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Lo sguardo da vicino. La lezione di Antonino Buttitta

001di Laura Faranda 

Pubblicato lo scorso settembre dalle edizioni Museo Pasqualino, torna a rivivere Ideologie e folklore, un libro di Antonino Buttitta edito nel 1971, che ha tracciato per la generazione di chi scrive significative piste innovative e nuove sponde riflessive di un’antropologia “in stile italiano”. Come avverte nella prefazione alla nuova edizione Antonino Cusumano, la ristampa di un libro non è mai casuale: a volte asseconda urgenze editoriali, altre volte onora memorie, altre ancora irrompe improvvisamente come «epifania, provocazione, illuminazione». In questo caso si può dire che l’elemento epifanico e illuminante stia tutto nella fecondità di un ripensamento critico cui il libro ci convoca, suggerendo per un verso linee di continuità e di dialogo con temi di ineludibile attualità, per altro verso lasciandoci intendere il valore dirompente e le istanze innovative del transito che in quegli anni si andò compiendo della materia demologica nell’antropologia culturale.

In questa prospettiva Ideologie e folklore diventa anche un prezioso strumento didattico per i nostri giovani in formazione, tanto più se rivisitato – come propone Francesco Faeta nella sua postfazione – nello scenario di una coeva produzione italiana: il volume venne dato alle stampe dieci anni dopo La terra del rimorso di Ernesto de Martino (1961), quattro anni dopo Occidente e Terzo mondo di Vittorio Lanternari (1967), cinque anni dopo Il folklore come cultura di contestazione di Luigi M. Lombardi Satriani (1966), sei anni dopo I dislivelli interni di cultura nelle civiltà superiori di Alberto M. Cirese ed Etnologica di Vinigi L. Grottanelli (1965) e nello stesso anno in cui uscirono Il consumo del sacro  di Clara Gallini e Le feste dei poveri di Annabella Rossi (1971). Si trattava di una produzione destinata a segnare il panorama formativo della generazione del Sessantotto: è ancora Faeta a segnalare come tutte queste opere «in forme diverse, con dissimili prospettive e con differente intensità, dialogano o interagiscono con de Martino e, in particolare, con la sua trilogia meridionalista».

Non così per Ideologia e folklore, che si discosta da questa tendenza e affiora come un libro solitario, impegnato anzitutto ad affrancare la demologia dalle ipoteche dell’idealismo crociano e dalle angustie del marxismo o dello storicismo a-dialettico; un libro consacrato al bisogno di «ridisegnare il profilo (e i confini) degli studi di tradizione popolare, a partire da un’imprescindibile nozione di intimità culturale». Intimità, anzitutto, con la cultura siciliana, che diventerà tratto rappresentativo dell’intera cifra critica di Antonino Buttitta, anticipando in qualche misura la svolta riflessiva e auspicando il recupero del folklore come parte della nostra cultura, come strumento di difesa contro il trionfo dell’homo oeconomicus e della società di massa. C’è un’intenzione dichiaratamente politica nella breve premessa di Buttitta e ce n’è una inequivocabilmente etica nella celebre epigrafe demartiniana che accoglie il lettore (ma io entravo nelle case dei contadini pugliesi come un ‘compagno’, come un cercatore di uomini e di umane dimenticate istorie…), nonostante la distanza dell’autore dalle posizioni teoriche dell’etnologo napoletano.

Il volume raccoglie saggi scritti anche in anni antecedenti alla pubblicazione, accomunati non tanto da una continuità tematica quanto da una precipua intenzione: l’assunzione del folklore – al di là dalle molteplici prospettive con cui è stato ideologicamente osservato nelle diverse stagioni storiche – come un universo decifrabile nel segno della competenza ma anche della “appartenenza” di chi intende metterne a giorno qualsiasi scenario di senso. Perché ciò sia possibile è necessario eliminare la distanza tra cultura osservante e cultura osservata, diffidare dell’onnipotenza euristica di uno sguardo cautelato da opportune distanze di sicurezza, rifuggire dallo stereotipo di una alterità astratta o remota, che per ciò stesso si offre all’esercizio delle più diverse istanze ideologiche.

L’articolazione interna dei saggi inclusi nel libro onora per un verso gli intenti appena richiamati, per altro verso lascia affiorare la biografia intellettuale dell’autore. I primi tre capitoli (Pitrè e la mafia; Benedetto Croce e il folklore; L’evoluzione ideologica di Giuseppe Cocchiara) tracciano il profilo storico della letteratura demologica siciliana ma al tempo stesso evidenziano il debito teorico di Buttitta nei confronti di Cocchiara, il cui magistero lo incoraggia a quel confronto con l’etnologia europea che egli stesso sperimentò alla scuola di Marret; lo autorizza a rigenerare, come ci segnala Cusumano «le illustri eredità  con i grandi maestri della tradizione glottolinguistica di cui non dimenticherà mai la lezione».

Vito Santangelo

Vito Santangelo

Nei capitoli successivi (Macingu, numen, mana; La festa dei morti in Sicilia; Rime e canti siciliani del Risorgimento; I canti della Resistenza) si accrescono e si specificano le suggestioni teoriche che eleggono la Sicilia a terreno di ricerca preferenziale, ma al tempo stesso si annuncia la stagione di studi incentrata sull’approccio strutturalistico, sulle invarianze soggiacenti a un universo di segni che anticipa la sua svolta semiotica. Ne è esempio la rigorosa esplorazione linguistica che Buttitta dedica a un termine dialettale (macingu) deportandolo in chiave comparativa nel mana melanesiano e verso il numen latino. Da un inveramento etnografico delle espressioni dialettali in cui lo si rileva, il termine assume tanto una chiara personificazione del diavolo, quanto una locuzione che designa oscure forze malefiche e impersonali. Tanto basta per autorizzare Buttitta a una ricognizione diacronica degli studi dedicati al concetto melanesiano di mana, che lo legittima ad avventurarsi sulle concordanze con il termine latino numen, che a sua volta rinvia (ben oltre la personificazione nel nume) a quella forza neutra, segreta e impersonale che permea l’attività divina ma anche, talora, l’azione dei comuni mortali.

