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Migrazioni, rappresentazioni e polarizzazioni

downloaddi Antonino Cusumano 

Il mondo non esiste fuori dalle categorie culturali che ne articolano le rappresentazioni. E la prima e strutturale articolazione è quella fondata sul dualismo, sulle coppie degli opposti, sul principio di una radicale divisione per opposizione. Attraversano culture e civiltà diverse le logiche binarie, le tendenze dicotomiche, le assiologie archetipiche costruite su poli irriducibilmente contrari. Ce lo dicono le filosofie e le religioni dell’antichità ma anche le psicologie e le neuroscienze della modernità, l’ontologia aristotelica di anima e corpo, le tabelle dei pitagorici e l’esistenza dei due emisferi cerebrali. Ce lo dicono le vulgate politiche che dividono le appartenenze in destra e sinistra, le teorie estetiche che oppongono il bello al brutto, ce lo ricordano le dottrine etiche e morali che distinguono il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. 

Circa trent’anni fa Adriano Sofri ha pubblicato un piccolo libro curioso, eccentrico, prezioso: Il nodo e il chiodo. Libro per la mano sinistra (Sellerio 1995). Un’originale lettura della storia umana, una felice e rapsodica escursione sulle genesi culturali e sulle avventure intellettuali attraverso una metafora che nei simboli materiali incarna i due modi diversi di interpretare la vita e di stare nel mondo. «Il nodo è duttile, il chiodo rigido: il chiodo rompe irreparabilmente, il nodo si scioglie ripristinando le cose com’erano. È la reversibilità, la possibilità di tornare indietro – senza scorie, senza perdite». Così scrive Sofri (ivi: 64) ragionando su questo dualismo dialettico tra assertività e duttilità, tra la rigidezza del chiodo «prototipo della spada e del pugnale» e la flessibilità del nodo, memoria del «labirinto dedaleo»: il primo fissa confini, trafigge corpi e materie, segna e incide superfici e, come una freccia acuminata, allude a un tempo unico e rettilineo; il secondo, invece, avvolge, lega, amalgama, abbraccia, rinvia ad un tempo circolare o tortuoso. Chiodo e nodo sono complementari, come lo sono la mano destra e la sinistra, l’emisfero destro e quello sinistro del cervello. Sono entrambi elementi costitutivi dell’arte della tessitura, che attorno alla saldezza dei chiodi dispone l’orditura e affida alla flessuosità dei nodi la trama delle maglie. 

sofriA guardare bene, la lezione di Sofri, che riconduce i dualismi culturali ai fenomeni naturali e alle condizioni materiali – «abbiamo due mani, e due piedi; il sole nasce a est, e tramonta a ovest; al giorno succede la notte, alla vita la morte» (ivi: 15) – sembra suggerirci il valore imprescindibile delle connessioni che stanno alla base del rapporto natura/cultura e alla radice dei processi sincretici del fare e del rappresentare, al di là delle divisioni e contrapposizioni. Nel nodo, nell’antico e semplice gesto del sovrapporre e intersecare elementi diversi, più o meno flessibili, più o meno rigidi, si possono connettere le argomentazioni più contrastanti, i pensieri e i convincimenti ‘inchiodati’ sulle posizioni ideologiche più distanti. Stringere o sciogliere sono operazioni verbali e fattuali che materializzano relazioni e rappresentazioni, atteggiamenti mentali e posture intellettuali. «Più radicale è, per una cultura, il contrasto fra i due opposti, più forte è il valore che vi si attribuisce ad una qualità e il disvalore di cui si carica la qualità contraria» (ivi: 12). E poche pagine dopo l’autore aggiunge: «So che le distanze di sicurezza sono una condizione della tolleranza e della socievolezza, dell’apertura. Tuttavia, confido nella differenza che nasce dalla comunanza e dalla simpatia» (ivi: 23). 

