo approccio prepotente e irriverente nei confronti della natura, delle altre specie viventi, ma anche delle altre società considerate “arretrate”, ha delle radici religiose e filosofiche che Remotti espone in modo esauriente nel primo capitolo. Già nella Genesi si legge infatti

«1) Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, affinché domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra. (1, 26)
2) Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela. (1, 28)»

71busscs31lNell’evoluzione della specie umana l’Homo sapiens [2] si è dunque auto investito del ruolo di dominatore e padrone della Terra, tanto da spingersi all’infinita conquista di terre vergini in nuovi continenti, come testimoniano le imprese dei conquistadores del XVI secolo [3], o di Paesi abitati da forme di vita considerate inferiori, come dimostra il colonialismo europeo del XIX secolo, o ancora, addirittura, in altri pianeti del sistema solare, come attestano i nuovi progetti annunciati dall’imprenditore Elon Musk, che dopo aver lanciato i suoi astronauti nello spazio si propone di creare una città abitata da uomini su Marte.

Questa continua, inarrestabile e ottimistica corsa è continuata ciecamente, fino ai primi mesi del 2020, quando alcuni tra gli Stati più potenti al mondo si sono trovati di fronte all’esplosione di contagi di un virus sconosciuto e in buona parte letale. Questa situazione inedita per i governatori del nostro tempo ha portato improvvisamente ad una serie di provvedimenti che hanno imposto la chiusura totale della gran parte delle attività sociali e produttive. Un blocco e una sospensione di cui mai gli europei e gli americani (in particolare) erano stati vittime.

Come sottolinea Favole, nel secondo capitolo del libro, ridurre la storia del mondo semplicemente al nostro secolo, o anche ridurre l’umanità tutta alle sole popolazioni occidentali è fuorviante ed estremamente restrittivo [4]. È bene infatti ricordarsi che le privazioni che abbiamo subito e i diritti di cui ci siamo sentiti privati durante il corso di questa pandemia, primo fra tutti il diritto a viaggiare, ma anche quello a non essere costretti in casa o quello di rendere onore ai cari scomparsi attraverso un rito funebre (tutte cose che ci hanno fortemente segnato), sono diritti che sistematicamente violiamo quando parliamo di umanità altre. Quando ci siamo visti additare come untori e trattare clinicamente negli aeroporti come corpi infetti, avremmo dovuto riflettere su quante volte siamo stati noi a riprodurre questi atteggiamenti lesivi. Dice Favole:

«Il senso di impotenza che abbiamo provato dopo le improvvise chiusure – occorrerà ricordarsene in futuro – è lo stesso che, per altri motivi principalmente di natura politica, tanti esseri umani provavano ben prima della nascita del coronavirus, davanti ai mille confini reali e simbolici che li separano da mete desiderate. […] Quante volte nel nostro paese abbiamo trattato gli “altri”, i migranti, come virus che infettano, realmente o simbolicamente, un tessuto sociale integro? Quante volte li abbiamo lasciati in lockdown per mesi, a volte per anni, nei centri di identificazione ed espulsione? Ricordate, poco più di un anno fa, il confinamento dei migranti salvati in mare sulle navi delle ONG, su decisione del governo italiano? Sovvertendo gli immaginari, Sars-Cov-2 è arrivato viaggiando su costosissimi aerei, in giacca e cravatta, in taxi dai vetri schermati che conducevano facoltosi professionisti nel cuore delle metropoli occidentali, e non sui barconi poveri che attraversano il Mediterraneo».

9788833918693_92_0_0_75Se la pandemia è stata una catastrofe inedita nel mondo contemporaneo, è tuttavia importante riconoscere che essa e le condizioni di vita imposte dai contagi hanno contribuito a porre sotto i nostri occhi aspetti che l’accecamento, di cui molto si parla e si spiega in questo libro, di solito cela. In primo luogo la natura e le altre specie viventi sono tornate a popolare aree generalmente rese loro pericolose dalla frequentazione umana.

«L’espressione “ritorno della natura”, in verità, appare doppiamente impropria. Gli animali non sono “ritornati” da un qualche misterioso altrove, piuttosto si sono manifestati. […] In realtà siamo soprattutto noi umani che, avendo rallentato la corsa, abbiamo avuto improvvisamente occhi per vedere, orecchi per sentire i loro suoni, tempo per percepire la loro presenza».

In secondo luogo il distanziamento sociale, l’impossibilità di incontrare parenti e amici, e la necessità di rimanere chiusi in casa ha in parte riacceso alcune abitudini che sembravano scomparse: la coltivazione dei buoni rapporti di vicinato, la preparazione del pane in casa, gesti dal sapore antico, ma che in qualche modo hanno riportato a galla i bisogni essenziali di una società, la necessità di sentirsi parte di una comunità e di manifestare e riceve solidarietà.

