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Luoghi, parole e animali nelle poesie di Nino De Vita

Nino De Vita

Nino De Vita

di Nicola Grato 

Che posto occupano i poeti nel nostro mondo, nella nostra società, in questa nostra Sicilia odierna? Non è questa una domanda oziosa rivolta agli specialisti di letteratura né un veloce appunto utile a compilare una delle tante raccolte antologiche in cui i poeti viventi si affannano, sgomitano financo per esservi compresi, quasi fossero queste raccolte un segnale di vita, dessero marchio di approvazione da parte della critica e quindi certezza d’esistere.

Questa domanda è piuttosto una traccia, un memorandum per cercare dove sono i migliori poeti oggi, dove scrivono e in quale specifico contesto. Sentiamo davvero urgente questa ricerca perché il nostro tempo ha calibrato l’orologio sul profitto e sullo sfruttamento del lavoro, sull’odio per chi è straniero e, più in generale, sulla mancanza di coscienza civile e storica; chi pratica poesia oggi deve assumere un ruolo fondamentale di contraltare rispetto al fittizio e al commerciale, deve essere per forza distante da questo tempo di mercanti ma presente in angoli, vicoli suburbani, contrade, dialetti.

Ecco, in questi luoghi residuali e “distanti” abitano alcuni poeti che ascoltano, raccolgono voci e detti, osservano il variare del tempo e dello spazio fisico e ne scrivono. Uno di questi è il poeta marsalese, meglio, della contrada Cutusìo, Nino De Vita.

«Viviamo in una società che è diventata una macchina per infrangere i cuori, per schiacciare gli spiriti, per fabbricare incoscienza, stupidità, corruzione», a dirla con Simone Weil; abitiamo luoghi che sempre più soffrono le partenze dei giovani, luoghi di cui è difficile immaginare un futuro, città e paesi attraversati da “emblemi di un’età di violenza”, eppure l’esempio di Nino, tenacemente avvinto alla contrada Cutusio di Marsala, ci conforta, ci può indicare una strada da seguire, ovvero avere piena coscienza storica dei luoghi in cui abitiamo. Questa coscienza principia dalla conoscenza puntuale della lingua, che è sempre lingua legata a un luogo geografico, espressione del carattere specifico delle persone che i luoghi abitano; coscienza che si fa consapevolezza critica profonda proprio nell’arte di ascoltare le persone e poi narrarne caratteri, costumi, speranze e scorni.

CUNTURADe Vita abita la lingua di Cutusio fatta di mare, nomi di animali che solleticano la fantasia, posidonie dello Stagnone; il suo ultimo libro, Cuntura [1], ci consegna una proposta poetica che è prima di tutto una proposta etica. Curato appare il formato di questo libro che raccoglie tutti i “cuntura”, i racconti in versi, che De Vita ha fino ad ora scritto [2]: un bel disegno di Girolamo Ciulla in copertina rappresenta un asino, animale sul quale torneremo più tardi.

«Cunto è parola magica», scrive nella Prefazione Raffaele Manica, riferendosi poi al Cunto del Basile. Un riferimento, quest’ultimo, non soltanto al titolo ma anche ai contenuti e allo sguardo che entrambe queste raccolte di racconti rivolgono al mondo dei bambini. De Vita stesso traccia con precisione l’origine di queste poesie in prosa scritte per la figlia: 

«Per Francesca, per lei, io cominciai a scrivere i miei Cùntura. Ogni sera, prima di addormentarsi, mia figlia chiedeva che le raccontassi una fiaba. Tutte le sere. Dopo qualche settimana le fiabe che conoscevo si erano, inevitabilmente, esaurite; allora cominciai ad inventare storie, favole che nascevano proprio in quel momento, accanto a lei, rannicchiata nel lettino o con le spalle, la testa, poggiate alla spalliera» [3].

