Stampa Articolo

Performance culturali, politiche dell’identità e sfera pubblica islamica nel Marocco contemporaneo

La bandiera nazionale del Marocco proiettata sul maxischermo, Festival des Cerises, Sefrou, 2019. Foto di Michela Buonvino.

La bandiera nazionale del Marocco proiettata sul maxischermo, Festival des Cerises, Sefrou, 2019 (ph. Michela Buonvino)

di Michela Buonvino [*] 

Diventare lo Stato, rappresentare lo Stato 

Ciò che potrebbe forse a prima vista sembrare un’operazione agevole e aproblematica, ovverosia il tentativo di riferirsi a un “Paese”, individuandolo e includendolo in quanto soggetto e oggetto delle nostre ricerche, come un’entità sociale con una sua fisionomia, dotata di un suo “potere”, rappresenta, al contrario, una questione delicatissima e assai scivolosa. «Distesa di spazio delimitata da confini, variamente permeabili», «immenso segno, dalle molteplici letture» (Geertz 1995: 35), un “Paese” sfugge a qualsiasi tipo di riduzione, che sia quella compiuta dal «linguaggio nominalista delle cose materiali» e/o quella operata dal «linguaggio platonico delle forme ideali» (ibidem).  

Nella mia ricerca dottorale ho tentato l’esplorazione dei nessi tra performance culturali e memoria culturale nell’ambito dei processi di formazione e consolidamento di un composito “apparato rituale e simbolico” (lo Stato marocchino) destinato al contempo a ribadire e a trascendere la sua dimensione nazionale. Il compito che ci si è posti è stato quello di produrre una de-essenzializzazione dell’entità statale, intesa come un’entità stratificata, contraddittoria, un insieme trans-locale di istituzioni, di azioni e persone, che necessita di essere contestualizzata all’interno di specifiche dinamiche transnazionali (cfr. Sharma, Gupta 2006).

Inoltre, in un’ottica critica dei discorsi che paventano una perdita di forza degli Stati-nazione, in conseguenza della riduzione della loro sovranità, separata parzialmente dal controllo statale per essere mappata all’interno di ONG e organizzazioni sopranazionali, ho tentato di mostrare come i fenomeni transnazionali abbiano di fatto alterato il ruolo dello Stato-nazionale. Senz’altro i processi economici transnazionali e la riorganizzazione degli assetti politici globali hanno trasformato la natura del legame tra sovranità e territorialità ma ciò non riduce la rilevanza che assume tutt’oggi lo Stato sia come “concetto cornice” sia come “realtà materiale”.

Ho scelto, dunque, di studiare lo Stato rappresentato, lo Stato discorsivamente immaginato, attraverso l’approfondimento etnografico delle dinamiche relative alla produzione e alla circolazione dei discorsi culturali statali, osservandone la ricezione, la rielaborazione e la mobilitazione in specifici contesti “locali”. Nel mio lavoro ho tentato, pertanto, di distaccarmi da una concezione essenzialistica, astratta e de-personificata del potere, ossia da una visione che pretende di comprenderlo al di fuori delle condizioni storico-culturali entro cui esso è generato, rivendicato ed esercitato.

La ricerca da me condotta vorrebbe situarsi all’interno dei dibattiti relativi alla formazione delle identità e delle culture nazionali in uno Stato-nazione postcoloniale, cogliendone la natura processuale. Ho voluto porre l’accento non tanto sulla questione della condivisione delle forme culturali, quanto sulle modalità della loro distribuzione, nella fattispecie, sugli sforzi insiti nelle politiche culturali marocchine di uniformazione dell’immaginario, sulla produzione delle diseguaglianze e delle marginalità. Ciò che si esprime nelle performance culturali marocchine è un complesso, pluridirezionale processo di «costruzione sociale del passato» (Halbwachs 1997). A essere chiamato in causa è il rapporto tra una nazione e il proprio passato, la propria storia, la propria memoria. In altre parole, mi sono occupata delle connessioni che intercorrono tra il «ricordo (o riferimento al passato), l’identità (o immaginativa politica) e la perpetuazione culturale (o costituirsi della tradizione)» (Assmann 1997: XII).

71dgqa6dgwl-_ac_uf10001000_ql80_Jan Assmann, sulla scia delle riflessioni di Maurice Halbwachs, ha sottolineato la necessità della mise en scène del ricordo attraverso una pluralità di generi rappresentativi affinché questo esprima i suoi significati e contribuisca alla formazione della memoria e dell’identità dei gruppi sociali. Esaminare le performance culturali statali significa inoltrarsi nell’esplorazione di come, per dirla con Mary Douglas, le istituzioni classificano, conferiscono identità, ricordano e dimenticano (Douglas 1986; cfr. Connerton 1989). La memoria nella sua dimensione collettiva istituisce dei legami con il passato che sono sempre di natura ricostruttiva, per cui il passato non è mai preservato ma sempre reinventato e riorganizzato in relazione ai quadri di riferimento presenti. Si tratta, detto altrimenti, di un lavoro di selezione del vissuto che «tende all’individuazione di un ordine diacronicamente costruito, che miri a legittimare l’agire del presente e giustificare l’operare per il futuro» (Iuso 2018: 7).

Le classi dirigenti marocchine, all’indomani dell’Indipendenza, intrapresero un’operazione di domesticazione della Storia (Fabre 2000), intesa in quanto «specifico tipo di “patrimonio”» (Iuso 2018: 8) [1]. In un suo celebre articolo intitolato Le roi chronophage. La construction d’une conscience historique dans le Maroc postcolonial, Lucette Valensi (1990) ha dimostrato come, nel quadro del processo di costruzione della memoria collettiva e dell’identità nazionale nel Marocco postcoloniale, il Re sia stato protagonista di un processo di ricerca di nuove forme di scrittura della storia aventi come fine l’appropriazione delle conoscenze sul passato. Difatti, come spiega Valensi, la necessità di forgiare l’identità nazionale marocchina richiese la creazione di una coscienza storica e la messa in moto di un apparato statale in grado di produrre e monopolizzare un patrimonio comune di simboli e istituzioni.

Il caso del Marocco si presenta alquanto peculiare, poiché – proprio in virtù della continuità dinastica, territoriale e per certi aspetti culturale che caratterizzò il passaggio dal periodo coloniale a quello postcoloniale – fu possibile, per la monarchia, la ricerca di una – seppure parziale – coincidenza di memoria dinastica, memoria nazionale e memoria domestica. In un tale disegno, ovverosia nel dispiegamento del progetto di scrittura di una storia allegorica che partecipa a una «politique d’auto-celebration active» (ivi: 295), la fioritura dei moussems (di cui si darà una definizione nel prossimo paragrafo) e delle feste nazionali, i processi di statalizzazione della festa “tradizionale”, come anche i processi di festivalizzazione culturale, ebbero un ruolo di primaria importanza.

