Stampa Articolo

Lo “sbirro del capo”. Riflessioni preliminari su un nuovo campo di ricerca

 

(foto Ebbets)

(foto Ebbets)

di    Tommaso India

Sono arrivato nel magazzino siciliano in una calda mattina di luglio. Attorno al capannone di circa 5000 m2 soltanto campagna brulla, sterpi e qualche pecora arginata da recinti acconciati con vecchie reti di letti e qualche metro di filo spinato. Tutto somigliava ben poco a quello che si potrebbe definire un polo industriale sviluppato. Il mio compito qui era quello di supportare e integrare la manodopera locale, quest’ultima composta da quindici operai, nel trasferimento del magazzino di componenti elettrici dalla zona di Capaci (Pa) a quella di Catania.

La popolazione di fabbrica aveva un’età media abbastanza bassa – soltanto tre dei miei colleghi superavano i quaranta anni di età – ed erano tutti provenienti dai quartieri popolari di Palermo. Alcuni di loro avevano passato qualche anno in galera per reati come la rapina, furto con scasso e spaccio di stupefacenti, altri ancora avevano almeno un parente in prigione perché legato alla malavita organizzata siciliana e nazionale. Per questi motivi “l’etica della strada”, il metro di giudizio basato sui valori criminali e machisti era abbastanza diffuso e accettato dai miei colleghi. Ed è sempre per questo motivo che arrivare in questa comunità con la nomea di “sbirro del capo”, come nel mio caso, non ha aiutato il mio inserimento fra i lavoratori del magazzino. Inserimento ulteriormente difficoltoso vista la delicata situazione in atto legata al trasferimento.

La decisione di  trasferire il magazzino, data dal fatto che i maggiori volumi di vendite per il cliente che commercia il materiale elettrico del nostro sito si era spostata nella Sicilia Orientale, ha creato non pochi problemi e tensioni nel percorso esistenziale e sociale dei lavoratori locali. L’azienda, nella particolare situazione verificatasi, ha infatti deciso di trasferire la forza-lavoro nella città etnea fornendo ai lavoratori una diaria di 8 euro al giorno, attribuiti solo in caso di presenza sul posto di lavoro di almeno sei ore, e un buono pasto giornaliero di 5,20 euro. Nonostante questi incentivi, però, la notizia del trasferimento, nella maggior parte dei casi, non ha incontrato l’entusiasmo dei miei colleghi, che non potendo o volendo portare con loro le famiglie sono stati costretti ad organizzarsi in appartamenti condivisi fra loro. Questa soluzione, se da un lato ha creato le condizioni per un risparmio economico, dall’altro ha aumentato le inevitabili tensioni e contrapposizioni fra i diversi gruppi.

Come precedentemente accennato, il mio arrivo sul posto di lavoro fu immediatamente interpretato dai colleghi secondo una duplice linea: da alcuni ero percepito come “lo sbirro del capo”, intendendo con “capo” il responsabile del sito locale; da altri, visto il mio arrivo direttamente dalla sede centrale dell’azienda a Torino, ero percepito come “lo sbirro del Capo” arrivato nel magazzino siciliano non solo per controllare e rendere conto dell’operato della manodopera, ma anche del responsabile del sito, naturalmente, in quanto rappresentante dell’Autorità aziendale sul posto, mal visto dalla maggior parte dei miei colleghi. In ogni caso, il peso degli sguardi diffidenti su di me mi ha accompagnato durante le prime settimane di lavoro.