Da questo momento De Vita comincerà a raccontare e raccontare, ma anche a scrivere queste storie, a scriverle nei momenti di tempo libero tra una lezione e l’altra a scuola: cercava il Nostro un’aula vuota dove poter trovare la giusta concentrazione che serve per raccontare, per scrivere queste storie in una lingua sorgiva, limpida e antica: il dialetto di Cutusio. La scelta dell’espressione dialettale in poesia è raccontata dal poeta stesso: 

«Con noi, nella nostra stessa casa, stavano i nonni, nati nell’Ottocento. Parlavano il nostro dialetto, antico, puro: la prima lingua, questa che ho in assoluto appreso. (…) Quando ho cominciato a scrivere in dialetto io ero già in possesso di una lingua, la parlavo interamente; e credo meditassi, ragionassi, in dialetto; eppure non pensavo, mai ci pensavo che sarei arrivato a scriverlo. Non mi interessava, lo posso affermare. Felicemente lavoravo infatti al mio primo libro di poesia in italiano, Fosse Chiti. Questa conversione, io la chiamo così, avviene una mattina dell’autunno del 1980. Insegnavo, a Trapani, nel Liceo scientifico; e a un ragazzo che, uscito dalla classe, dimenticava di chiudere la porta ‘Unn’ a lassari a ciaccazzedda, “non lasciarla socchiusa”, dicevo, usando un’espressione tipica del nostro dialetto. Uno, dai banchi, sorpreso: “Ma che parla arabo, professore”, dice. (…) Iniziammo un dialogo che riguardava il dialetto, questa “mia” lingua, perché per me di lingua si tratta. (…) Cercai e trovai nella memoria parole, nomi inusitati. (…) Pensai, decisi, di mettermi a scrivere in dialetto; di conservare, attraverso la mia scrittura in versi, le parole che di più si erano logorate» [4]. 

Il dialetto permette a Nino di conservare parole e luoghi, di serbare nella memoria persone, volti ma anche di comunicare al lettore le fattezze di luoghi e paesaggi; esigenza comune a un altro grande poeta, Cristanziano Serricchio, che scrive «Me so mmise a scrive parole / ca da tante timpe / ne m’arrecurdéve cchiù, / da quanne sciuquéve / pe l’àlete vagnune / ammizz’alla vianòve / atturne a nu curle»[5]: ricordarsi delle parole adoperate da ragazzi mentre si giocava appresso a una trottola. Per Serricchio e per De Vita il dialetto è dire l’indicibile, trasporre in scrittura un mondo che da sempre si è affidato all’oralità. Cosa sono questi Cùntura se non pure forme sonore, profonde e sinuose parole scritte che hanno il ritmo del racconto orale?

i__id1403_mw1000__1xRispetto all’edizione per i tipi di Mesogea, questi Cùntura annoverano sei poesie in più: ‘U nchiaccatu, ‘I pupa, L’anatru, Riscursa attangalati, ‘U scorfanu e ‘U sceccu. Proprio da quest’ultima poesia iniziamo la nostra lettura del libro di De Vita. ‘U sceccu, l’asino, la bestia da lavoro, l’animale presente da sempre nella letteratura e nei testi sacri, ad esempio nel biblico Libro di Zaccaria e ovviamente anche nei Vangeli, così come nelle Regole di san Francesco; l’asino è il compagno fedele dell’uomo, potentissima duplice allegoria di lussuria ma anche animale palingenetico, come accade ne Le metamorfosi di Apuleio. Asino simbolo di riscatto nel film di Robert Bresson Au hasard Balthasar, nel quale un asino, passando di padrone in padrone, riscatta la malvagità dell’uomo.

L’asino di De Vita dialoga con una mosca, raccontandole della sua vita grama, sempre bastonato dal padrone e bastonato proprio perché asino, per pura crudeltà. Ne piange, l’asino, ne soffre; pieno di croste e piaghe lo diremmo figura soffrente, figura cristica che sulla schiena porta il peso dei millenni, dei giorni; il peso del padrone che sembrerebbe altro non aspettare che batterlo. Un asino “umano” che ci ricorda i bufali descritti da Rosa Luxemburg i quali, percossi senza pietà dai soldati, trascinano un pesantissimo carro colmo di sacchi: 

«Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta» [6]. 