In questa sede non è possibile ripercorrere le tappe di attuazione del progetto nazionale marocchino, a partire dal XIX secolo – periodo in cui il Marocco sperimentò una fase di apertura “forzata” al resto del mondo e, conseguentemente, quella che è stata definita una «rénovation par accident extrinsèque» (cfr. Benjelloun 2002: 57-59) – fino all’instaurazione della monarchia (1956). Allo stesso modo, non possiamo qui offrire una panoramica delle operazioni di “pacificazione” del Paese compiute in particolare dai francesi durante il Protettorato (1912-1956); questi, anche tramite l’uso della forza, promossero una politica disarticolante dei rapporti sociali, della morfologia urbana, dei rapporti tra città e campagne ecc. Possiamo, tuttavia, offrire nel prossimo paragrafo, qualche informazione di carattere molto generale relativa agli usi politici della festa nei periodi coloniale e postcoloniale. 

Un gruppo di giovani marocchini assiste al concerto del rapper Muslim, Festival des Cerises, Sefrou, 2019. Foto di Michela Buonvino

Un gruppo di giovani marocchini assiste al concerto del rapper Muslim, Festival des Cerises, Sefrou, 2019 (ph. Michela Buonvino)

Mise en festival e reinvenzione della “marocchinità” 

Molti festival marocchini costituiscono il risultato di una serie di politiche culturali inaugurate dallo Stato a partire dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, aventi l’obiettivo di promuovere l’immagine di un Marocco multiculturale, aperto alle “diversità” interne ed esterne ai confini nazionali. Questa mise en scène di una cosmopolitan openness (cfr. Bennett et al. 2014) va spesso di pari passo con l’attivazione di tutta una serie di processi di patrimonializzazione [2] e di valorizzazione della “ricchezza culturale” marocchina. In Marocco si festeggiano attualmente circa 200 festival all’anno. Il processo di festivalizzazione della cultura consiste perlopiù nella trasformazione –condotta dallo Stato – dei moussems [3] – fiere a carattere rurale, celebrate nella maggior parte dei casi in onore di un santo o marabutto (secondo un calendario agricolo e/o religioso) – in eventi nazionali addetti alla socializzazione e all’incorporazione dei simboli dello Stato (cfr. Reysoo 1991). Al giorno d’oggi i moussems in Marocco sono all’incirca 800 (Berriane et al. 2016: 297); molti di questi sono andati incontro, nel corso del tempo, a cambiamenti considerevoli, assumendo la fisionomia di festival “moderni”, volendo indicare, con questa ultima espressione, il risultato di un processo di adeguamento della festa “tradizionale” marocchina a un modello festivo internazionale urbano. Questa trasformazione costituisce probabilmente uno degli esiti più spettacolari del processo di redistribuzione urbana della diplomazia culturale statale (cfr. Dines 2021; Brenner 2009).

A partire dalla conquista dell’Indipendenza, la celebrazione dei moussems divenne uno strumento finalizzato alla diffusione di un’ideologia nazionalistica che mirava a rafforzare la legittimità spirituale e temporale dei sovrani alawiti. In realtà, la dinamica di appropriazione delle feste da parte delle autorità non rappresentava una novità nella storia del Marocco. Durante l’epoca sultaniale i sovrani erano soliti effettuare donazioni ai moussems celebrati in onore di determinati marabutti. Anche i francesi incentivarono o vietarono la celebrazione di alcuni moussems al fine di esercitare pressioni su determinati gruppi, inaugurando, tra il 1912 e i primi anni Venti del Novecento, una vera e propria politica dei moussems. A partire dal 1930, subito dopo la proclamazione del dahir berbero (che mirava alla soppressione del diritto religioso presso i territori berberi che, in tal modo, venivano di fatto sciolti dall’amministrazione sultaniale), le autorità francesi incominciarono a interdire la celebrazione di determinati moussems, poiché rappresentavano, ai loro occhi, occasioni pericolose di aggregazione per il movimento proto-nazionalista latîf, nato in quegli anni proprio in risposta alla proclamazione del dahir.

Il processo di domesticazione della storia sopramenzionato fu realizzato anche attraverso la statalizzazione massiccia delle feste “tradizionali”. Tuttavia, non meno significativo fu il processo di creazione ex-novo di festival nazionali e internazionali, che prese ufficialmente avvio a partire dal 1959, anno in cui Mohammed V inaugurò il Festival National des Arts Populaires. Tale processo conobbe un’accelerazione considerevole a partire dalla seconda metà degli anni Novanta dello scorso secolo. La prima edizione di questo festival fu presentata da Meriem Aherdan, moglie dell’ex Ministro Mahjoubi Aherdan, come l’incontro storico tra le varie componenti di una comunità nazionale («il Nord e il Sud del Paese», i cittadini inurbati e quelli delle campagne) finalmente libera dal dominio occidentale e pronta a ritornare, con «riscoperta indipendenza», a un’«autentica cultura marocchina» (cfr. Sefrioui 1965). A partire dagli anni Ottanta del Novecento i moussems furono l’oggetto di un’importante operazione di promozione turistica, portata avanti dal Ministero del Turismo, e molti di questi passarono ufficialmente sotto il controllo del Ministero dell’Interno.

bennetLa festivalizzazione culturale costituisce tuttora uno strumento essenziale di realizzazione del progetto culturale di costruzione e di rafforzamento dell’identità nazionale marocchina, come anche di promozione, a livello locale, delle politiche pubbliche nazionali. Per alcuni studiosi i festival marocchini, sia quelli “derivati” dai moussems sia quelli di creazione più recente, rappresenterebbero una modalità sofisticata ed efficace di promozione e di mediatizzazione delle politiche culturali statali. La festivalizzazione della cultura marocchina si esprime, difatti, anche attraverso una serie di processi di riabilitazione depoliticizzante di determinati gruppi interni alla società, percepiti come potenzialmente “nocivi” alla stabilizzazione sociale, economica e politica della monarchia e “ostacoli” all’internalizzazione dei valori della cultura nazionale. La folklorizzazione delle manifestazioni culturali berbere e la loro mise en performance, come anche le strategie di festivalizzazione del malcontento giovanile e i processi di rivitalizzazione strategica del sufismo, dunque l’inclusione di questi diversi gruppi all’interno di un discorso nazionale che trova nella retorica della “resistenza” il suo fondamentale punto di articolazione, sono, allo stesso modo, comprensibili nel quadro di una serie di politiche identitarie statali che mirano alla creazione di un comune patrimonio culturale nazionale attraverso una depoliticizzazione strategica.

I primi anni Trenta del Novecento furono contrassegnati dalla diffusione di un profondo sentimento antifrancese, che si concentrò attorno alle politiche coloniali berbere tese a ratificare la distinzione etnica tra arabi e berberi. Agli occhi dei nazionalisti il decreto rappresentava un affronto inaccettabile all’unità della comunità musulmana, imponendo lo svincolamento dei berberi dalla shari’a. Seppur al centro delle retoriche identitarie dei nazionalisti urbani arabi e islamici, le voci dirette dei berberi delle campagne rimasero in realtà perlopiù silenti.