Ho in qualche modo ripensato al paradigma simbolico nodo/chiodo attorno al quale ruota tutto il ragionamento di Adriano Sofri, leggendo le pagine del volume appena edito di Antonello Ciccozzi, Muri e ponti. Migrazioni e polarizzazioni (Edizioni di pagina 2023). Un altro binomio materiale per alludere ad una metafora manichea, a una coppia semantica di segno contrario, ad una assiologia polarizzata su due prospettive incompatibili. Due modi diversi di confrontarsi con il fenomeno delle migrazioni, due sguardi che non si incrociano, due strabismi. Da un lato la paranoia xenofoba, il primato della sicurezza, la retorica identitaria, il dogma della chiusura fino all’odio e al disprezzo dell’altro, fino alla legittimazione del razzismo. Dall’altro lato, la priorità dell’accoglienza, il massimalismo dell’apertura, l’enfasi della xenofilia, la sottovalutazione degli aspetti problematici fino alla palingenesi dell’immigrazione come rivoluzione politica e rigenerazione sociale e culturale. Due rappresentazioni arbitrarie e settarie, due vicoli ciechi, due visioni tribali e speculari, esiti unilaterali e parziali di narrazioni che semplificano e banalizzano la enorme complessità del fenomeno, la difficoltà ad essere compreso entro uno schema ad una e reificata dimensione. 

Se come ci ha insegnato Borges non possiamo produrre mappe della realtà a scala uno a uno, per oggettivi limiti cognitivi prima ancora che ideologici, le rappresentazioni – anche quelle scientificamente accreditate – sono pur sempre approssimazioni, reductio ad unum, modelli ermeneutici da discutere, vagliare, criticare senza apriorismi e dogmatismi. Se però l’unica forma pensabile dell’alterità è da una parte il buon-migrante vittima e risorsa e dall’altra il clandestino potenziale criminale, allora ogni discorso sull’immigrazione resta pregiudizialmente irretito nella trappola di un manicheismo irrisolto, di una rovinosa e insanabile schizofrenia. Una schismogenesi la definisce Ciccozzi, richiamando un’espressione coniata da Bateson, per indicare il processo di reciproco disconoscimento, la faglia che separa in due orizzonti antropologici inconciliabili parole, concetti e prassi legati a migranti e migrazioni. 

verso_ecologia_menteNon c’è dubbio che parlare e scrivere di migranti e migrazioni è oggi diventato un esercizio tanto più difficile e complicato quanto più inquinato dalla rozzezza degli stereotipi, dalle ambiguità del politicamente corretto, dalle distorsioni mediatiche e dalle torsioni semantiche delle propagande elettorali. Sentimenti e risentimenti pesano prepotentemente sul lessico e sulle pulsioni come sugli orientamenti del dibattito pubblico e del senso comune. Da qui l’anoressia e la bulimia delle parole, ora svuotate di significati ora congestionate in usi impropri, mai misurate e più delle volte gridate, scagliate come pietre, brandite come armi. Da qui la sintassi ora enfatica ora triviale, più simile alla formula degli slogan che alla analisi logica delle argomentazioni. In questo senso il libro di Ciccozzi è un contributo coraggioso e controcorrente, critico e autocritico rispetto all’antropologia postcoloniale, un’opera di attenta decostruzione di alcuni tabù e di non pochi luoghi comuni che attraversano le responsabilità accademiche, scientifiche, intellettuali e politiche. 

Collaboratore di Dialoghi Mediterranei, su questa rivista Antonello Ciccozzi è stato protagonista di un intenso dibattito su Islam e islamismi, islamofobie e islamofilie, a proposito del tragico caso di cronaca della giovane Saman Abbas uccisa per aver rifiutato un matrimonio combinato dai suoi familiari pakistani immigrati nella provincia emiliana. A fronte di questo fatto ci si è interrogati fino a che punto la religione sia la chiave di comprensione di ogni pratica ed esperienza dei musulmani che abitano le nostre città e fino a che punto sia ininfluente e insufficiente, denunciando l’errore sia di chi cerca di spiegare tutto attraverso le sure del Corano sia di chi, all’opposto, sostiene che quel che accade non c’entri nulla con l’Islam. Temi e tesi che nel volume Muri e ponti trovano sviluppo e respiro in un ragionamento più ampio e meditato che oltrepassa la sfera meramente religiosa. Al centro resta la questione delle diversità che non sempre arricchiscono e dell’estraneità ostile che i migranti possono manifestare nei confronti dei valori, delle istituzioni, delle norme e dei luoghi del loro insediamento. 