1.La prima mansione cui sono stato assegnato in questo contesto era nel reparto di ricevimento dei materiali da stoccare. Ogni singolo elemento che entrava in magazzino doveva essere controllato, sia al livello quantitativo sia qualitativo, e registrato, con l’ausilio di un terminale, all’interno del database aziendale nazionale. La mia postazione di lavoro era perciò costituita da un tavolo su cui era poggiato il pc e, alle mie spalle, la zona di lavorazione. Alla mia sinistra si trovava la postazione di Benedetto [1], un ragazzo di origini palermitane, ma cresciuto a Roma (motivo per cui era soprannominato U Romano). Benedetto è anche appartenente alla famiglia che, prima dell’arrivo dell’azienda per cui lavoro, aveva la proprietà della cooperativa che gestiva il magazzino. A questa famiglia fortemente legata ad ambienti mafiosi è stato possibile rescindere il contratto solo con la nazionalizzazione del sistema di lavorazione dei materiali elettrici del nostro cliente. Benedetto ha trentatré anni ed oltre ad avere studiato scenografia a Roma, negli anni in cui abitava nella capitale, ha anche seguito lezioni di kick boxing fino a conseguire il brevetto di istruttore e ad esercitare, grazie alle sue conoscenze delle tecniche di combattimento, anche l’attività di buttafuori in alcune discoteche delle zona. Benedetto, infine, era anche malvisto dalla maggior parte dei nostri colleghi. Il suo carattere spigoloso, diretto e soggetto a continui sbalzi di umore, lo rendeva inviso e indisponente ai suoi interlocutori. Inoltre, il suo bisogno di essere continuamente alla ricerca dell’apprezzamento dell’Autorità lo rendeva spesso mellifluo e doppiogiochista nei confronti dei responsabili del sito e dei suoi colleghi. La sua appartenenza alla famiglia proprietaria della cooperativa che aveva in gestione il magazzino negli anni passati, infine, lo identificava come uno dei padroni che tendevano a derogare spesso ai patti taciti e alle regole scritte su cui si basava l’organizzazione del lavoro nel sito.

Nella postazione alla mia destra, invece, lavorava Matteo. Quarantasette anni, sposato e padre di due figlie, Matteo è un soggetto dal passato turbolento. Nato e cresciuto nel quartiere Borgo Nuovo di Palermo, una delle zone più periferiche della città, ha passato otto anni della sua giovinezza in carcere per rapina, furto di auto e spaccio di stupefacenti. Uscito dal carcere e sposatosi in seguito ad una fuitina, Matteo ha cercato di inserirsi nella società praticando anche diversi mestieri. Ha lavorato a Rovigo, nel campo dell’edilizia, e, in seguito al suo rientro a Palermo, ha cominciato ad esercitare la mansione di corriere per conto di una importante catena di distribuzione di giornali della città fino ad approdare nel magazzino nei primi anni del 2000. Matteo, a differenza di Benedetto, aveva un carattere più costante e gioviale, continuamente pronto a scherzare e a prendere in giro qualunque tipo di Autorità si presentasse sotto il suo tiro. Tutte queste caratteristiche, a cui si aggiungevano quelle acquisite durante gli anni vissuti secondo le regole della malavita (rispetto per i sodali, evitare di fare la spia con i superiori, tacita complicità e solidarietà), lo rendevano un buon compagno di lavoro e un amico per molti dei miei colleghi. Grazie alla progressiva confidenza e relazione basata sull’ironia con quest’ultimo lavoratore, nel corso delle settimane, ho via via migliorato il rapporto con i miei colleghi, entrando lentamente a far parte della comunità di lavoratori e a scrollarmi infine di dosso il pesante fardello dello “sbirro”.

2L’accettazione all’interno di questa comunità di lavoratori è avvenuta gradualmente ed è ancora molto difficile per me poter dire con precisione quali siano stati gli strumenti grazie ai quali quella accettazione è avvenuta. Indubbiamente la familiarità con i codici comunicativi e comportamentali propri dei miei colleghi, acquisiti durante gli anni in cui ho frequentato e abitato i quartieri del centro storico di Palermo, e le mie pregresse esperienze di lavoro come cameriere a contatto con molti colleghi palermitani, mi hanno aiutato durante le prime fasi di ingresso in questa nuova comunità di lavoratori. È, tuttavia, a seguito di alcuni episodi, due dei quali riporto qui di seguito, che ritengo di avere dimostrato ai miei colleghi che non ero quello che loro pensavano.