Questa descritta da Rosa è in effetti anche la propria condizione di reclusa, i bufali sono soffrenti e vivono una vita amara come chi li osserva; l’asino raccontato da De Vita ha il carattere umano della sofferenza, lo stigma porta inciso sulla carne dell’arbitrio e della violenza: ristoro a questa sua condizione è la preghiera a Dio, una preghiera che il padrone bruscamente interrompe: «Tu prei a Diu… fici / ‘u patruni, gniratu. / Ma esti a mmia ch’a priari, / chi pozzu vastuniàriti / quannu vogghiu, com’è / chi vogghiu, senza ca / ddiri pi chissu e chiddu. / Aìsati, ‘u cumannau». La voce di comando non ammette pietà. L’uomo chiede conto e ragione alla bestia delle preghiere, chiede espressamente all’asino di ripetergli il contenuto delle sue invocazioni a Dio; l’asino risponde che chiede a Dio pietà. La sua non è una richiesta di una vita migliore, la domanda di un destino felice.

L’asino chiede pietà a Dio, perdono per i suoi peccati: l’antica preghiera di chi è solo nell’universo, di chi è piccolo e umile ma capace di contenere il mondo intero. L’asino ha bene in mente quale sia la propria condizione, quale sia il compito a cui è chiamato; la sua è figura dell’attenzione, mentre l’uomo è distratto, pensa al guadagno con qualsivoglia mezzo, lecito o illecito, anche a costo di bastonare un essere vivente e usargli violenza gratuita; Valéry ci ricorda proprio quale sia una differenza sostanziale tra uomo e animale, a vantaggio certamente di quest’ultimo, e questa differenza secondo il francese consiste nelle facilità con cui l’uomo si distrae, perennemente ossessionato sempre da qualcos’altro mentre compie un’azione, mangiare o fare una passeggiata. L’animale, invece, non è ossessionato dal pensiero, si trova sempre dove è, bada al tempo presente, chiede, nel caso dell’asino devitiano, pietà anche per tutti noi.

Un altro animale è Ntonu, il protagonista del cuntu Cc’èranu tutti ammenzu ri l’ariuni: è un “porcu nuvidduni”, un giovane maiale castrato; un maiale che osserva gli altri animali nell’aia, pacioso, curioso; osserva il porco dispiegarsi la vita nelle “faccende” dell’aia: anatre, galline, oche. Come scrive Eleonora Conti, 

«I pennuti da cortile affollano numerose fiabe, racconti, romanzi, poesie e persino saggi, lungo l’intera storia della letteratura europea. Le simbologie legate ad essi sono complesse e radicate nella società fin dall’antichità, proprio grazie alla familiarità dell’uomo con questi animali e al peso determinante che essi hanno sempre avuto nell’economia contadina, anche nelle campagne più desolate» [7]. 

41wkhgykkpl-_ac_uf10001000_ql80_È questo cuntu tutto giocato da De Vita sullo sguardo del maiale, uno sguardo indagatore, preciso; lo sguardo di chi osserva dal di fuori la vita ma sa che non potrà avere che nostalgia e anche dolore per non potervi partecipare appieno. Il maiale sa infatti che, entrato nell’aia, con i suoi movimenti sgraziati e il suo vocione avrebbe spaventato le altre bestie: «Arrassatu – appinatu – / chinu ri rritimegna – / taliava dd’armaluzzi / attaciatu: / ‘u sapia, scannaliatu, / chi sghennu nnall’ariuni, / pistu e cu dda vuciazza, / l’avissi, mischineddi, / jincuti ri scacazzu». Sono questi versi costruiti attorno alla figura di questo maiale discosto, timido: una costruzione fatta di aggettivi semanticamente molto potenti, e che abbiamo riportato nel dialetto adoperato da De Vita proprio perché la lingua nazionale non riuscirebbe a renderne l’espressione, la precisione e la “voce”: il maiale è arrassatu, parola che indica non semplicemente chi è lontano e distante, ma chi è quasi messo da parte in un contesto di persone, che è separato financo; la pena è duplice e ancor più gravosa nell’aggettivo appinatu, una pena lunga come questa parola, appuntita, tagliente; attaciatu è aggettivo che indica un desiderio profondo, un desiderio forte come un respiro (ciatu), un desiderio simile a quello di chi ha sete (assitatu) secondo il Traina [8]. Il maiale è anche scannaliatu, sa cioè bene per averlo provato cosa significhi mettere piede nell’aia: gli altri animali avrebbero paura della sua andatura sgraziata, della sua voce forte. Il maiale così intristisce giorno dopo giorno, sua unica consolazione era il gioco con il ragazzo che la sera gli portava la broda.