Subito dopo la conquista dell’Indipendenza, Mohammed V abrogò il sistema di diritto consuetudinario berbero per riunificare la giurisdizione sotto il segno della legge islamica. Nondimeno, il Marocco postcoloniale procedette all’arabizzazione delle politiche educative. Nel testo costituzionale del 1962 l’arabo fu riconosciuto come l’unica lingua ufficiale del Paese. In seguito al coinvolgimento di alcuni leaders berberi nei tentati colpi di Stato degli anni Settanta, ebbe inizio un vigoroso processo di folklorizzazione della cultura amazighe dai chiari intenti depoliticizzanti. Per contrastare il dissenso interno alle istituzioni, lo Stato optò per un’imposizione più diretta e meno inclusiva del sentimento nazionale. Il primo bersaglio di questo cambio di rotta furono i berberi. Negli anni Ottanta, con l’aumento vorticoso dell’inurbamento berbero, lo Stato decise di optare per una diversa politica: contenere le spinte potenzialmente sovversive dei movimenti berberi e contemporaneamente incoraggiare e finanziare politiche di valorizzazione della diversità etnica e culturale, fonti di preziosi guadagni per il mercato turistico nazionale.

Le manifestazioni culturali berbere furono oggetto di energici processi di esotizzazione endotica, che comportarono la tradizionalizzazione, la spettacolarizzazione e la mercificazione di specifiche pratiche culturali berbere (come l’ahidous e l’aita). L’invenzione del primitivo interno coincise con la produzione della sua marginalità, nonché con la sua tendenziale trasformazione in bene di consumo per l’economia turistica nazionale e internazionale.  A partire dagli anni Novanta, in concomitanza con l’apertura dell’era dei festival, i concetti di “minoranza” e di “maggioranza” iniziarono a essere sostituiti da quello che Aomar Boum ha definito la versione omogenea seppur superficiale del cittadino democratico e multiculturale. Dai primi anni Duemila, il governo acconsentì, anche a causa delle crescenti pressioni internazionali, all’inserimento ufficiale della componente berbera all’interno della sfera pubblica nazionale, in quanto soggetto attivo e promotore di sviluppo.

Il village amazigh, Festival des Cerises, Sefrou, 2019. Foto di Michela Buonvino.

Il village amazigh, Festival des Cerises, Sefrou, 2019 (ph Michela Buonvino)

Il Manifesto Amazigh (2000) è il documento che esemplifica bene questo processo di riabilitazione della cultura amazighe e del suo inserimento all’interno del discorso nazionale. Il discorso identitario marocchino venne rielaborato sulla base dei concetti di ibridità e di inclusione e nel 2005 l’Université Sidi Mohamed Ben Abdellah, l’Institut Royal de la Culture Amazighe (IRCAM), l’Association Fès-Saiss e il comune di Fès, sous le patronage di Sua Maestà, organizzarono il primo festival nazionale della cultura amazighe, che ebbe luogo proprio a Fès, capitale del partito Istiqlal (nazionalista e conservatore). Il 17 ottobre 2001, durante la cerimonia per la firma del decreto con il quale si ratificava la creazione dell’IRCAM, tenutasi sull’altopiano di Ajdir, al centro della catena montuosa del Medio Atlante, Re Mohammed VI pronunciò un discorso in cui si ridefinivano i caratteri della “marocchinità” [4]. Nel discorso reale si riconobbe all’amazighité un ruolo di primaria importanza nel processo storico di definizione della comunità nazionale immaginata. Il processo di re-immaginazione della nazione marocchina, guidato dalla monarchia, si ricentrò sull’affermazione e sul riconoscimento del pluralismo culturale interno. Tale pluralità, nel discorso di Ajdir, è tuttavia ri(con)dotta a un unico corpo, grazie alla guida della dinastia Alawita, che ha dimostrato di saper resistere alle minacce degli invasori, scongiurando le divisioni interne, garantendo, per secoli, la difesa del Paese e la sua integrità. Il Discours d’Ajdir riabilitò dunque gruppi in passato considerati “subalterni”, attribuendo loro un ruolo rovesciato, egemonico, anche nel quadro della scrittura di una «storiografia teleologica del Protettorato» (Wyrtzen 2013: 184).

Dopo la conquista dell’Indipendenza prese avvio, inoltre, quello che Dale F. Eickelman (1989) definì uno dei più significativi processi di sviluppo della società marocchina, ovverosia la politicizzazione progressiva delle giovani (educate) generazioni e la loro altrettanto progressiva disillusione nei confronti dei veicoli dell’espressione politica dell’epoca. Gli anni Sessanta e Settanta furono contrassegnati da un irrefrenabile susseguirsi di proteste condotte da giovani studenti dei licei e delle università, i quali iniziarono a farsi promotori di una serie di rivendicazioni ispirate alle agende politiche dei partiti della sinistra radicale. Queste proteste costituirono il primo nucleo di un movimento controculturale che trovò risonanza nella musica pop del gruppo Nass al-Ghiwane. L’esperienza di Nass al-Ghiwane trovò eco, circa quindici anni più tardi, seppur nel quadro di un contesto sociopolitico radicalmente mutato, nella nascita e nella diffusione in Marocco della cultura rap e hip hop.

Gli anni Ottanta e Novanta del Novecento furono contraddistinti da una serie di violente rivolte dovute ai fallimenti dei piani di sviluppo economico degli anni Sessanta e Settanta, che comportarono un vertiginoso aumento dei prezzi. Al cuore di quelle proteste (si pensi alle manifestazioni del 1981, del 1984 e del 1990) c’erano i giovani di Casablanca che di lì a poco avrebbero dato vita al Festival L’Boulevard; la nascita di questo evento pubblico sancì la “liberalizzazione” definitiva del rap e dell’hip hop in Marocco. Attualmente L’Boulevard rappresenta il principale evento pubblico marocchino dedicato alla musica giovanile e la manifestazione più importante associata al movimento culturale Nayda (termine traducibile come “risveglio”). Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila lo Stato intraprese una vera e propria “politica musicale”, dando avvio a quella che diversi studiosi hanno definito “l’era dei festival”; alcune personalità politiche estesero il loro patronage sui principali festival (cfr. Ben-Layashi 2013).

Attualmente i festival marocchini più celebri sono supervisionati e promossi da consiglieri del Re o da ministri (cfr. Graiouid, Belghazi 2013). In continuità con la presa in carico della gestione dei moussems da parte del Ministero del Turismo e del Ministero dell’Interno, gli anni Novanta furono contraddistinti dal definitivo inserimento dell’organizzazione delle feste nel novero delle attività ministeriali, in primis del Ministero della Gioventù, della Cultura e della Comunicazione, che divenne la prima autorità in materia di produzione artistica e culturale. Sotto la gestione del Ministero della Cultura ricade, tuttavia, soltanto una parte di questi eventi; la scena dell’organizzazione dei festival marocchini è popolata da una vasta gamma di attori, come le prefetture, le direzioni regionali, provinciali, comunali. In alcuni casi le comunità locali giocano un ruolo attivo nelle varie fasi organizzative. Parte degli oneri organizzativi spetta, poi, ad altre istituzioni ufficiali come l’Office National du Tourisme, i Centres Régionaux d’Investissement e l’Institut Royal de la Culture Amazighe. Ultime ma, di certo, non meno importanti, le associazioni e le fondazioni non governative, sorte proprio allo scopo di istituire e promuovere queste manifestazioni culturali, alla cui direzione lo Stato posiziona membri fidati delle élites politiche, culturali e religiose. Queste ONG (ad esempio, la Fondation Esprit de Fès, e l’Association Essaouira Mogador) costituiscono le vere forze motrici di questi eventi.

