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Oltre lo storytelling, oltre il consumo di like e selfie

9788806260897_0_536_0_75di Orietta Sorgi 

Il tempo – ce lo ricorda Eliade – non è solo quello che comunemente percepiamo in senso storico e transitorio, o cronologico, dato dalla sommatoria delle esperienze vissute individuali e collettive. Quello è il tempo lineare che procede, come sappiamo, secondo una retta da un punto d’inizio a una fine. È il tempo quantitativo, cumulativo, del consumo e della morte.

Ma vi è un’altra dimensione del tempo, quella del sacro, un tempo spiraliforme, che ruota in senso circolare verso una puntuale ripetizione di eventi accaduti in illo tempore, dando un senso al mondo che ci circonda. È il tempo dell’eterno ritorno, di un nuovo inizio, della rigenerazione e della rinascita. Il tempo del mito che si rinnova costantemente nel rito, sottraendosi allo scorrere del tempo e riaffermando la permanenza dell’essere.

Si tratta, in fondo, di una pratica narrativa, del racconto di quel che accadde allora e che ha dato inizio ad un nuovo corso del tempo. Come nelle feste religiose che ancora oggi rinnovano puntualmente, attraverso la rappresentazione sacra di una leggenda di fondazione, il perpetuarsi della vita oltre la morte, rafforzando il senso della comunità e traducendo il caos nel cosmos.

«Il mito è dunque una narrazione comunitaria che a sua volta viene messa in scena attraverso il rito…fa sì che l’essere-nel-mondo si trasformi in un essere-a-casa», così osserva Byung-Chul Han, filosofo coreano, fra le righe del suo ultimo libro dal titolo La crisi della narrazione. Informazione, politica e vita quotidiana, edito da Einaudi. Un nuovo contributo breve ma intenso che fa riflettere sulle conseguenze dell’impoverimento narrativo del nostro tempo.

«Vivere è narrare – prosegue l’autore – l’essere umano, in quanto animale narrans, si distingue da gli altri animali per il fatto che narrando realizza nuove forme di vita. La narrazione ha la forza di un nuovo inizio. Lo storytelling di contro, conosce solo una forma di vita, quella consumistica». In effetti al giorno d’oggi si fa un gran parlare di “Storie”, diffuse attraverso piattaforme e app digitali, ma in realtà si è persa ogni capacità di affabulazione e con essa la forza della memoria e del legame col passato in ragione di una contingenza sempre più effimera e arbitraria. Tutto è merce da mettere in vendita, soprattutto quelle notizie incalzanti sui social sottoposte al vorace consumo di un pubblico di followers.

Mentre il racconto nella tradizione diveniva un fatto corale, il linguaggio di Instagram o Twitter è dettato al contrario da un narcisismo esasperato: non si narra nulla, si pubblicizza attraverso una messa in mostra di sé, con una serie di informazioni agghindate e di immagini effimere che svaniscono subito dopo essere state condivise. Ma questa ossessione per la condivisione non corrisponde in realtà ad un reale spirito comunitario, non dà luogo a nessuna forma di vita associata. Paradossalmente quanto più si è connessi, tanto più si è isolati. Si è perso, in definitiva, il rapporto con l’altro, fondamentale nel farsi del processo culturale. Anche l’Altro è diventato, in buona sostanza, una merce da consumare, un’interfaccia virtuale di questa nuova forma di autismo e di auto comunicazione.

s-l1600Nell’attuale postmodernità l’informazione si è andata sostituendo alla narrazione, la quantità dei dati alla qualità del racconto. Quegli eventi tramandati da generazione in generazione, eventi fantastici e carichi di mistero, si sono a poco a poco sgretolati in forza di una pubblicazione forzata e unicamente digitale di fatti registrati nel presente. Un divenire solo apparente, non ancorato alla permanenza dell’essere. Il fuoco del braciere attorno al quale si rinnovava di volta in volta il senso della comunità attraverso l’epos del racconto si è trasformato in una progressione orizzontale di storie “postate” sul web, in attesa di essere approvate con dei like di compiacimento. Un proliferare di selfie su ogni attimo della quotidianità, in un “usa e getta” che subito svanisce nell’oblio.

Anche l’immagine ha perduto così la sua carica simbolica. La fotografia analogica era legata ad un’occasione particolare, ad un evento che scandiva il ciclo della vita, dalla culla alla bara per dirla con Pitrè. Fermava il flusso del divenire in quell’hic et nunc dal sapore metastorico. Entrava in gioco, in altre parole, il ruolo della memoria, che ha sempre mantenuto una funzione selettiva: alcuni eventi ricorda, altri tralascia, ricuce il presente nel passato e lo proietta nel futuro. Secondo la lezione di Sant’Agostino.