Risuonano proprio così le parole di Pepe Mujica in un discorso pubblico tenuto a Rio de Janeiro nel 2012, e che Aime menziona:

«L’uomo non governa oggi le forze che ha sprigionato, ma queste forze governano l’uomo… Perché non veniamo alla luce per svilupparci solamente, così, in generale. Veniamo alla luce per essere felici. Perché la vita è corta e se ne va via rapidamente. E nessun bene vale come la vita, questo è elementare. Ma se la vita mi scappa via, lavorando e lavorando per consumare un plus e la società di consumo è il motore, perché, in definitiva, se si paralizza il consumo, si ferma l’economia, e se si ferma l’economia, appare il fantasma del ristagno per ognuno di noi. Questo iperconsumo è lo stesso che sta aggredendo il pianeta».

In poche parole «la pandemia ci ha fatto capire, per contrasto, che cosa sia l’Antropocene e quanto incida sulla Terra l’attività umana».

Un altro aspetto molto importante che gli autori, in particolare Remotti, analizzano nel testo è il fatto che altre società nel mondo posseggono degli strumenti culturali volti a riprodurre delle “sospensioni” programmate, che servono ad azzerare il percorso e ritornare al punto di partenza, ricordando che la Terra non è nostra, ma siamo ospiti che convivono sul pianeta insieme ad altre specie, e che la Natura (o il divino) ha il potere di distruggerci da un momento all’altro. Un giubileo culturale, che il mondo capitalista ha rimosso o non ha mai elaborato. Una delle “sospensioni” più note è lo shabbath ebraico, giorno in cui è vietato lavorare ed è obbligatorio interrompere qualsiasi attività produttiva; l’altra sospensione programmata presa in esame è quella dei BaNande del Congo, popolo di disboscatori e coltivatori, che interrompono il proprio operato sia localmente in alcune aree della foresta, sia temporaneamente in seguito alla morte del mwami, il capo, fino all’incoronazione del capo successivo.

In Italia, e ancora di più con l’avvento delle grandi multinazionali sul territorio, la sospensione “economica” è completamente scomparsa. Sebbene non sia mai esistita ad una vera programmazione di momenti di stallo o chiusura, si può ricordare che fino ad un decennio fa la domenica tutte le attività commerciali erano chiuse e, in alcune parti d’Italia, il mercoledì pomeriggio tutti i negozi di generi alimentari abbassavano le saracinesche. Negli ultimi anni si è sempre di più assistito ad una corsa alle aperture, l’imperativo del consumo a tutti i costi ha imposto giornate lavorative di fuoco a commessi e lavoratori dei centri commerciali anche nei giorni festivi.

È certo che una sospensione così lunga e obbligata da un’emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo non è paragonabile in toto agli esempi qui riportati. Tuttavia è difficile non riscontrare alcune analogie, e non pensare a quei riti o a quei momenti sociali che possono in qualche modo essere configurati come sospensioni, e che nella storia servivano, anche solo temporaneamente, ad azzerare i debiti o a ribaltare i ruoli sociali; penso per esempio ai Saturnali romani o ai Giubilei, in cui non solo si otteneva l’indulgenza plenaria dei propri peccati, ma in alcuni casi si è proposta anche la cancellazione dei debiti.

81s75aatu5lIl tema del debito, approfonditamente affrontato dal noto antropologo recentemente scomparso David Graeber, meriterebbe un’ulteriore analisi alla luce del cieco sviluppo capitalistico e del destino dell’Antropocene; anche il debito rientra infatti nel meccanismo economico delle gerarchie di sviluppo e un enorme debito pubblico in Italia grava sulle spalle delle nuove generazioni. L’accumulazione di un debito quasi certamente incolmabile e il consumo sfrenato delle risorse disponibili hanno già segnato Il mondo che “avranno” i giovani in Occidente. La differenza anagrafica è infatti oggi, quanto mai nella storia, anche una differenza di potere; la fascia d’età considerata “gioventù” è andata dilatandosi nel tempo e i posti dirigenziali e di potere sono accentrati ormai nelle mani di uomini (di solito) di terza età [5]. La gioventù è infatti associata a inaffidabilità e inesperienza; i giovani, a differenza di quello che avviene in altre società, non vengono dunque mai presi sul serio e vengono screditati, senza che la loro voce sia ascoltata o presa seriamente in considerazione, sebbene ne abbiano pieno diritto in qualità di protagonisti del presente e del futuro delle nostre società.