71avskmlvml-_ac_uf10001000_ql80_In risposta a queste manovre, significative furono le critiche mosse al Festival Mawazine da alcuni membri eminenti del PJD (Parti de la Justice et du Développement); Habib Choubani criticò il Festival definendolo un inutile spreco di risorse che sarebbe stato meglio impiegare a sostegno delle fasce meno abbienti della popolazione. Nel 2011 trentamila persone firmarono una petizione, circolata su Facebook, per richiedere l’annullamento della decima edizione del Mawazine. Anche la gioventù marocchina elaborò, in quegli stessi anni, una simile, energica critica dei festival. I rapper Chekhsar, Muslim e El Haqed divennero le icone di una gioventù arrabbiata, disillusa, flagellata dalla disoccupazione. L’«anti-Mawazine effort» (Boum 2012a: 25) venne tuttavia neutralizzato da una sofisticata strategia statale che non stenteremmo a definire di “festivalizzazione del dissenso giovanile”. La politica musicale dello Stato marocchino si espresse, difatti, anche attraverso una serie di operazioni di cooptazione di alcuni rapper. Un cospicuo numero di artisti iniziò ad avvicinarsi a partiti politici o ad agenzie di Stato, continuando ad alimentare quella che Aomar Boum ha definito «una falsa coscienza della contestazione» (Boum 2012b: 6). Ellen Lust-Okar (2004, 2005) ha descritto in maniera puntuale i meccanismi di questa depoliticizzazione, definendola come il risultato di strategie ingegneristiche assai sofisticate, che operano, generalmente, in quei regimi in cui le élites politiche neo-lealiste sollecitano e mobilitano gruppi di attori, includendoli o escludendoli dalla sfera politica.

Oggi i festival marocchini della musica giovanile sono, per la maggior parte, sponsorizzati dallo Stato. Secondo Boum, il loro scopo principale sarebbe quello di “indorare la pillola” della disoccupazione dilagante tra i giovani. Tali festival musicali consentirebbero un’espressione controllata della devianza e dell’anticonformismo giovanili. Secondo alcuni studiosi la cultura mediata da questi eventi sembra assumere presso i giovani marocchini i tratti di una «weapon of the weak» (Scott 1985), una forma di resistenza quotidiana dei più deboli, che si limita a un’aperta dichiarazione della corruzione politica locale, di diverse problematiche sociali, evitando però lo scontro diretto con l’autorità centrale. In particolare, la festivalizzazione del dissenso giovanile consisterebbe, a detta di Boum, nell’inversione rituale descritta da Victor Turner (1969), ossia in un’inversione temporanea dello status quo. Gli artisti sarebbero pertanto autorizzati dallo Stato a sospendere il sistema gerarchico su cui si articola la struttura sociale marocchina. Si svolgerebbe, entro l’evento festival, il paradosso di una trasgressione consentita. Studiosi come Moulay Driss El Maarouf (2011, 2012, 2016), Sonja Hegasy (2007), Cristina Moreno Almeida (2013) e Kendra Renée Salois (2013) hanno messo l’accento sulle pratiche di negoziazione del potere intraprese dai giovani festival agents. Questi autori, in generale, suggeriscono che l’analisi dei processi di festivalizzazione “dall’alto” possa permetterci di cogliere le retoriche del discorso culturale egemonico in quanto schemi che i soggetti di volta in volta marginalizzati abitano in maniera non passiva. D’altra parte, le estetiche adoperate dai festival practitioners sono funzionali all’espressione e alla mediazione di nuove forme della cittadinanza e dell’appartenenza, in un contesto in cui la sempre più decisa affermazione del neoliberalismo rende in buona parte obsolete le vecchie forme della partecipazione politica.

Il movimento culturale Nayda sopramenzionato, nei cui valori si riconosce pressoché la totalità degli artisti rap e hip hop marocchini, si fa portavoce di una critica moderata, intrisa di patriottismo e di sufismo, che esorta i giovani a un’attiva partecipazione alla vita del Paese. Un’inchiesta condotta nel 2010 da Khalid Bekkaoui, Ricardo René Larémont e Sadik Rddad ha registrato una crescita significativa del numero di giovani affiliati ai gruppi sufi (Bekkaoui et al. 2011). Rddad e Larémont hanno messo in evidenza, tra l’altro, il ruolo di primo piano assunto dalla trasmissione alle giovani generazioni dei “moderati obiettivi del sufismo”. La rivitalizzazione strategica del sufismo, operata dallo Stato negli ultimi venticinque anni, è da intendersi in maniera complementare al tentativo di scongiurare l’arruolamento giovanile nei gruppi islamisti “radicali” (cfr. Bekkaoui, Larémont 2011). Moulay Driss El Maarouf ha sottolineato il ruolo svolto dai festival musicali marocchini comparsi in seguito agli attacchi terroristici avvenuti a Casablanca nel 2003 e nel 2007 nella lotta al terrorismo locale e nel contrasto all’ascesa del PJD, nonché nel processo di costruzione, orchestrato dallo Stato, di un senso di «togetherness and peace» (El Maarouf 2013: 69), prodotto di un’egemonia culturale statale.

In effetti, questi eventi pubblici vorrebbero giocare un ruolo cruciale nella lotta all’“islamismo radicale” ribattendo attraverso la divulgazione e la sponsorizzazione di messaggi di pace, di apertura, di tolleranza, volendo agire in quanto dispositivi di una politica della speranza [5]. Tali processi comportarono una certa istituzionalizzazione del “fenomeno sufi” che si espresse soprattutto tramite la nomina ministeriale di alcuni membri della tariqa Qadiriyya Boutshishiyya. Il sufismo fu, quindi, l’oggetto di una serie di strumentalizzazioni politiche e mediatiche che lo presentarono come il rimedio perfetto all’islamismo “radicale” o “engagé”. In questa auspicata configurazione politico-religiosa, il sufismo marabutico acquisì un posto di primo piano, in quanto contraltare a un rigorismo religioso riduzionistico promotore di un’esegesi “paralizzata” e incurvabile dei testi fondamentali. Nel quadro della stessa strategia politica, nel 2009, come hanno fatto notare Zakaria Rhani e Aziz Hlaoua, si tenne, al mausoleo di Sidi Chiker, la seconda edizione della Rencontre mondiale du soufisme, in occasione della quale si riaffermò in maniera ufficiale il ruolo di primissimo piano giocato dalle pratiche e dalle credenze sufi nel nuovo assetto religioso nazionale, al fine di contrastare le «tentazioni mondane e politiche dei cittadini» (Rhani, Hlaoua 2014:18). Nel suo discorso Mohammed VI enfatizzò l’importanza della trasmissione dei valori sufi alle nuove generazioni e sottolineò l’uguaglianza di tutti gli ordini sufi, riconoscendo loro un ruolo cruciale nel mantenimento dell’unità religiosa e nazionale marocchina; evidenziò tra l’altro la rilevanza delle specificità culturali marocchine, bisognose di protezione di fronte alle ingerenze culturali straniere.