I selfie, al contrario, si risolvono in una serie di scatti immediati che hanno l’effetto di annullare il senso profondo dell’esistenza. Il tempo è rarefatto, non più scandito da miti e racconti: ogni attimo è documentabile ma niente alla fine è qualcosa che val la pena di essere ricordato. È solo un click.  Il touch screen dello smartphone vanifica, come si è detto, il contatto umano, quel legame imprescindibile che si creava, ad esempio, fra il bambino e la madre durante il racconto di una fiaba. La sua trama conduceva il narratore e l’ascoltatore in un mondo incantato, un labirinto entro cui districarsi, per ricomporre alla fine equilibri in crisi e ogni possibile rischio, come sosteneva Calvino alludendo al potere consolatorio e rassicurante delle fiabe.

Le funzioni narrative, così come le ha descritte Propp nella sua intramontabile Morfologia della fiaba, difficilmente possono essere riprodotte da un dispositivo digitale. La fiaba tradizionale, infatti, è tutt’uno con la voce, col gesto, con l’abbraccio fisico. Quando questa esperienza del contatto viene a mancare, si resta terribilmente intrappolati nel proprio ego. La povertà di esperienze di contatto significa in ultima analisi una povertà di mondo. La digitalizzazione intensifica tale povertà di contatto e di mondo.

La nostra contemporaneità è resa fragile dal fatto che non dispone più di una riserva di racconti tale da rafforzare il senso del Noi, dell’appartenenza a una comunità. Ogni nostra azione è mossa da un’ansia di prestazione, dalla performance e dalla produttività: quelle “Storie” che con tanto accanimento pubblichiamo sui social sono incentrate unicamente sulla sfera privata. Tutto questo determina un senso di spaesamento e di isolamento dal mondo reale che ci circonda e un individualismo senza continuità. In altre parole, si determina un indebolimento della vita pubblica e della politica secondo la concezione greca di stampo aristotelico.

Ma c’è un’altra conseguenza che si intravede nel mondo del web, in quella gabbia dorata dove tutto è immediatamente accessibile, tutto disponibile. Google, ad esempio, è talmente carico d’informazioni da poter ritenere – a torto – che la sola quantità di dati sia sufficiente per la conoscenza dei fenomeni. Come se tutto a un tratto l’elaborazione di modelli culturali o scientifici divenisse superflua, sopraffatta dalle banche dati e dai sistemi di archiviazione.

Forse solo la psicanalisi di Freud ha mantenuto la sua capacità narrativa, che non è soltanto capacità di raccontare ma anche capacità d’ascolto. Ascoltando i sogni narrati dai pazienti, Freud verificava di volta in volta la validità delle sue chiavi di lettura. La sua terapia si basava sui racconti, sui sogni e sui ricordi, sul vissuto inconsapevole dei pazienti. Attraverso la prassi narrativa il terapeuta offriva un modello esplicativo per determinati disturbi psichici. Alcuni sintomi o specifici comportamenti venivano così alla luce e resi intelligibili attraverso il modello narrativo dello psicanalista. In un rapporto di reciproca mutualità perché tale modello interferiva adattandosi ai nuovi casi di studio forniti dai pazienti.    Solo la teoria – ribadisce l’autore – intesa come modello esplicativo può tracciare un ordine delle cose che pone in relazione le une alle altre e così facendo spiega anche il perché di certi comportamenti dentro contesti concettuali che li rende intelligibili.

614usvxpwl-_ac_uf10001000_ql80_Ma se le cose stanno così, allora l’attuale crisi della narrazione potrebbe riguardare, in ultima analisi, anche la perdita dell’attività simbolica che è propria della cultura e dell’uomo in quanto essere sociale. Del suo pensiero filosofico e poetico. Dai Dialoghi di Platone alla Divina Commedia di Dante Alighieri si è sempre fatto ampio ricorso al mito per garantire agli uomini l’eternità. Da Cartesio agli illuministi fino a Kant la moderna filosofia è sempre stata intesa come narrazione e ri-narrazione, come nascita di un nuovo inizio. Con Nietzsche si apre una nuova prospettiva perché la Gaia Scienza è qualcosa di completamente differente da una scienza in senso stretto. Essa viene concepita nei termini di un racconto che si apre al futuro e alla speranza, a una fede in un domani che verrà.  

Proprio quello che stiamo progressivamente perdendo: il sentimento della speranza. Immersi come siamo in una sorta di esistenza digitale con l’illusione di riempire un’angoscia esistenziale senza reali soluzioni, imbrigliati in un presente su cui incombe la minaccia di una guerra, senza neanche il conforto di un racconto mitico che possa risanare la crisi del nostro tempo, preparandoci un lieto fine da cui ricominciare. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Riferimenti bibliografici 
Calvino, Italo (a cura di), 1956    Fiabe Italiane, Torino, Einaudi 
Eliade, Mircea, 1976    Trattato di storia delle religioni, Torino, Boringhieri
1982    Il mito dell’eterno ritorno, Roma, Borla ed. 
Pitrè, Giuseppe, 1978    Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol. 2, (ristampa anastatica), Palermo 1870-1913 
Propp, Vladimir, J., 1966    Morfologia della fiaba, Torino Einaudi 

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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).

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