Il fattaccio è però dietro l’angolo: Ntonu incontrerà nell’aia un animale mai visto prima, un pavone che gli mostrerà la meravigliosa coda, scatenando nel maiale un folle innamoramento che lo porterà a scorrazzare per l’aia alla cerca del pavone, spaventando in un trambusto folle tutti gli animali del cortile. Dopo qualche giorno, Ntonu sarà scannato: «E cu è ch’u sapi, cu è / ch’u po ddiri, s’a ntisi / – nchiuvatu ô tavulazzu: / cu ll’occhi sbarrachiati, / prima ri cannaliari – / ‘a lama chi azziccusa cci circava / ‘u cori». Questa lama che cerca il cuore del maiale ci appare quasi figura di una ricerca nel corpo della bestia di una virtù. L’immagine del maiale ha quasi sempre sofferto di pregiudizi legati alle abitudini e alla sporcizia della bestia, ad esempio negli apologhi di Soffici e Loria, ma anche nei Vangeli e nella letteratura paremiologica. Questo Ntonu, maiale ritroso e gentile, che ama l’odore dei gerani, è apparentabile al porcello di Gadda o ai maiali di Montale in “Elegia di Pico Farnese”, poesia contenuta ne Le occasioni: «ragnateli di sasso dove s’aprono / oscurità animate dagli occhi confidenti / dei maiali».

Scrive Antonio Prete: «Pensare l’animale, la sua presenza, il suo enigma, il suo linguaggio: la scrittura, nelle sue forme allo stesso tempo descrittive e interrogative, di invenzione e di meditazione, ha perseguito spesso questo compito, o questo azzardo» [9]. È certo un azzardo il confronto tra uomo e animale o, meglio, la ricerca dell’alterità: l’uomo pensa e parla, l’animale è figura del silenzio. De Vita quasi capovolge questa eterna dialettica a favore della bestia: è la bestia che incarna le virtù di schiettezza e probità mentre gli uomini si prendono quasi gioco degli animali, forti di una loro presunta superiorità. Così il padrone dell’asino, così chi macella il maiale e quasi gli cerca il cuore affondando la lama nella sua carne.

71mvrewzjol-_ac_uf10001000_ql80_De Vita si approssima al mistero della relazione fra tutti i viventi e fra i viventi e il mondo che li circonda con sguardo d’amore, scrittura forte e delicata al contempo. Si accosta il Nostro a ciò che è nascosto nelle pieghe del giorno, a ciò che più conta e che meno è evidente, ovvero la relazione che noi esseri pensanti abbiamo davvero con noi stessi e con la nostra interiorità: non è infatti un caso se i nostri sogni sono spesso popolati di bestie, figure di schiettezza in un mondo sempre più corrotto dal profitto e da relazioni tra le persone spesso superficiali e vuote. De Vita continua con rinnovato vigore espressivo la tradizione letteraria della rappresentazione del corpo animale che va dal Leopardi del “non finito” Dialogo di un cavallo e di un bue, passando a Kafka, Foucault, fino a poeti contemporanei quali Ivano Ferrari con il suo Macello [10] o ai Naturalia [11] di Carlo Tosetti.

Disperata, una gazza cerca invano i propri nati nel cunto ‘I carcarazzi: non li troverà, e il suo grido è la voce inesausta e palpitante del dolore universale, la voce del corvo di Primo Levi: «Ho volato senza riposo / per cento miglia senza riposo, / per trovare la tua finestra, / per trovare il tuo orecchio (…)» [12].