Questo processo ha visto molti intellettuali, teorici e praticanti del pensiero mistico musulmano, schierarsi dalla parte della monarchia, consolidando, non ultimo attraverso l’istituzione di festival internazionali come il Festival de Fès des Musiques Sacrées du Monde, un rapporto di stretta collaborazione con le classi dirigenti. Non senza ragione, Abdellah Hammoudi si chiede, a questo proposito, se una tale alleanza non rischi di rendere lo stesso sufismo, a sua volta, una forma di Islam politico. 

: Performance della Tariqa Darkawiya, Festival de Fès des Musiques Sacrées du Monde, 2022. Foto di Michela Buonvino

Performance della Tariqa Darkawiya, Festival de Fès des Musiques Sacrées du Monde, 2022 (ph. Michela Buonvino)

Performare il sacro nella sfera pubblica marocchina 

Contemporaneamente, i processi di globalizzazione e di festivalizzazione del sufismo, di cui il Festival de Fès des Musiques Sacrées e il Festival de Fès de la Culture Soufie rappresentano le più importanti manifestazioni, hanno contribuito alla produzione di un “sufismo universalizzato”. Dall’11 settembre 2001 i processi di mediatizzazione e di fabbricazione di un «soufisme enchanté» (cfr. Amselle 2017) hanno avuto sia lo scopo di produrre una nuova forma di religione inclusiva, fondata sulla pace e sulla coesistenza interculturale, sia quello di modernizzare il fenomeno per una audience globale sempre più attirata dai mondi del turismo sacro e della mercificazione culturale e religiosa. Il progetto del Festival de Fès des Musiques Sacrées du Monde nacque nei primi anni Novanta del secolo scorso, all’indomani della Prima Guerra del Golfo. Il conflitto segnò la crisi definitiva del vecchio ordine mondiale bipolare e l’esigenza dell’affermazione di nuovi equilibri globali fondati sul diritto internazionale (cfr. Kabbaj 2011; Skali 2015).

Il Festival – la cui prima edizione fu celebrata nel 1994 sotto il patronato del Ministero degli Affari Culturali – ebbe origine dalla volontà degli organizzatori (l’Associazione Fès-Saïss e, a partire dal 2006, la Fondazione Esprit de Fès) di diffondere un messaggio di apertura e di tolleranza, da perseguire attraverso la realizzazione di una «reconnaissance mutuelle de la diversité des cultures et des spiritualités» (Skali 2015: 38). Dalla sua seconda edizione, l’evento si tiene sotto l’Alto Patronato del Re. Nel 2001 l’UNESCO (partner istituzionale dell’evento) definì il Festival di Fès una delle manifestazioni pubbliche che contribuisce maggiormente alla divulgazione della pace nel mondo. In seguito all’11 settembre 2001 e agli attentati avvenuti a Casablanca, il Festival assunse nuovi significati politici, nell’ottica della contrapposizione alle forme interne di estremismo religioso e della promozione di un volto moderato e tollerante dell’Islam (El Maarouf 2013; Eickelman, Anderson 1999).

Da quel momento «i festival marocchini cessarono di essere dei festival» (El Maarouf 2013: 74); essi si trasformarono in veri e propri «scenari contro-terroristici» (ibidem), esito della ricerca, intrapresa dalle classi dirigenti, di nuove strategie di mantenimento della pace, dispositivi post-moderni di esercizio dell’egemonia statale e di domesticazione culturale. La musica, nel Festival di Fès, annoverato da El Maarouf tra i cosiddetti «counter-terror spectacles», si rivelò il tramite di un messaggio culturale e politico di riconciliazione, di una catarsi collettiva: «La musique», come scrive Faouzi Skali, in quanto «langage de l’âme [...] efface toute incompréhension, tout malentendu» (Skali 2015: 26). Inoltre, la pratica sufi del sama, metodo di disciplina spirituale che consiste nell’esercizio collettivo di un ascolto profondo, è intesa, nel quadro del Festival di Fès, come uno strumento attraverso cui raggiungere una conoscenza trans-temporale (Kapchan 2008).

Deborah Kapchan ritiene che le discrete tradizioni rappresentate al Festival di Fès siano gli oggetti di una continua e articolata dinamica di decontestualizzazione, che spesso si manifesta attraverso la mercificazione delle loro estetiche musicali sacre. Nel Festival di Fès, queste estetiche “decontestualizzate” vengono “ricontestualizzate” al fine di realizzare quella che Kapchan ha definito «una promessa di re-incanto» (ivi: 228). L’articolazione di tale “promessa” prevede il ricorso ai concetti di “patrimonio” (turath) e di “tradizione” (taqalid) e vuole aprire alla creazione di nuovi immaginari transnazionali e universali che possano arricchire la memoria culturale dell’umanità. Come ha suggerito Maria Curtis (2007), la performance del sacro realizzata dal Festival di Fès modifica e altera anche le concezioni locali della spiritualità. Infatti, il fenomeno dei festival internazionali (nell’ambito dei quali, tra l’altro, il tema della religione ha assunto un ruolo sempre più significativo) mette in evidenza il fatto che, in misura sempre maggiore, la produzione dei significati e la preservazione delle tradizioni “locali”, nonché la creazione delle “autenticità”, avvengono a un livello globale (Cfr. Taylor 1997).

Performance della Tariqa Charkawiya, Festival de Fès des Musiques Sacrées du Monde, 2022. Foto di Michela Buonvino.

Performance della Tariqa Charkawiya, Festival de Fès des Musiques Sacrées du Monde, 2022 (ph. Michela Buonvino)

Dale F. Eickelman e Armando Salvatore (2004) promossero, tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, l’utilizzo di un approccio storico e antropologico allo studio dei processi di mediazione della religione nella sfera pubblica islamica. Birgit Meyer e Annelies Moors, a questo riguardo, proposero un’analisi della mediazione in quanto processo storico, focalizzandosi su «how the media operate as intermediaries in processes of communication, affirming existing links and creating new ones between people and expressive forms» (Meyer, Moors 2006: 7). Le tradizioni religiose necessitano di essere continuamente ri-trasmesse in forme rinnovate perché sopravvivano. La religione si rivela dunque una pratica di mediazione che non può essere compresa e analizzata se non all’interno delle forme e delle azioni comunicative entro cui si definisce. Il “sacro festivo” mediato dal Festival de Fès des Musiques Sacrées du Monde è pertanto un fenomeno transnazionale, non definibile al di fuori dei mondi del turismo sacro e dà luogo sia alla creazione di una comunità effimera sia a nuove estetiche e a nuove forme di mediazione transnazionale del sentimento religioso.