Nell’ultima sezione del libro (Le storie di Vitu Santangilu; Musei folkloristici e vita popolare; Per una storia degli studi sull’arte popolare) la linea di congiunzione tra passato e futuro volge al compimento. La parabola narrativa del cantastorie Vito Santangelo connette Buttitta (ce lo ricorda ancora Cusumano) con quel mondo «che aveva imparato a conoscere e ad amare come vocazione intellettuale ereditata dal padre, come naturale sviluppo di un’intensa e sentimentale frequentazione con quella Sicilia contadina che il poeta Ignazio ha cantato nei suoi versi». E tuttavia il suo sguardo sarà destinato a prolungarsi presto nelle analisi serrate delle strutture morfologiche e ideologiche dei repertori dei cantastorie siciliani, che lo vedranno confrontarsi con le categorie narrative di Propp e con la semiotica strutturale Gremais.

Anche l’approccio alla museografia folklorica e all’arte popolare inaugura in queste pagine una prospettiva del tutto pionieristica: le forme artistiche delle fasce folkloriche appaiono definitivamente affrancate dai cascami dell’idealismo crociano e dalle retoriche di un provincialismo estetizzante. Dopo aver denunciato il ritardo della ricerca italiana in questo settore di studi, Buttitta propone un modello museografico nel quale ogni oggetto o manufatto si faccia specchio concentrante e strumento permanente del contesto ideologico, sociale, culturale da cui si origina. E dell’arte popolare invoca una specificità che nulla ha a che vedere con “l’infanzia dell’arte”, ma che chiede una rigenerazione interdisciplinare (antropologica e storico-artistica) consapevole e avvertita della ricchissima tradizione di studi dedicati.

Antonino Buttitta e Alberto M. Cirese

Antonino Buttitta e Alberto M. Cirese

Di questi repertori ci offre uno strumento preziosissimo (anch’esso decisamente pionieristico) con l’ultima sezione del libro, Contributo a una bibliografia degli scritti sulle arti popolari. Si tratta di un repertorio bibliografico che Buttitta annuncia come «un primo tentativo in vista di una bibliografia più completa», segnalando nella scheda che lo introduce una approssimazione che a tutt’oggi ci appare ingenerosa. In trentacinque pagine si succedono circa mille e duecento titoli di opere dedicate all’arte popolare che Buttitta racchiude in singole voci identificative: dai titoli generali, teorici e bibliografici a quelle suddivise per aree geografiche (italiane, europee ed extraeuropee) o per peculiarità tematiche (arte dei pastori, arte devota, ceramiche, barche, carri, costumi, dolci e pani, ex voto, ecc.). Si tratta di un lavoro ricognitivo gigantesco, soprattutto se si pensa che è stato realizzato in anni in cui nessun motore di ricerca supportava l’artigianato umile e infaticabile della ricerca stessa. 

Rileggere oggi Ideologie e folklore non è quindi solo un omaggio all’eredità di un grande studioso; è anche un viaggio di ritorno, fecondo e necessario, a una stagione nella quale l’antropologia italiana non aveva ancora rinunciato al principio e al metodo inclusivo di saperi, competenze, apporti critici desumibili dallo studio delle tradizioni popolari. È un esercizio di “empatia culturale” che ci consente di rigenerare – anche in una prospettiva (mi si perdoni il termine) militante  – quello sguardo da vicino che per decenni ha contrassegnato lo stile etnografico italiano e che oggi dovrebbe convocare le nuove generazioni alla salvaguardia della memoria, al valore democratico delle pratiche di tutela e valorizzazione di un patrimonio culturale che si interroghi sul principio di stratificazione diacronica e sincronica, sulle fasce e i dislivelli interni che caratterizzano a tutt’oggi qualsiasi cultura. Nel segno di questa persistenza dovremmo tornare a insegnare (e forse re-imparare) la materia folklorica; dovremmo incoraggiare i nostri giovani – nella didattica e nella ricerca – alla riscoperta di una etnografia densa e continuativa del nostro patrimonio, di un folklore finalmente liberato dalle ideologie e dalle “bandiere evanescenti” del passato e del presente. 

Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023

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Laura Faranda è professore ordinario di Antropologia culturale all’Università di Roma “Sapienza”. I suoi temi di ricerca comprendono l’antropologia del mondo antico; l’antropologia simbolica, con particolare attenzione al rapporto tra corpo, identità di genere e linguaggio delle emozioni; l’antropologia dei processi migratori; l’etnopsichiatria e la psichiatria coloniale; le minoranze etnico-religiose e i processi di mediazione culturale tra Italia e Tunisia, fra presente e passato. È autrice di numerose pubblicazioni. Tra le monografie recenti: Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia antica (2009); La Signora di Blida. Suzanne Taieb e il presagio dell’etnopsichiatria (2012); Non più a sud di Lampedusa. Italiani in Tunisia tra passato e presente (a cura di, 2016), Anime assenti. Sul corpo femminile nella Grecia antica (2017); Guardami. Visioni, narrazioni, anatomie del seno (con S. Minetti, 2019).

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