Il paesaggio marino dello Stagnone è sfondo ma anche personaggio del cunto ‘U scòrfanu. I muretti bassi sono sedili per chi voglia prendere il sole coi piedi ammollo a un’acqua calda, delicata, irto il fondale di posidonia, loturie che solleticano i piedi; lo Stagnone di Marsala è luogo magico, compendio di civiltà e libro delle ore che passano leggere, ore trascorse a guardare i tramonti, a pescare. Alcuni ragazzi «quannu scola ‘un cci nn’era» si ritrovavano allo Stagnone per cercare di pescare qualche pesce, ed effettivamente “tirano” un pesce che, giunto con l’amo infilzato alla bocca sui ciottoli, rantola, con un rantolo fatto di parole: è uno scorfano «smiddiusu, scuru chinu / ri spuntuna», uno scorfano «goffo, scuro, pieno / di spuntoni», secondo l’autotraduzione che fa di questi versi lo stesso De Vita. Da notare l’enjambement, così peculiare nella poesia di Nino, che ha funzione pittorica: è un colpo di pennello che s’incide sulla tela del testo. Riportiamo qui un brano di questo cuntu: 

(…) E ddapia,
chiuria – arricialannu –
‘i aggi.
«‘A fami… avia fami …» ciuciuliau
‘u maraddeu, cu ‘a vuci
ciaccata.
 
Aspànu si purtau ‘i manu ‘ntesta.
Totò si nn’acchianau
Cacariddusu nno
‘na rocca.
 
‘U scòrfanu, nnarcànnusi,
si misi a savutari,
a tòrcisi, a firriari…
E mentri i scapuzzelli
Taliàvanu abbracau.
Un patracciomu! ‘U sangu,
ri nna vucca, struppiata, cci agghicava
nnall’occhiu.
Appi un rizzelu ri
friddu.
 
Soccheni chi ntravinni
Nzècutu ‘unn’u sapemu.
 
Totò cuntau c’u scòrfanu
Si misi a ddiri «‘U mari, ‘u mari, ‘u mari…» [13]. 

unnamed-1Il ritmo che ascoltiamo è di una nenia lontana, seppure la materia trattata è terribile. Uno scorfano sanguinante, anche questa figura di dolore. Scrive Bruno Capaci: «Se si animassero le ittiche rappresentazioni a mosaico della chiesa romanica di Aquileia e se, animandosi, prendessero a parlare ci saprebbero forse raccontare storie uniche e irripetibili delle forme di vita di cui perlopiù conosciamo soltanto i valori proteici e il piacevole gusto al nostro palato» [14]. Qui lo scorfano è vivo e non dipinto in un mosaico, proviene dal profondo, dal nascosto, dagli abissi e porta a noi una parola sospesa, una richiesta, un messaggio: “…il mare”. Presi da spavento, i ragazzini lo chiudono nella sacca dove il pesce muore “accupatu”, soffocato, e soffocata è la parola che vorremmo ascoltare, quella che ricerchiamo per vicoli, vie di case abbandonate e dirute anche noi; una parola che salvi, un fuoco di racconto, una fiaba che serva per intrecciare relazioni.

Fercolo che proviene dagli abissi ricolmo di spine e incrostazioni marine, lo scorfano compie un viaggio doloroso che ci apre a uno squarcio di divino nelle cose del mondo, come l’anguilla montaliana; è questo scorfano simile a un Cristo sofferente, un Ecce Homo deriso che incute però timore in chi guarda; una variante di questo cunto è proposta da De Vita stesso nel finale del poemetto: i ragazzi tirano a sorte sul pesce per liberarlo o riporlo nella sacca, vince chi vuole dar libertà al pesce che così ritorna al mare, ritorna da dove è venuto, oracolo che non abbiamo potuto che ascoltare senza comprendere.