Emilio Spadola (2014) ha descritto la politica religiosa inaugurata da Mohammed VI nei termini di una nazionalizzazione dell’Islam; tale processo ha provocato uno “spostamento” dei meccanismi di controllo delle differenze sociali. I processi di riproduzione tecnologica della trance sufi furono alla base della produzione di una cultura nazionale che consistette nella fabbricazione di nuove «audience reali»; tali processi ebbero (e tuttora hanno) come scopo principale quello di «call underclass and middle-class Moroccan Muslims to proper (sharifian Sufi) Islam and (mass) social order» (ivi: 14). L’ “alleanza” tra ordini sufi e monarchia nel Marocco contemporaneo si vorrebbe dunque funzionale al mantenimento dell’ordine politico e culturale nel quale è la monarchia che ha il controllo assoluto del campo religioso.

51vlt97dl5l-_sr600315_piwhitestripbottomleft035_pistarratingfivebottomleft360-6_sr600315_sclzzzzzzz_fmpng_bg255255255Il revivalismo sufi, che si esprime in particolare attraverso la sponsorizzazione di media-events, si rivela attualmente il tramite privilegiato della definizione di un campo del sacro per i marocchini. Dopo gli attacchi terroristici di Casablanca, la monarchia intraprese una duplice operazione, di annientamento delle tendenze salafite e di sostituzione di queste con un sufismo che si voleva innocuo e incapace di minacciare la sicurezza spirituale della nazione. La costruzione di una narrazione religiosa nazionale divenne, allora, uno strumento fondamentale per il mantenimento del monopolio identitario religioso statale. La musica degli Gnawa, forse in misura ancora più vistosa di quella degli Aïssawa, è stata, negli ultimi anni, oggetto di una potente incorporazione all’interno del mercato musicale globale. Le modalità di circolazione delle performance sufi furono rigidamente definite dai media nazionali (in particolare dalla Société Nationale de Radiodiffusion et de Télévision).

Tali performance, come quelle dei berberi, furono catalogate sotto le etichette di “arti folkloriche”, di “danze folkloriche”, di “musica nazionale”, di “danze nazionali”, mentre, contemporaneamente, si procedette alla costruzione di un patrimonio musicale nazionale “aristocratico” di matrice arabo-andalusa (di cui il melhoun costituisce la più nota espressione). Se in un primo momento (fino all’incirca alla metà degli anni Ottanta) quest’ultimo repertorio fu oggetto di una più frequente trasmissione radiofonica e televisiva rispetto alle sue controparti “folkloriche”, a partire dal 1984 e con rafforzato vigore dagli anni Novanta, con la nascita dei festival moderni”, la situazione conobbe una brusca inversione e dal 2001 le riproduzioni televisive del Festival de Fès de Musiques Sacrées du Monde, del Festival National des Arts Populaires e del Gnaoua World Music Festival divennero regolari. Tale dinamica va compresa all’interno del quadro sopra delineato di una reazione “moderna” alla barbarie del terrorismo. Il giornale Maroc Hebdo International descrisse la folla di visitatori al Festival Gnaoua nei termini di un’audience unificata in un rituale collettivo di trance. Come ha commentato Spadola: «Here and habitually journalists invoked “trance” and “ritual” not as particular underclass Sufi rites—no bloody sheep or howling lunatics, no thrashing bodies either. The terms rather suggested a unified and docile group […] a national public formed in response to a state-sponsored, national call» (ivi: 100-101).

Attraverso l’utilizzo di specifiche strategie discorsive avvenne, dunque, lo spostamento semantico della trance da negazione a simbolo della modernità marocchina. Tali processi di razionalizzazione e di mass-mediazione della trance agirono principalmente all’interno di due logiche: quella della mercificazione culturale e religiosa, “domestica” e internazionale, e quella della ricostituzione dell’unità politica e sociale nazionale in un momento storico in cui le azioni dei movimenti islamisti rappresentarono, per lo Stato marocchino, una gravissima minaccia. I processi di nazionalizzazione della trance mirerebbero, dunque, al controllo dei gruppi sociali “marginali” e, più in generale, delle differenze sociali, alla formazione di un’identità nazionale e al reindirizzamento verso la venerazione di un «Monarca sufi» (ivi: 9), primo e ultimo fondamento dell’unità nazionale. Inoltre, il “richiamo” del sufismo “popolare” aspira al controllo dei mezzi che consentono la riproducibilità del rituale. Pertanto, la mediatizzazione tecnologica dei riti sufi concerne direttamente una serie di differenze interne all’ordine nazionale. Perdipiù, la “pubblicizzazione graduale della trance” costituisce un fenomeno paradigmatico di come le forme di mediazione artistica possano contribuire alla formazione di spazi di pubblicità e di condivisione, ovvero di una pluralità di “regimi di pubblicità” alternativi all’ideale europeo che vede la sfera pubblica esclusivamente come il campo di articolazione di un dibattito razionale (Zillinger 2017).

716zng8ix2l-_ac_uf10001000_ql80_Tra l’altro, come ha affermato Giovanni Pizza in relazione allo studio dei processi di festivalizzazione del tarantismo salentino, simili indagini antropologiche mettono in risalto l’attitudine delle nostre discipline alla «convivenza con i processi politico-culturali di immaginazione del passato e di fabbricazione dell’identità» (Pizza 2015: 62). Lo studio delle performance culturali marocchine rivela la presenza di processi storici e culturali complessi, che interessano principalmente gli ambiti del politico e del religioso e che hanno, al loro centro, la costruzione culturale della “marocchinità”; questi si rivelano tecnologie glocali complesse di produzione della cultura e della storia nazionali. Il carattere incorporato di queste manifestazioni e la capillarità delle norme che regolano l’ambito delle performance culturali marocchine, ci autorizzano, parzialmente, a parlare di modi governamentali biopolitici. Ciò ci consente di analizzare il fenomeno anche in termini di nessi tra tecnologie pratiche di governo e produzione di saperi, considerando la «dimensione microfisica dello Stato» e la «produzione corporea del senso comune che lo legittima» (ivi: 95). Mediante la mise en festival delle differenze culturali interne, lo Stato marocchino mira, dunque, alla creazione di un «contatto sentimentale e ideologico» con le masse.

Performance degli Gnawa durante il carnaval, Festival des Cerises, Sefrou, 2019. Foto di Michela Buonvino.

Performance degli Gnawa durante il carnaval, Festival des Cerises, Sefrou, 2019 (ph. Michela Buonvino)

È bene sottolineare, tuttavia, che studiare questi fenomeni significa condurre una forma molto peculiare di etnografia dello Stato-nazione, che richiede una lettura non oppositiva dei rapporti tra soggetti e strutture. Al contrario, è necessario esplorare «i molteplici microcosmi e i vari soggetti di una nazione in movimento», per tentare di «comprendere quali siano i poteri e le resistenze che producono la nazione e i soggetti nazionali» (Abu-Lughod 2005: 26); lo Stato-nazione deve essere sempre inteso, dunque, come un artefatto culturale le cui tecnologie di produzione e di immaginazione, le pratiche e le rappresentazioni, possono essere oggetto dell’inchiesta etnografica che consiste, pertanto, nell’esplorazione di una serie di incontri tra una pluralità di soggetti performativi (Bhabha 1990). Alcuni studiosi sono tornati a sottolineare l’importanza del carattere liminale dei festival, che li rende spazi adatti all’articolazione delle politiche dell’identità e, in generale, alla sperimentazione culturale e sociale, proprio in risposta alla frammentazione culturale e all’incremento della mobilità. Questi eventi costituiscono inoltre istituzioni temporanee di socializzazione dello spazio e del tempo che danno vita a plurime forme di meta-apprendimento (cfr. Simonicca 2006).