Muove da lontano il ragionamento antropologico di Ciccozzi, dalla retorica della missione civilizzatrice come fardello dell’uomo bianco destinata ad esitare nella narrazione postcoloniale e nel «paradigma dominante nelle scienze umane rispetto alla prospettiva di osservazione dei rapporti tra Nord e Sud del mondo». Da Las Casas, che per primo rappresenta lo straniero come l’immagine della vera umanità in opposizione alla degenerata disumanità dei bianchi colonizzatori, fino ad arrivare a Sartre e a Fanon che rovesciano l’immagine dell’Occidente la cui storia nella rilettura critica appare solo quella dei suoi soprusi. S’impone il mito rousseauiano del bon sauvage e «l’opposizione tra egemonia e subalternità si storicizza in forma terzomondista». Per vie e diramazioni culturali diverse si fa strada una storiografia espiatoria e manichea, una letteratura esotizzante ispirata ad un irenismo millenarista, un’antropologia che assume l’alterità come un dato assoluto da esaltare per riscattare le colpe verso il Sud del mondo. «L’altro è migliore di noi moralmente, la sua superiore empatia e il suo superiore altruismo sono la medicina che cura la nostra umanità malata di individualismo ed egoismo». Una visione distorta della xenofilia che mentre si dispone in una postura autoflagellante oblitera qualsiasi elemento potenzialmente negativo nell’identità dello straniero. 

espositoTra le aberrazioni della cultura della sicurezza e quelle della cultura dell’accoglienza dei migranti l’attenzione critica di Ciccozzi sembra soprattutto indirizzarsi verso queste ultime, attribuendone a tanta parte delle scienze umane e sociali le cause e le responsabilità. Il rovesciamento antietnocentrico si spinge fino all’apertura palingenetica, «come dovere umanitario, come atto di misericordia per lenire le sofferenze dell’alterità del Sud del mondo, (…) come cura per il nostro inverno demografico, come occasione di arricchimento economico e antropologico grazie alla forza lavoro dei migranti e alla loro diversità culturale». Se per i sovranisti i migranti sono un oggetto di rischio, causa di tutti mali, capri espiatori di tutte le paure collettive, per gli immigrazionisti sono un soggetto a rischio, la soluzione di tutti problemi, il giusto contrappasso per le colpe coloniali. 

Dal filosofo Roberto Esposito l’autore recupera la felice dialettica immunitas/communitas, la spinta cioè alla protezione e quindi alla chiusura da un lato, e la tendenza dall’altro all’inclusione, alla solidarietà, alla costruzione di una comunità aperta. Necessarie entrambe in un equilibro che preserva la vita delle società e delle democrazie. E tuttavia, mentre il filosofo riconosce «nell’espansione di biopolitiche immunitarie una cifra del presente che configura una sorta di malattia autoimmune del corpo politico», fino a prefigurare una sorta di fobocrazia, Ciccozzi ribadisce i rischi derivanti dalla schismogenesi tra le due ossessioni, quella immunitaria e quella comunitaria, vede nell’islamismo fondamentalista quell’odio antioccidentale di matrice postcoloniale che può permeare le coscienze dei migranti. Sottolinea le problematicità culturali connesse ai costumi tradizionali dell’infibulazione, ai delitti d’onore, ai tribunali religiosi paralleli, alla nefasta influenza della shari’a. Considera le ambiguità di certo rozzo multiculturalismo che dai migranti può essere usato come un cavallo di Troia per affermare il primato dei propri valori culturali nel disprezzo di quelli della società ospitante. 