Una delle voci dei giovani divenuta tra le più note negli ultimi anni è quella di Greta Thunberg, 17 anni, la celebre attivista del mondo in prima linea nel contrasto ai cambiamenti climatici. Nel libro la giovane svedese viene citata esponente della “cultura sull’Antropocene”, ovvero quella cultura che è pienamente cosciente dei limiti e degli effetti devastanti dell’Antropocene, e che si espone pubblicamente per contrastarne o arrestarne l’evoluzione. Ciononostante Greta Thunberg, così come Davi Kopenawa, uno sciamano della società degli Yanomami, vengono menzionati come figure marginali della società occidentale, perché la loro visione rimane comunque quella di una minoranza.

Mi piacerebbe dunque a questo proposito ricordare tutte quelle voci “marginali”, che, riscoperte, potrebbero ridare nuova linfa alle azioni di contrasto allo “sviluppo infinito”, quelle voci che rimandano alla cura e alla solidarietà e che hanno teorizzato l’esistenza di un’alternativa valida e concreta al paradigma etnocentrico, antropocentrico e utilitarista, testimonianza di vita e di idee che in gran parte appartengono al mondo dell’antropologia.

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Alexander Langer

La conclusione di questo breve contributo di lettura del libro Il mondo che avrete, vuole quindi richiamare alla memoria le parole e le lezioni di Alain Caillé e di tutti gli esponenti del MAUSS (Movimento Anti Utilitaristico delle Scienze Sociali), di Serge Latouche, fautore del concetto di “decrescita felice”, di David Graeber, che prendendo le mosse dal Saggio su dono di Marcell Mauss, ha studiato la storia del Debito nell’evoluzione delle società umane, di Karl Polanyi che, attraverso il concetto di embeddedness ha dimostrato che gli occidentali non sono pura ragione e l’economia non è puro calcolo, e non è gestita da una Mano invisibile, ma che anche l’economia è incorporata e intrecciata con i valori della società; e, infine, di Alexander Langer, il noto politico ecologista, morto suicida nel 1995, che invitava a «provare sempre a riparare il mondo» [6].

La crudele contingenza che stiamo vivendo, mentre ci fa assistere con sgomento alle stragi quotidiane di vittime della pandemia, può essere occasione, come tutte le crisi profonde, di un ripensamento, di un ricominciamento, di una rivoluzione che ci traghetti in un mondo nuovo che serbi memoria del passato. «Può sembrare strano – scrive Marco Aime, nell’ultima pagina del libro – che la parola rivoluzione derivi dal verbo latino revolvere: volgere indietro, ritornare, voltare. Non si tratta certamente di tornare al passato, ma di fare un piccolo passo indietro, prendere le distanze dalla realtà esistente per osservarla meglio, in modo critico. Guardare con occhi nuovi senza paura di essere tacciati di utopismo».

Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Note
[1] Maggiori informazioni sul luddismo possono essere trovate nel contributo di Salvadori L., Villi C., Il luddismo. L’enigma di una rivolta, Iduna 2018
[2] O Homo faber come già Karl Marx, Hannah Arendt e altri grandi autori avevano suggerito e come ricordano di autori de Il mondo che avrete.
[3] Come non pensare, alla hybris di Aguirre, il furore di Dio che Herzog ha raccontato poeticamente.
[4] Quello che è successo con la pandemia da coronavirus è in parte del tutto inedito, ma solo un ricco archivio ci permette di non considerarlo del tutto imprevedibile e dunque incomprensibile. La cecità è grande, ma lascia vie di fuga allo sguardo, se solo non ci chiudessimo nell’arrogante idea di essere, “noi”, l’espressione della società più evoluta, più importante, più razionale che sia mai esistita.
[5] Basti pensare che alle ultime presidenziali negli Stati Uniti lo scontro si è tenuto tra due ultrasettantenni (Biden 78 anni, Trump 74). È difficile pensare che non esistessero potenziali candidati abbastanza qualificati più giovani, è più realistico pensare che nel mondo occidentale si associno alla “gioventù” concetti come inadeguatezza, inesperienza, incapacità.
[6] Alcuni riferimenti bibliografici: Caillé A., Il terzo paradigma: antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, 1998; Latouche S., Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, 2010; Graeber D., Debito, il Saggiatore, 2012; Polanyi K., La grande trasformazione, Einaudi, 2000.

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Cinzia Costa, dopo aver conseguito la laurea in Beni demoetnoantropologici all’Università degli Studi di Palermo si è specializza in Antropologia e Storia del Mondo contemporaneo presso l’Università di Modena e Reggio Emilia con una tesi sulle condizioni lavorative dei migranti stagionali a Rosarno, focalizzando l’attenzione sulla capacità di agency dei soggetti. Si occupa principalmente di fenomeni migratori e soggettività nei processi di integrazione. Collabora con l’Associazione Sole Luna – Un ponte tra le culture.

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