Fare etnografia di questi eventi significa porsi in osservazione delle modalità specifiche di rielaborazione di norme e concetti propri di un sistema democratico in una società arabo-islamica contemporanea, di come la varietà delle pratiche politiche, sociali, religiose e culturali “islamiche” si concili con i principi di una sfera pubblica cosiddetta “moderna” (Salvatore 2005). Le strategie discorsive, tanto quelle dei movimenti sociali e intellettuali islamici quanto quelle della monarchia, richiedono l’elaborazione di rappresentazioni pubbliche della virtù (ibidem) al fine di esercitare la loro autorità sulla comunità di credenti/cittadini. Questo tipo di comunicazione è quindi funzionale al rafforzamento e alla promozione di determinati “processi di civilizzazione” che includono specifiche “discipline di appartenenza” alla nazione e alla comunità di credenti. Il principio della “cittadinanza democratica”, centrale nei discorsi transitologici dello Stato marocchino odierno, ribadito e performato dai festival nazionali e internazionali, si fonda su un determinato ideale di “virtù pubblica” che definisce le traiettorie della «costruzione di un soggetto responsabile verso il bene comune» (ibidem). 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024 
[*] Il presente articolo vuole offrire al lettore un primo resoconto delle principali questioni esplorate nell’ambito del mio progetto di ricerca dottorale relativo ai rapporti tra performance culturali (moussems e festival) e politiche dell’identità nel Marocco contemporaneo, nonché ai processi di formazione e mediatizzazione di una sfera pubblica nazionale in una società a maggioranza musulmana. La ricerca sul campo ha avuto luogo, a più riprese, tra il 2019 e il 2022, a Fès e a Sefrou, nella regione di Fès-Meknès. Si è trattato di uno studio di tipo comparativo e processuale che, a partire dall’osservazione di specifiche performance culturali statali (il Festival des Cerises di Sefrou, il Festival de Fès des Musiques Sacrées du Monde e il Moussem di Moulay Idriss Al-Azhar di Fès), intese come complesse tecnologie glocali di produzione e di immaginazione della cultura, della memoria e della storia nazionali in un contesto transnazionale, ha tentato di ricostruire alcune pratiche connesse all’organizzazione del campo politico, culturale e religioso marocchino. 
Note
[1] In riferimento al tema della costruzione di una memoria culturale unitaria da parte degli Stati-nazione si veda, ad esempio, Dei 2018.
[2] In questo articolo non viene affrontata la complessa questione del patrimonio, pure centrale nell’impianto della mia tesi di dottorato; difatti, mi sono occupata di ricostruire un quadro dettagliato delle ambivalenze (politiche e poetiche) dei processi di patrimonializzazione della cultura immateriale marocchina, in particolare della festa rurale, analizzando le intricate vicende patrimoniali del Festival des Cerises di Sefrou, iscritto alla Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dal 2012, focalizzando l’attenzione sui processi di oggettivazione culturale, di produzione della località e di essenzializzazione identitaria attivati dal riconoscimento patrimoniale.
[3] Il termine francese “moussem” deriva dalla parola araba “mawsim” (al plurale mawâsim) che significa “stagione”; nell’Encyclopédie de l’Islam il termine compare tra i “racconti” del Profeta che regolano le attività che si svolgono nei mercati. Con questa espressione si è soliti designare una tipologia specifica di festa patronale stagionale marocchina. L’antropologa olandese Fenneke Reysoo, autrice di uno dei rarissimi studi antropologici sul tema, ha definito il moussem «l’aboutissement spécifique de la conjugaison de rites agraires, de culte de saints, de mysticisme soufi et de foires peŕiodiques» (Reysoo 1991:28).
[4] Nel 1956, presso lo stesso altopiano, infuocato qualche anno prima dalle rivolte guidate da Thami Glaoui, Mohammed V aveva condannato pubblicamente le politiche berbere e il decreto del 16 maggio del 1930, facendo leva sul profondo attaccamento all’Islam e sul sentimento di solidarietà nazionale.
[5] La politica dei festival marocchini agisce attraverso la trasfigurazione degli spazi cittadini in cui si mette in scena il rituale della coesistenza interculturale e interreligiosa (si vedano su questo tema Kapchan 2008 e Boum 2015). I festival urbani marocchini si rivelano, pertanto, spazi complessi di riconfigurazione delle relazioni Stato-città.  
Riferimenti bibliografici 
Abu-Lughod L., Dramas of Nationhood. The Politics of Television in Egypt, Chicago, The University of Chicago Press, 2005.
Almeida C. M., Unravelling Distinct Voices in Moroccan Rap: Evading Control, Weaving Solidarities, and Building New Spaces for Self-expression, «Journal of African Cultural Studies», vol. 25, n. 3, 2013: 319–332.
Amselle J. L., Islams africains: la préférence soufie, Lormont, Le bord de l’eau, 2017.
Assmann J., La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino, Einaudi, 1997.
Bekkaoui K., Larémont R., Moroccan Youth Go Sufi, «The Journal of the Middle East and Africa», vol. 2, n. 1, 2011: 31-46.
Bekkaoui K., Larémont R.R., Rddad S., Survey on Moroccan Youth: Perception and Participation in Sufi Orders/Evaluation and Interpretation, «The Journal of the Middle East and Africa», vol. 2, n. 1, 2011: 47-63.
Benjelloun M. O., Projet national et identité au Maroc. Essai d’anthropologie politique, Casablanca, A. Retnani Editions Eddif, 2002.
Ben-Layashi S., “Feet on the Earth, Head in the Clouds. What do Moroccan Youths Dream of?”, in B. Maddy-Weitzman, D. Zisenwine (eds), Contemporary Morocco. State, Politics and Society under Mohammed VI, London and New York, Routledge, 2013: 147-160.
Bennett A., Taylor J., Woodward I. (eds), The Festivalization of Culture, Farnham, Ashgate, 2014.
Berriane M., Michon G., Aderghal M., “Des moussem aux fêtes et foires à thème: Image identitaire du territoire ou image de l’État ?”, in M. Berriane, G. Michon (sous la direction de), Les Terroirs au Sud, vers un nouveau modèle? Une expérience marocaine, Marseille, IRD Éditions, Faculté des Lettres et des Sciences humaines de Rabat, 2016: 291-309.
Bhabha H., “DissemiNation: Time, Narrative, and the Margins of the Modern Nation”, in H. Bhabha (ed), Nation and Narration, London, Routledge, 1990: 291-322.
Boum A., Festivalizing Dissent in Morocco, «Middle East Report», n. 263, The Art & Culture Of The Arab Revolts, 2012a: 22-25.
— ID., Moroccan rappers and political descent in the age of the ‘Arab Spring’, «Ipris Maghreb Bulletin», n. 13, 2012b: 1-6.
— ID., ““Sacred Week”: Re-experiencing Jewish-Muslim Coexistence in Urban Moroccan Space”, in G. Bowman (ed), Sharing the Sacra: The Politics and Pragmatics of Intercommunal Relations around Holy Places, New York, Berghahn Books, 2015: 139-155.