Il primo episodio riguarda un breve e ironico alterco avvenuto, a circa due settimane dal mio arrivo nel sito siciliano, con Benedetto. Ho già detto della sua tendenza a cercare di entrare nelle grazie dei responsabili del magazzino, anche mettendo in cattiva luce gli altri lavoratori. Questa abitudine, inoltre, si accompagnava alla pratica di sopraffazione che Benedetto esercitava su soggetti dal carattere un po’ più timido e remissivo, e soprattutto su un nuovo collega, cioè io, identificato come “l’ultimo arrivato”. Una mattina in cui, forse per la stanchezza, non tenni a freno la mia lieve balbuzie, Benedetto notò subito la cosa, urlando, per farsi sentire da tutti gli altri colleghi, nel suo dialetto romano: «Ma che cazzo fai balbetti… nun se capisce niente!». Mi resi subito conto che se non avessi risposto a tono, la mia accettazione nella comunità di lavoratori sarebbe stata messa a rischio e sarei subito stato identificato come una persona debole e incapace. Decisi perciò di stroncare immediatamente sul nascere il palese attacco di Benedetto rispondendo: «Grandissimu curnutu e sbirru ca un si autru, si chinu di ticchi e dici a mia ca chicchìu?!»[2] , palesando, in questo modo, agli occhi di tutti e di Benedetto soprattutto, i suoi evidenti problemi fisici. La mia risposta ebbe l’effetto di ammutolire Benedetto e, allo stesso tempo, di far scoppiare Matteo, presente durante l’episodio, in una fragorosa risata. Inoltre, appena Benedetto si allontanò visibilmente irritato, Matteo mi si avvicinò dicendomi: «Fusti troppu corna duri. U facisti zìttiri subitu!»[3]. L’accaduto presto arrivò alle orecchie degli altri lavoratori che durante tutta la giornata di lavoro si avvicinarono divertiti.

Un altro episodio riguarda un contrasto canoro, messo in scena da Matteo e volto a insinuare il mio presunto ruolo di “sbirro del capo”. Nel rispetto dei canoni sonori dei canti del carcere [4], Matteo eseguì la sua performance intonando un canto in cui sostanzialmente veniva detto che, se durante il furto di alcune matasse di rame, verificatosi in magazzino alcuni mesi prima, fosse stato presente probabilmente u sbirru di Torino, cioè io, lo avrebbe mandato subito in galera. Anche in questo caso ritenni che la migliore soluzione alla sfida implicitamente lanciata dal mio collega fosse quella di rispondere ironicamente e seguendo le sue stesse modalità di espressione. Decisi perciò di intonare un canto, naturalmente non all’altezza della tecnica messa in atto dal mio collega, in cui affermavo per esagerazione che se ci fossi stato io non solo avrei mandato in galera lui, ma anche tutti i nostri colleghi, compresi i vertici aziendali, rei tutti quanti di arricchirsi sul mio lavoro. La risposta anche in questo caso divertì Matteo, il quale, presumo, non si aspettasse l’esasperazione rovesciata della sua stessa insinuazione.

Questi ed altri episodi dimostrano chiaramente come inserirsi nei contesti lavorativi sia un processo problematico e fatto di continue negoziazioni, contrasti e conflitti che possono rendersi espliciti seguendo molteplici modi espressivi. Dal punto di vista etnografico, ad ogni modo, diversi sono gli studiosi che sono stati spinti ad analizzare i luoghi del lavoro cui partecipavano o che conoscevano per la prima volta [5]. Non è casuale, a mio avviso, questo interesse verso lo studio dei contesti di lavoro, dal momento che questi particolari ambiti di ricerca permettono, in maniera più sistematica e organica rispetto ad altri, un’analisi etnografica scientifica dei fatti sociali.

Malinowski e gli aborigeni

Malinowski e gli aborigeni

Esercitando lo stesso lavoro dei soggetti [6] che si intende studiare, il paradigma malinowskiano dell’osservazione partecipante mostra, infatti, un aspetto che solo raramente è stato messo in luce dai teorici delle tecniche di ricerca antropologica: il carattere fondamentalmente risocializzante dell’esperienza etnografica. La risocializzazione dell’etnografo, in sostanza, si configurerebbe come una nuova fase di apprendimento dei basilari protocolli comportamentali sociali, necessari affinché il gruppo ospite possa anche superficialmente accettare il nuovo arrivato. Come ha recentemente notato Chiara Pussetti:

«Gran parte di quanto si comprende delle norme che informano il comportamento dei propri ospiti deriva dunque da un lento processo di “risocializzazione” emozionale che è un passaggio indispensabile per abituarsi a valutare e ad agire appropriatamente nelle varie situazioni nelle quali ci si viene ogni giorno a trovare: una socializzazione evidentemente più critica e problematica di quella primaria in quanto, a differenza di un bambino, l’antropologo possiede già disposizioni e paradigmi comportamentali di riferimento» [7].