La lettura di questo libro di Nino De Vita ci appare davvero feconda di sollecitazioni, di rimandi interni ai testi, di illuminazioni liriche potenti. Sentiamo Esenin nel testo I vucciardi con questo “attacco” pittorico davvero ragguardevole: «‘A casa sularina – ammenzu a feddi / ri zzucchi, ri ristucci, / r’alivi – avia un gghiardinu / ri artenzi, ri narcisi, una filera / ri ciuri ri scavacchiu; / e una pèula, vecchia, / nna porta ra cucina / a pappera. / Un ortu e, ô ‘n piricinu / ru firriatu, a tuccari / ‘a gebbia, un addinaru; / l’affucaaddina allatu / ô puzzu». È la storia di una casa e delle vite animali e umane che attorno e dentro a questa casa si compiono, accadono: un bambino che diventa uomo e che si fidanza con una donna, i due avranno poi una figlia; accanto, attorno a questa famiglia  il popolo di vucciardi, rribbobba, ariddi, zzapetri, pàpari, palumma, ciaraveddi, pisci nella gebbia, ggiurani ma anche uccelli come il cacamarruggiu o il cardiddu, o vermi come il millepiedi dal magnifico nome dialettale “loriapatri”;  rettili ancora come il vardaomu e il custode delle case, il geco che nel dialetto di Cutusio è la “tignusa”. Quanta meraviglia in questi nomi, quanto ritmo nel dispiegarsi del verso che si modula con questi nomi che sono come pozzi di cultura orale, materiale, stelle di un firmamento perduto ma capaci di brillare ancora oggi. Ogni nome ha una potenza lessicale che possiamo certo soltanto sentire per affetto e non già per frequentazione di questo mondo di cui ci narra De Vita, ma che possiamo vedere ancora in queste contrade assolate dalla luce gialla o nella pietra ocra o gessosa di certi paesi in case, pagliere, muri di confine

La poesia di Nino De Vita ci esorta infatti come a un cammino attento fra persone, animali e cose: non è un gioco, è il palinsesto della nostra umanità che dobbiamo curare, necessario antidoto a guerre, devastazioni climatiche, cattivo uso del linguaggio. I Cuntura parlano al presente, come le fiabe vere e potenti, non indulgono sulla natura umana e sui suoi inemendabili vizi, ma ne narrano con sguardo di pietà. Il genere umano è infatti avvezzo al peccato più grande, sentirsi il sale della terra, mentre  il cavallo leopardiano del sopra citato Dialogo di un cavallo e di un bue, discorrendo col bue degli uomini ormai estinti, afferma: «Ora se (gli uomini) sapessero che il mondo resta tal quale senza loro, essi che credevano che tutto il mondo consistesse nella loro razza, e se succedeva qualche alterazione alle loro monarchie, ammazzamento di capi, cangiamento di padroni in qualche paese, li chiamavano le rivoluzioni del mondo, e i racconti delle loro faccende li chiamavano le storie del mondo, e sì non erano altro che d’una specie d’animali, quando ce ne saranno state e ce ne saranno ora altrettante (…)». In questa “operetta morale” gli animali fanno volentieri a meno dell’uomo; contraltare all’apologo leopardiano il cunto devitiano ‘A casa nno timpuni, nel quale il poeta racconta di una casa abbandonata su un’altura (timpuni) divenuta ormai rifugio di animali di varie specie (uccelli, ragni, tarli, poiane, fagiani, topi, ramarri, scarafaggi, tonchi, zecche flosce, vermi, pidocchi). Portato dal vento d’ottobre vi entra un ragazzo: 

‘U picciottu chi vinni nna dda casa
 – una sira r’ottùviru, vintusa –
avia una triricina
r’anni: una mattulidda
nne masciddi e i capiddi
rrizzi. 

Si addormenta rannicchiato questo ragazzotto, e così per molti giorni farà all’imbrunire; gli animali lo aspetteranno, i tarli smetteranno di rodere il legno delle travi, delle porte e delle finestre. Si stabilisce tra uomo e bestia una relazione affettiva: corvi e falchetti osservano il giovane arrivare dando avviso così agli altri animali della casa. Un giorno però il ragazzo fuggirà spaventato dalla casa, un piviere infatti vi entra dal camino provocando scompiglio generale: non vi tornerà mai più, si spezzerà l’incanto della relazione uomo-bestia, i tarli ricominceranno a rodere indefessi il legno, mano a mano cadranno le porte, le finestre, infine crollerà la casa intera.