cover_webQuestioni delicate, spinose, liminari all’interno di un discorso aspro, urticante, scivoloso, ai confini con un pericoloso fiancheggiamento alle tesi dei sovranisti e degli xenofobi e l’accettazione di una sostanziale equivalenza delle posizioni politiche tra la cultura dei muri e quella dei ponti. Viene evocata una presunta “dittatura dell’accoglienza” mentre di fatto in realtà trionfa una politica non solo nazionale di chiusure e respingimenti, di patti internazionali per difendere la Fortezza Europa, di drammatiche deportazioni in Paesi terzi. Ma Ciccozzi sa essere convincente quando, nella critica indifferenziata alla esasperata e oggettiva polarizzazione delle posizioni e delle rappresentazioni, si adopera per distinguere, precisare, chiarire. «Non si tratta – scrive – di porre xenofilia e xenofobia sullo stesso piano ma di comprendere che ragioni e torti non sono totalmente separati: ciò se non altro per liberare l’umanesimo dallo stigma della xenofobia e per comprendere che la xenofilia dovrebbe fermarsi di fronte alla xenofobia altrui». Così l’Islam – ripete con insistenza – è cosa diversa dalle pretese integraliste dell’islamismo e “raccogliere alla rinfusa” i migranti perché buttandosi a mare ci costringono a farlo non ha nulla a che fare con l’accogliere le persone nel rispetto della loro dignità, come l’apertura di regolari canali di accesso anche attraverso gli aeroporti consentirebbe. 

Nella sua continua ricerca di definire, puntualizzare e mettere a fuoco l’oggetto della sua tesi senza scivolare nelle sabbie mobili del malinteso e dell’incomprensione, senza restare intrappolato nella greve schizofrenia politica, Ciccozzi si fa interprete di un’antropologia del rischio «che dovrebbe essere pensata fuori da semplificazioni ideologiche manichee, e recuperare una prospettiva dialettica, per riconoscere che l’altro può essere – proprio nella sua alterità – un soggetto sia in pericolo sia pericoloso». Si tratta di un esercizio di puntuale revisione critica e autocritica che investe la stessa antropologia dell’Occidente impegnata a conoscere l’alterità e a difenderne i diritti fino al punto, in alcuni casi, di disconoscere e rinnegare l’identità, la sua storia, la sua cultura, i suoi stessi diritti. Così Ciccozzi rilegge gli eccessi del paradigma postcoloniale alla luce delle pagine dell’ultimo Cirese che chiude il suo Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali con la seguente perentoria affermazione: «ogni cultura e ogni identità ha uguale diritto di essere rispettata e protetta, compresa, qui da noi, la nostra» (Cirese 1997: 210). Una difesa di quell’Occidente che ha avuto se non altro il merito di aver scoperto l’etnocentrismo e la denuncia più volte rivendicata che la relazione tra il campo egemonico e quello subalterno non è mai caratterizzata da cesure nette e univoche ma da complesse e reciproche tensioni e da ambivalenti e molteplici contraddizioni interne. Osservazioni che oggi possono aiutarci ad uscire dalle secche del rigido manicheismo tra muri e ponti, intelligenti intuizioni del maestro che consentono di criticare certe ingenue e disarmanti posizioni xenofile (accogliamo tutti) senza precipitare nelle degenerazioni più abiette della xenofobia (fora dai ball). 

61rugvcgg7l-_ac_uf10001000_ql80_Alla ossessione e segnalazione dei rischi impliciti nella “diversità che non arricchisce” e nell’“estraneità ostile” dei migranti, a questa preoccupazione che attraversa e domina tutte le pagine del libro in forma di monito o in forza di un principio di precauzione, Ciccozzi associa forse le riflessioni più interessanti, quelle propositive e progettuali che offrono vie d’uscita ai vicoli ciechi  della estrema polarizzazione dei temi, e qualche utile indicazione per una corretta politica di governo dell’immigrazione. Intorno al concetto di cittadinanza l’autore ricompone la figura dissociata del migrante hospes e hostis, dal momento che «le migrazioni – scrive – ci mettono di fronte all’onere contrattualistico di ridefinire dei patti sociali di convivenza». Non ci può essere inclusione senza formale riconoscimento giuridico come non ci può essere pieno riconoscimento e concreta accoglienza senza una manifesta appartenenza ai luoghi e una leale adesione ai valori costituzionali del Paese che si è adottato e si è deciso di abitare. 