La risocializzazione all’interno di un nuovo contesto, soprattutto se si tratta di un contesto in cui è necessario imparare un nuovo lavoro, è un processo lento, che l’autrice tende a definire “emozionale” ma che forse è più corporale. Le non poche difficoltà che presenta sono dovute principalmente al fatto che questa risocializzazione si va a sommare ad una diversa socializzazione pienamente e intimamente costituente dell’etnografo.

Questa ulteriore difficoltà delle ricerche etnografiche è stata definita da Leonardo Piasere come la “curvatura dell’esperienza etnografica”, che consisterebbe nell’allontanamento da un ambiente e da una rete di rapporti familiari da parte del ricercatore per immergersi completamente in un ambiente e in una rete di rapporti poco familiari o addirittura sconosciuti, tale da configurarsi come una fase di cesura esistenziale e sociale [8].

In etnografia, però, è questa curvatura dell’esperienza, questo sradicamento dal noto, dal familiare che rende possibile la ricerca. Sono, in definitiva, lo stupore e la difficoltà del mondo, che il processo di risocializzazione necessariamente implica, a rendere possibile i resoconti etnografici e a portare i fatti sociali e le storie delle persone che li hanno compiuti in luoghi lontani e sconosciuti, rendendoci, in qualche modo, davvero “sbirri”.

Dialoghi Mediterranei, n.10, novembre 2014
Note
1      In questo caso come negli altri a seguire si tratta di nomi di fantasia.
2    «Grandissimo cornuto e sbirro che non sei altro, sei pieno di tic [nervosi] e dici a me che balbetto».
3    «Sei stato troppo corna dure. Lo hai zittito immediatamente!». A margine di questo episodio è da notare l’uso sia da parte mia nella risposta a Benedetto, sia da parte di Matteo, dei termini corna e cornuto. Senza volermi dilungare troppo, mi limito a rimandare qui al saggio di Salvatore D’Onofrio (2004, Autour de la Règle, in L’esprit de la parenté, Éditions de la Maison des Sciences de l’homme, Paris, pp. 31-55, in part. pp. 42- 47) dove l’autore analizza il valore simbolico delle corna in alcuni contesti storico-culturali del Mediterraneo.
4    Per approfondimenti cfr. Pennino G. (a cura di), 2002, Canti popolari di carcere e mafia. Canti raccolti e presentati da  Antonino Uccello, Centro Regionale per l’inventario, la catalogazione e la documentazione, Palermo.
5    Solo a titolo di esempio e senza nessuna pretesa di esaustività cfr. Anderson N., 1923, The Hobo. The sociology of the homeless man, The University of Chicago Press, Chicago-London; Burawoy M.¸1979, Manufactoring consent. Changes in the labor process under monopoly capitalism, The University of Chicago Press, Chicago-London; Blum J., 2000, Degradation without deskilling. Twenty-five years in the San Francisco shipyards, in  Burawoy M. et al., Global Ethnography. Forces, connections, and imaginations in Postmodern World, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London, pp. 106-136; Perrotta D., 2011, Vite in cantiere. Migrazione e lavoro dei rumeni in Italia, Il Mulino, Bologna.
6    Sul concetto di soggetto in antropologia cfr. Ortner S., 2005, Subjectivity and cultural critique in «Anthropological Theory», n. 5 (1), pp. 31-52.
7   Pussetti C., 2010, Emozioni, in Pennacini C. (a cura di), La ricerca sul campo in antropologia. Oggetti e metodi, Carocci, Roma, pp. 257-286, p. 271.
8    Cfr. Piasere L., 2009, L’etnografia come esperienza, in Cappelletto F., (a cura di), 2009, Vivere l’etnografia, SEID, Firenze, pp. 65-95; Piasere L., 2002, L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia, Laterza, Bari-Roma.
_____________________________________________________________
 Tommaso India, attualmente si occupa di antropologia del lavoro con un particolare riferimento ai  processi di deindustrializzazione e precarizzazione in corso in Sicilia. Si è laureato nel 2010 in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo con una tesi intitolata Aids, rito e cultura fra i Wahehe della Tanzania, frutto di una ricerca etnografica condotta nelle regione di Iringa (Tanzania centro meridionale). Dal 2012 è dottorando in Antropologia e Studi Storico-linguistici presso l’Università degli Studi di Messina.
______________________________________________________________
Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>