La storia dei due gemelli (I minzudda) ci riporta al mito letterario dello scambio, del doppio, pensiamo ai Menecmi o alla Calandria di Dovizi da Bibbiena, alla shakespeariana Commedia degli errori. I due gemelli Matteo e Mattia vivono a Cutusio e sogliono scambiarsi i nomi e i ruoli a scuola: uno è bravo, l’altro discolo, così il bravo aiuta il discolo a scuola ma a forza di scambiarsi continuamente nomi e ruoli, i due non sapranno più chi è Matteo, chi Mattia. Un giorno la tragedia: uno dei due gemelli, Mattia o Matteo non si sa, muore cadendo da una scala. Rimarrà l’altro (Mattia o Matteo) che a scuola sarà una volta discolo, l’altra bravo. Questa storia ha riferimenti quali le fiabe di Perrault e ci rimanda anche al tema dei gemelli nella produzione letteraria di Michel Tournier.

og__id10301_w800_t1685955003__1xSe è vero, come scrive Foucault, che «L’esperienza della scrittura è inscindibile dalla ripetizione di un discorso che già da sempre mormora in noi, da un insieme di pratiche che ci costituiscono» [15], sentiamo chiaro il discorso umano di De Vita, la sua parola scarnificata, soppesata e meditata. Una parola antica, una ricerca di un’altra dimensione nella quotidianità leggiamo nei Cùntura e in generale nell’opera tutta di De Vita. Come Vincenzo Consolo, egli cerca sempre “parole non imposte dal potere”, visioni ci ridona di un tempo altro senza mai fuggire dalla consistenza della storia e dai luoghi nei quali la storia, le storie, hanno fondamento: la sua generosa proposta poetica va collocata così accanto ai grandi piccoli luoghi di una straordinaria tradizione letteraria quali Tursi per Albino Pierro, Pieve di Soligo per Andrea Zanzotto, Caivano di Achille Serrao, San Fele di Assunta Finiguerra. Come efficacemente ha scritto Eugenio Mazzarella a proposito della poesia: 

«Questo strano fatto emerso dalle voci del niente, dai silenzi che si urtano nel grande mare prima di ogni cosa, prima che ci sia “cosa”, albero, frutto e mano, che coglie la mela amara di saperlo ‒ questo strano fatto, in cui qualcosa si prende addosso la vita, o se la trova, e dice “Io”, mentre nomina il mondo, è la poesia. Cioè noi, nella nostra sostanza di parola. Il “mondo” (essere, noi, cose) è istituzione di parola. Di questa istituzione linguistica del mondo, la poesia (quella dei poeti “necessari”) è la custodia. Custodia della soglia del senso, nella carne del mondo» [16]. 

Così si può dire della poesia di Nino De Vita, una poesia necessaria oggi più che mai, una poesia “vera”, che scava dentro le cose, che parla di noi.

