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Paesanza. Per il diritto al paese

 

Castelbottaccio

Castelbottaccio

CIP

di Nicholas Tomeo 

Nei processi di ripopolamento delle aree interne, risulta necessario anche riconquistare un valore intrinseco positivo dell’abitare i paesi. Infatti, a partire dagli anni del cosiddetto boom economico, ovvero dai primi anni ‘50, abitare i paesi ha sempre di più assunto un’accezione negativa, come se l’abitante del paese portasse con sé un disvalore, un’inettitudine ereditaria, quasi questa fosse una condizione antropologicamente connaturata.

Come descrive il vocabolario Treccani, la parola paesano, propria di chi è nato in un paese o lo abita, significa anche ciò «che è caratterizzato da semplicità, genuinità… che è caratterizzato da limitatezza e arretratezza… limitato, chiuso». Non a caso, sinonimi di paesano sono anche semplice e villano.  Al contrario, la parola civile deriva dal latino civis, ovvero l’abitante della città; a dire il vero, è proprio dal latino civis che deriva il termine città.

A tal proposito, sempre il vocabolario Treccani, ci dice che civile «indica [anche] agiatezza, decoro, buona educazione», laddove villano, ovvero la persona che abita la villa, cioè la campagna, è la «persona rozza di modi, poco civile e poco educata (come venivano polemicamente considerate le persone di campagna da parte di chi viveva in città)».

È innegabile però quanto questa impostazione concettuale, in maniera più o meno esplicita, sia ampiamente diffusa anche nel presente e quanto i due termini, cittadino e paesano, assumano rispettivamente un valore positivo e negativo. Proviamo a chiamare paesano un abitante di Milano o Roma, e proviamo invece a chiamare cittadino un abitante di Castelbottaccio o di Montebello sul Sangro: i primi avrebbero certamente qualcosa da controbattere, a differenza dei secondi.

imageAncora oggi il trasferimento dal paese alla città viene spesso visto come un tentativo di riscatto sociale, a differenza della migrazione inversa la quale, quando avviene, appare come se alla base vi dovesse necessariamente essere una sconfitta, un tentativo di scalata sociale andato male o, comunque, la fuga di qualche “eroe” che scappa dalla città per ripopolare i paesi dell’entroterra con la ricetta vincente della rigenerazione adatta. 

L’attuale narrazione dei paesi, spesso trasformati in borghi, ossia luoghi estetizzati e impacchettati in preconcetti attraverso processi di decostruzione e ricostruzione secondo immaginari scaturenti dalle aspettative delle persone provenienti dalle città – almeno per quei paesi che hanno avuto la fortuna, o la sfortuna, dipende dai punti di vista, di essere scoperti da chi vende pacchetti turistici attraverso depliant di viaggi –, fa propria quella semplicità sinonimo di paesano prima accennata; narrazione che in modo paternalistico strumentalizza la falsa idea di immobilismo paesana attraverso cui i paesi vengono raccontati come luoghi immutati nel tempo e in cui nulla è mai stato toccato dalla modernità.

Eppure, nonostante questa accezione negativa dell’abitare i paesi, come sottolinea Rossano Pazzagli, l’Italia è un Paese di paesi, e sono proprio le aree interne, quelle montane e quelle rurali la parte del territorio italiano dove i piccoli paesi si concentrano maggiormente. Il boom economico, visto dalle aree interne e dai paesi, non assume i connotati positivi che l’economia classica di matrice liberista e capitalista descrive come miracolo economico italiano.

9788846759856_0_536_0_75Infatti, come ormai ampiamente dimostrato, il modello economico e sociale adottato in Italia dal dopoguerra in poi, ha accentrato i servizi essenziali della scuola, della sanità e della mobilità nelle grandi città a valle e sulle coste. Questo processo, però, a dispetto di quanto impone l’art. 3 della Costituzione, ha escluso quasi un quarto della popolazione dalla partecipazione alla vita sociale, economica e politica, marginalizzato così oltre il 50% dei Comuni italiani e più di 13 milioni di persone e creando quelle che oggi identifichiamo come aree interne.

Verrebbe pertanto da dire che le aree interne non esistono perché, come ogni costruzione umana, anche quelle sono il frutto di politiche pubbliche portate avanti con coscienza a vantaggio delle città; le aree interne non esistono nella misura in cui sono state volutamente costruite: non sono una contingenza, un fattore naturale, ineluttabile, ma il risultato di modelli socio-economici che hanno industrializzato, urbanizzato e infrastrutturato i territori a valle – spesso distruggendoli – e accentrato nelle città i servizi essenziali, contraddicendo quel policentrismo che per secoli ha reso i paesi di montagna e di collina abitati, vissuti e attraversati da persone e comunità. Questo ha inevitabilmente reso i paesi delle aree interne di difficile e complessa accessibilità e abitabilità, negando nei fatti il diritto all’abitare a milioni di persone.

Di pari passo si è radicato il modello metrofilo come il massimo desiderabile, la quintessenza della civiltà. Per rendersene conto basti guardare le pubblicità degli anni del boom economico che iniziarono a propinare modelli consumistici offerti dalle città e rappresentati come una possibilità di cesura con un immediato passato, paesano e rurale, visto come povero e arretrato e non più figlio dei tempi.