Brenner N., Open Questions on State Rescaling, «Cambridge Journal of Regions, Economy and Society», vol. 2, n. 1, 2009: 123-139.
Connerton P., How Societies Remember, Farnborough, Cambridge University Press, 1989.
Curtis M. F., Sound Faith: Nostalgia, Global Spirituality, and the Making of the Fes Festival of World Sacred Music, Dissertation Presented to the Faculty of the Graduate School of the University of Texas at Austin in Partial Fulfillment of the Requirements for the Degree of Doctor of Philosophy, 2007.
Dei F., “Usi del passato e democratizzazione della memoria: il caso delle rievocazioni storiche”, in Iuso A. (a cura di), Il senso della storia, Roma, CISU, 2018: 15-36.
Dines N., Moroccan City Festivals, Cultural Diplomacy and Urban Political Agency, «International Journal of Politics, Culture, and Society», vol. 34, 2021: 471-485.
Douglas M., How Institutions Think, New York, Syracuse University Press, 1986.
Eickelman D. F., The Middle East. An Anthropological Approach, Second ed., New Jersey, Prentice Hall, Englewood Cliffs, 1989.
Eickelman D. F., Anderson J. W. (eds), New Media in the Muslim World. The Emerging Public Sphere, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press, 1999.
Eickelman D. F., Salvatore A. (eds), Public Islam and the Common Good, Leiden : Boston, Brill, 2004.
El Maarouf M. D., The Rise of the Underground. Moroccan Music Festivals between Laughter, Drunkenness, and Excre-Mentality, «Academic Quarter», vol. 3, 2011: 32- 48.
— ID., Undressing the System: The Rituals of Madness and Badness in Moroccan Music Festivals, «United Academics Journal of Social Sciences», vol. 2, n. 2, 2012: 50-69.
— ID., “Local Arts versus Global Terrorism: the Manifestations of Trauma and Modes of Reconciliation in Moroccan Music Festivals”, in L. Bisschoff – Van De Peer S. (eds), Art and trauma in Africa: Representations of Reconciliation in Music, Visual Arts, Literature and Film, London, I.B. Tauris, 2013: 69-88.
— ID., Po(o)pular Culture: Measuring the ‘shit’ in Moroccan Music Festivals, «Journal of African Cultural Studies», vol. 28, n. 3, 2016: 327-342.
Fabre D., (sous la direction de), Domestiquer l’histoire. Ethnologie des monuments historiques, Paris, Éditions de la Maison des sciences de l’homme, Ministère de la Culture, 2000.
Geertz C., Oltre i fatti. Due paesi, quattro decenni, un antropologo, Bologna, il Mulino, 1995.
Graiouid S., Belghazi T., Cultural Production and Cultural Patronage in Morocco: the State, the Islamists, and the Field of Culture, «Journal of African Cultural Studies», vol. 25, n. 3, 2013: 261-274.
Halbwachs M., I quadri sociali della memoria, Napoli, Ipermedium libri, 1997.
Hegasy S., Young Authority: Quantitative and Qualitative Insights into Youth. Youth Culture, and State Power in Contemporary Morocco, «The Journal of North African Studies», vol. 12, n. 1, 2007: 19-36.
Iuso A., “Introduzione: Il senso della storia”, in A. Iuso (a cura di), Il senso della storia, Roma, CISU, 2018.
Kabbaj M. (sous la direction de), Le Festival de Fès des Musiques Sacrées du Monde. Un émerveillement, Paris, L’Harmattan, 2011.
Kapchan D., The Promise of Sonic Translation: Performing the Festive Sacred in Morocco, «American Anthropologist», vol. 110, n. 4, 2008: 467-483.
Lust-Okar E., Divided they Rule: the Management and Manipulation of Political Opposition, «Comparative Politics», n. 36, 2004: 159-179.
— ID., Structuring Conflicts in the Arab World. Incumbents, Opponents, and Institutions, Cambridge University Press, New York, 2005.
Meyer B., Moors A. (eds), Religion, Media, and the Public Sphere, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press, 2006.
Pizza G., Il tarantismo oggi. Antropologia, politica, cultura, Roma, Carocci, 2015.
Reysoo F., Pèlerinages au Maroc. Fête, politique et échange dans l’Islam populaire, Neuchâtel, Paris, Editions de l’Institut d’ethnologie, Editions de la Maison des sciences de l’homme, 1991.
Rhani Z., Hlaoua A., “Soufisme et culte des saints au Maroc”, in B. Maréchal, F. Dassetto (sous la direction de), Hamadcha du Maroc. Rituels musicaux, mystiques et de possession, Louvain-la-Neuve, Presses universitaires de Louvain, 2014: 17-30.
Salois K. R., The Networked Self: Hip Hop Musicking and Muslim Identities in Neoliberal Morocco, Berkeley, University of California, 2013.
Salvatore A., Movimenti islamici, sfera pubblica, e tessuto associativo, «Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale», 2005, https://www.juragentium.org/topics/islam/it/salvator.htm, consultato il 15/12/2022.
Scott J., Weapons of the Weak: Everyday Forms of Resistance, New Haven, London, Yale University Press, 1985.
Sefrioui A., Le Festival De Marrakech, s.l., Office national Marocain du tourisme, 1965.
Sharma A., Gupta A. (eds), The Anthropology of the State: A Reader, Oxford, Blackwell, 2006.
Skali F., Esprit de Fès, Casablanca, Langages du Sud, 2015.
Spadola E., The Calls of Islam. Sufis, Islamists, and Mass Mediation in Urban Morocco, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press, 2014.
Turner V., The Ritual Process: Structure and Anti-Structure, Chicago, Aldine Publishing, 1969.
Valensi L., Le roi chronophage. La construction d’une conscience historique dans le Maroc postcolonial, «Cahiers d’études africaines», vol. 30, n. 119, 1990: 279-298.
Wyrtzen J., “National Resistance, Amazighite, and (Re)-Imagining the Nation in Morocco”, in D. Maghraoui (ed), Revisiting the Colonial Past in Morocco, London and New York, Routledge, 2013: 184-204
Zillinger M., Graduated Publics: Mediating Trance in the Age of Technical Reproduction, «Current Anthropology», vol. 58, sup. 15, 2017: S41-S55. 

_____________________________________________________________ 

Michela Buonvino è attualmente assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi del Molise e si occupa di patrimoni bioculturali e di rigenerazione territoriale a partire dal lavoro a base culturale. È docente a contratto di antropologia del mondo globale contemporaneo presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia (SIE). È dottoressa di ricerca in M-DEA/01 (Sapienza Università di Roma). Dal 2018 conduce una ricerca sul campo a Sefrou e a Fès (Marocco). La sua tesi di dottorato concerne le relazioni tra performance culturali, politiche dell’identità e processi di formazione di una sfera pubblica islamica nel Marocco contemporaneo. Si occupa, inoltre, di processi di patrimonializzazione, eventi festivi e migrazioni. 

______________________________________________________________

 
Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Politica. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>