Nella semiosfera culturale della cittadinanza entrano le parole chiave della convivenza: lealtà, reciprocità, equilibrio tra diritti individuali e doveri sociali, appartenenza sentimentale e solidarismo civico. In questo orizzonte di senso, in tempi di vacui patriottismi esibiti e pretesi, tornano quanto mai attuali e consonanti con le pagine di Ciccozzi i concetti espressi trent’anni fa da Gian Enrico Rusconi nel suo Se cessiamo di essere una nazione (Il Mulino 1993): 

«L’enfasi sulla “cultura dei diversi”, quale si sente fare in convegni o presso volenterosi gruppi di aiuto agli immigrati, corre il rischio di un approccio astrattamente idealizzato. È l’esatto speculare delle oscure apprensioni per un misterioso e minaccioso Islam, che sono coltivate in altri gruppi sociali, etnocentricamente ripiegati su se stessi. Questo doppio pericolo può essere evitato soltanto da una cultura della cittadinanza che sappia cogliere e interagire in modo maturo con l’identità culturale autonoma degli immigrati (…). L’unico modo di mettere alla prova il confronto e lo scambio tra le culture, lontano sia dalle retoriche della società multietnica che dal ripiegamento etnocentrico, è quello di sperimentare regole di partecipazione alla vita pubblica locale per tutti coloro che si riconoscono lealmente “membri della stessa città”, cives» (ivi. 173, 179). 

819zldwf6bl-_ac_uf10001000_ql80_Nella dimensione contrattuale della cittadinanza che connette dialetticamente accoglienza e appartenenza, il ruolo dei luoghi non è indifferente o ininfluente. Come ha insegnato il compianto Marc Augè, sono spazi culturalmente densi di storia, identità e relazioni, privati delle quali caratteristiche rischiano di diventare non-luoghi. Ecco perché se i migranti devono adattarsi ai luoghi d’approdo anche i luoghi devono adattarsi all’approdo dei migranti. «I luoghi senza stranieri, del tutto epurati dall’alterità e consegnati a una tirannia dell’identità, sono asfittici. Sono opprimenti nella loro chiusura. Come pure, all’opposto, un mondo di stranieri senza luoghi sarebbe implosione in una chimera cosmopolita che porterebbe ad una alienazione di massa». Così Ciccozzi non esita a sottolineare l’importanza del doppio vincolo tra apertura e chiusura, delle soglie di tolleranza e di sostenibilità dei flussi quale garanzia dell’equilibro e della reciproca tutela dall’ostilità delle persone e dall’ostilità dei luoghi, presupposto di una convivenza possibile e non conflittuale nei contesti urbani. «Mentre l’accoglienza senza cittadinanza tende a degradare le persone migranti a non-persone, come effetto dell’esclusione dall’ordine giuridico-politico nazionale, la cittadinanza senza volontà di appartenenza tende a degradare in non-luoghi quelli che per i residenti sono luoghi d’origine o di vita». 

Dei rischi ribaditi da Ciccozzi di banlieueizzazione dell’Europa entro società balcanizzate tra gruppi che coltivano un’etnicità del disconoscimento reciproco, «dove le comunità musulmane che si formano con i flussi migratori più che un’europizzazione dell’Islam desiderino un’islamizzazione dell’Europa», è giusto tenere conto nelle dinamiche di una convivenza resa ancor più problematica dagli squilibri non solo economici ma anche demografici. Ma perché la consapevolezza di questi rischi non degeneri nella paranoia che vogliamo combattere occorre ricordarsi che l’incontro ha luogo tra gli uomini prima che tra le culture ed è destinato a generare non solo conflittualità ma anche esperienze di dialogo, di scambi, di crescita, di ibridismi e sincretismi, delle mille forme di indigenizzazione come usa dire. 

La verità è che i processi migratori, oggi ripensati nell’altezza diasporica delle comunità globalizzate, restano – e resteranno a lungo – fenomeni politicamente polarizzanti, sfide sociali e culturali di particolare impegno per la convivenza e per la stessa antropologia. Stretti tra i muri che dominano le rotte transnazionali e i ponti che possono condurre al nulla, confessiamo di essere dalla parte dei confini porosi, delle frontiere aperte, dell’accoglienza civile, della solidarietà umana. Siamo convinti che le categorie politiche utilizzate da Norberto Bobbio per definire e differenziare la destra e la sinistra siano ancora valide e ancora più evidenti nell’età delle migrazioni di massa e delle mutazioni ambientali. Fuori dalle retoriche securitarie e dai miti cosmopoliti, liberate dalle artificiose e sterili posture contrapposte, le questioni così terribilmente complesse non si risolvono separando il destino degli uni da quello degli altri, in un mondo sempre più concatenato, interconnesso e interdipendente. Nelle conclusioni Ciccozzi scrive: 