Il ragazzino Chiaparotta (‘U Chiaparotta) vive in mezzo agli angeli che gli appaiono in un giardino: figure di ali, piccole voci, presenze salvifiche come accade di leggerne in Rocco Brindisi. Aspetto centrale, nel Rocco Brindisi poeta e in De Vita, è ancora una volta la lingua della poesia, questo dialetto che è luogo fisico, quartiere o contrada, strada o “timpa”: un dialetto fecondo e risonante, avulso da qualsivoglia tentazione folclorica perché, come ha scritto Ombretta Ciurnelli, «in contesti linguistici complessi e in continua evoluzione, con il progressivo stingersi di antiche parlate e con prognosi infauste sulla loro stessa sorte, a essere scelte dai poeti sono a volte lingue vergini, strappate a secoli di oralità (…) mai scritte prima e, quindi, prive di tradizione letteraria» [17]. Ci sentiamo di aggiungere a quanto scritto dalla Ciurnelli che lo strumento dialettale, la poesia stessa e il racconto sono per Nino De Vita scelte etiche in primo luogo: la memoria di parole e cose è l’antidoto più potente contro il dilagare ancora oggi e sempre più cruentemente della guerra, dei tanti “emblemi di un’età di violenza”, della disumanizzazione dell’essere umano. 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024 
Note
[1] Nino De Vita, Cùntura, Le Lettere, Firenze 2023
[2] Cùntura è un progetto che finora ha conosciuto tre tappe: la prima rimonta al 1999, un’edizione questa fuori commercio in duecento copie stampate per gli amici; una seconda edizione è stata approntata da De Vita nel 2003 per i tipi di Mesogea e, in fine, l’edizione per Le Lettere dalla quale provengono le citazioni.
[3] Nino De Vita, Solo un giro di chiave, il Palindromo, Palermo 2021: 62 e 63.
[4] Ibidem: 30 – 32 con tagli.
[5] Cfr. Lu dialettu e lu curle, in Cristianziano Serricchio, Lu curle, Campanotto Editore, Udine 1997: 12
[6] Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione, Adelphi, Milano 2017: 13
[7] Cfr. Eleonora Conti, “Tacchini e pennuti da cortile” in Animali della letteratura italiana, a cura di Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi, Carocci Editore, Roma 2009: 254.
[8] Cfr. la voce “attaciatu” in Antonino Traina, Nuovo vocabolario Siciliano – Italiano, Giuseppe Pedone – Lauriel Editore, Palermo 1868: 96
[9] Cfr. lo scritto di Antonio Pane Liber animalium, presentazione dello studio di Fernando Marchiori intitolato Negli occhi delle bestie, Carocci editore, Roma 2010.
[10] Ivano Ferrari, Macello, Einaudi, Torino 2004
[11] Cfr. Carlo Tosetti, Wunderkammer, Pietre vive Editore, Locorotondo (BR) 2016
[12] Cfr. Il canto del corvo, in Ranocchi sulla luna, Einaudi, Torino 2014: 189
[13] Ecco la traduzione del brano scritta da De Vita: «(…) E apriva, / chiudeva – respirando – / le branchie. / La fame… avevo fame…, mormorò / il meschinello, con la voce / fessa. //Gaspare si portò le mani in testa. / Antonio salì / impaurito sopra / un masso. / Lo scorfano, inarcandosi, / incominciò a saltare, / a torcersi, a girare… / E mentre i due mocciosi / guardavano lui sfinì. / Un ecce homo! Il sangue, / dalla bocca, lacerata, si allargava / sull’occhio. / Ebbe un brivido di / freddo. // Quello che successe / in seguito non lo sappiamo. // Antonio raccontò che lo scorfano / si mise a dire “il mare… il mare… il mare…”».
[14] Cfr. la voce a cura di Bruno Capaci Pesci, crostacei, ostriche e sirene in Animali della letteratura italiana, a cura di Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi, op. cit.: 192.
[15] Michel Foucault, Il pensiero del fuori, SE, Milano 1998: 68 e 69.
[16] Eugenio Mazzarella, Perché i poeti. La parola necessaria, Neri Pozza, Vicenza 2020: 7
[17] Ombretta Ciurnelli, Introduzione a Dialetto lingua della poesia, Edizioni Cofine, Roma 2015: 8.

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Nicola Grato, laureato in Lettere moderne con una tesi su Lucio Piccolo, insegna presso le scuole medie, ha pubblicato tre libri di versi, Deserto giorno (La Zisa 2009), Inventario per il macellaio (Interno Poesia 2018) e Le cassette di Aznavour (Macabor 2020) oltre ad alcuni saggi sulle biografie popolari (Lasciare una traccia e Raccontare la vita, raccontare la migrazione, in collaborazione con Santo Lombino); sue poesie sono state pubblicate su riviste a stampa e on line e su vari blog quali: “Atelier Poesia”, “Poesia del nostro tempo”, “Poetarum Silva”, “Margutte”, “Compitu re vivi”, “lo specchio”, “Interno Poesia”, “Digressioni”,“larosainpiù”,“Poesia Ultracontemporanea”. Ha svolto il ruolo di drammaturgo per il Teatro del Baglio di Villafrati (PA), scrivendo testi da Bordonaro, D’Arrigo, Giono, Vilardo. Nel 2021 la casa editrice Dammah di Algeri ha tradotto in arabo per la sua collana di poesia la silloge Le cassette di Aznavour. Con Giuseppe Oddo ha recentemente pubblicato Nostra patria è il mondo intero (Ispe edizioni).

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