Nel 1957 a Milano aprì il primo supermercato italiano dell’attuale Esselunga, nel 1960 venne fondata la Despar, nel 1962 la Conad, nel 1967 la Coop e così via. Tutti marchi che aprirono supermercati nelle città e il carrello della spesa divenne il simbolo dominante: hai tutto a portata di mano, facilmente, in pacchi coloratissimi e pronti all’uso. Così, a partire dagli anni di quel tanto celebrato miracolo economico italiano alle aree montane e collinari restarono le macerie di un sistema economico e sociale che accentrando i servizi essenziali nelle città ha svuotato le case, le strade e le piazze dei paesi, dividendo famiglie e comunità.

61njl1fgqklMa cosa sono i servizi essenziali se non diritti? Il servizio sanitario è il diritto alla salute (art. 32 Cost.); il servizio della scuola è il diritto all’istruzione (art. 34 Cost.); il servizio alla mobilità è il diritto allo spostamento (art. 16 Cost.). Sono proprio questi i servizi essenziali che servono ai paesi delle aree interne, ovvero alle persone che li abitano, per vedersi garantito e riconosciuto il diritto al territorio. Tanto che oggi più che diritti di cittadinanza – al netto del significato giuridico del termine cittadino e/o cittadinanza – dovremmo rivendicare i diritti di paesanza, ovvero il diritto al paese, a vivere il paese, cosa che può essere garantita e riconosciuta solo attraverso il libero accesso ai servizi essenziali.

Diritti di paesanza che nel politicizzare la rivendicazione dei servizi essenziali criticano il modello di sviluppo urbanocentrico – respingendolo perché escludente e classista – e, al contempo, reclamano l’estensione anche nei paesi dei diritti costituzionali: la cittadinanza, infatti, non si esaurisce meramente nel riconoscimento formale dei diritti sulla carta ma nell’accesso sostanziale di tutte e tutti ai diritti (differenza tra il primo e il secondo comma dell’art. 3 Cost.). Da ciò si evince quanto la cittadinanza sia una condizione della persona e della comunità, tanto politica quanto sociale, derivante dal riconoscimento dei diritti: se da questi vengono escluse persone e comunità perché lo Stato non rimuove «gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini» impedisce nei fatti la partecipazione di tutte e tutti «all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3 Cost.), non si può parlare di cittadinanza effettiva.

Montebello sul Sangro

Montebello sul Sangro

Ecco dunque che va rivendicato un altro modello di spazio e territorio: quello del diritto all’abitare i paesi, ovvero il diritto di restare o tornare nei paesi, che non può che primariamente passare attraverso la diffusione dei servizi essenziali nei paesi stessi. Ma i servizi essenziali, come dicevamo prima, altro non sono che diritti e, dunque, per essere realmente tali devono essere garantiti a tutte e tutti, indistintamente: non basta infatti portare il servizio, ma è necessario che questo sia pubblico e senza fini di lucro. Se ad esempio in un territorio il servizio sanitario viene affidato interamente alle società private a pagamento, il servizio sulla carta c’è, ma non il diritto per i meno abbienti. Ed è proprio questo il discrimine tra diritto e privilegio: il primo è riconosciuto a tutte e tutti, il secondo resta nella disponibilità di chi può permetterselo.

Appena adesso si è fatto l’esempio del servizio sanitario a pagamento. Ebbene, nella stragrande maggioranza dei paesi delle aree interne il trasporto in ospedale per le visite specialistiche tramite l’ambulanza è per lo più a pagamento. Cosa facciamo di tutte quelle persone che non sono motorizzate, non hanno i figli o i parenti vicini e a cui non è garantito il servizio di trasporto in ospedale gratuitamente per sottoporsi, ad esempio, ad un elettrocardiogramma? Quanto vale, in termini di costi in vite umane e salute pubblica, il diritto alle cure per chi abita i paesi delle aree interne?

Ecco un’altra differenza tra diritto e privilegio: il diritto viene riconosciuto a prescindere dal numero di utenza potenzialmente beneficiaria, il privilegio valuta i costi rapportati ai guadagni. Bisogna rivendicare il diritto al paese, ad abitarlo, a restarvici o a ritornarvici attraverso politiche pubbliche che, colmando l’assenza dei servizi essenziali, riempiono quei vuoti che restituiscono la dimensione dell’abbandono. Pertanto, affinché i paesi possano tornare ad essere abitati vanno rivendicati i diritti di paesanza attraverso il riconoscimento di tutti quei diritti essenziali i quali andrebbero garantiti indipendentemente dal numero di abitanti. Ecco ciò di cui hanno bisogno i paesi. 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023 
Riferimenti bibliografici
A. Barbera (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo, Laterza, Bari-Roma 1997.
G. Carrosio, I margini al centro. L’Italia delle aree interne tra fragilità e innovazione, Donzelli, Roma 2019.
P. Clemente, Paese/Paesi, in M. Isnenghi (a cura di) I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Bari-Roma 1997.
S. Locatelli, D. Luisi, F. Tantillo (a cura di), L’Italia lontana. Una politica per le aree interne, Donzelli, Roma 2022.
R. Pazzagli, Un Paese di paesi. Luoghi e voci dell’Italia interna, Edizioni ETS, Pisa 2021.
S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari-Roma 2012.
F. Tantillo, L’Italia vuota. Viaggio nelle aree interne, Laterza, Bari-Roma 2023.
V. Teti, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli, Roma 2022. 

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Nicholas Tomeo, dottorando di ricerca in ecologia e territorio presso l’Università degli Studi del Molise con un progetto di ricerca sui beni comuni e i domini collettivi nell’area interna del Matese.

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