«Il mescolamento – tra persone, tra gruppi, tra sistemi culturali – è culturalmente vantaggioso in quanto produce riconoscimento reciproco, che è l’unico modo per uscire dal dilemma che l’inimicizia instaura: l’annientare l’altro o l’essere da esso annientato. Mescolarsi è un modo per non ammazzarci, e questo può essere inteso nell’accezione più ampia del termine, come meticciamento che riguarda pienamente non solo la dimensione biologica ma anche quella simbolica, culturale». 

s-l1600Nessuna poetica del meticciamento, nessuna soluzione palingenetica ma piuttosto l’esito naturale ampiamente sperimentato dalla storia delle civiltà e puntualmente documentato dalla letteratura antropologica, la terza via che le cecità ideologiche ci impediscono di vedere quando rifiutiamo, per esempio, la cittadinanza ai figli degli immigrati nati, cresciuti e scolarizzati nel nostro Paese. 

L’antropologia, mentre è chiamata ad aprirsi a dimensioni transdisciplinari dopo le stagioni postcoloniali della riflessività e della decostruzione, sembra avere oggi il compito di reinventarsi, di rovesciare totem e tabù del politicamente corretto, di andare per l’alto mare aperto superando le colonne d’Ercole delle vecchie antinomie e dicotomie alla ricerca di un protocollo valoriale collettivo che sia in grado di farci riconoscere culturalmente in un’immagine condivisa di umanità, ovvero alla definizione di quel «minimo comune denominatore», per usare le parole di Lombardi Satriani, che costituisce patrimonio universale di diritti non negoziabili e di principi giuridici elaborati attraverso una plasmazione culturale plurisecolare. 

I migranti non saranno l’esercito postindustriale di riserva del proletariato del terzo millennio, non sono certo gli eroi protagonisti della mai risolta lotta di classe, non sono nemmeno le figure che libereranno il Sud del mondo dalle implacabili catene della subalternità né sono probabilmente destinate a rigenerare il Nord vecchio ed esausto. Sono tuttavia presenze ineludibili del mondo e del tempo che abitiamo, sono uomini e donne – storie, costumi, fedi, lingue, immaginario – con i quali coabitare, negoziare, convivere, dialogare. Possono essere alterità perturbanti, invadenti, intolleranti. Identità che collidono con le nostre. L’antropologia, che si occupa della diversità culturale senza ossessioni e senza distorsioni, può dirci dei rischi che corriamo ma anche dei vantaggi che ricaviamo, senza mai tuttavia dimenticare da che parte stare. È più di una esigenza etica. A guardar bene, è un progetto di salvezza comune dal generale naufragio dell’umanità. Ma questo, come dimostra Antonello Ciccozzi in questo libro che, in ultima analisi, ci interroga sul senso e sul destino della diversità, è compito che non appartiene soltanto agli antropologi impegnati a superare «la spaccatura culturale interna tra xenofobi e xenofili su cui la politica bivacca dall’alba della modernità». Non riguarda in tutta evidenza soltanto chi deve contribuire a produrre conoscenza nella compresenza di più e diversi modi e forme di stare nel mondo. È dovere piuttosto della politica – una politica non solo nazionale ed europea ma anche locale e regionale – dare risposte e soluzioni concrete alle quotidiane criticità della vita associata, alle avventure e disavventure di quella bella e difficile esperienza che chiamiamo convivenza. 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023 
Riferimenti bibliografici 
M. Augè, Nonluoghi, Eleuthera, Milano 1993 
G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977
N. Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli, Roma 2009
A. Ciccozzi, Muri e ponti. Migrazioni e polarizzazione, Edizioni di pagina, Bari 2023
A. M. Cirese, Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali, Meltemi, Roma 2000
R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 2006
R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2015
G. E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, Bologna 1993
A. Sofri, Il nodo e il chiodo. Libro per la mano sinistra, Sellerio, Palermo 1995 

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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore)La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020). Per la stessa casa editrice ha curato il volume Per Luigi. Scritti in memoria di Luigi M. Lombardi Satriani (2022).

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