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L’ideologia del progresso illimitato. Le Esposizioni internazionali da ieri a oggi

 Parigi 1889

Parigi 1889

di   Rosario Lentini  

Il fatidico giorno dell’inaugurazione dell’Expo 2015 è finalmente arrivato, dopo un lungo periodo di grancassa mediatica, costellato da problemi di ogni genere (ambientali, tecnici, politici, giudiziari, ecc.) che hanno messo a dura prova la credibilità e la già malconcia immagine del nostro Paese al cospetto delle nazioni partecipanti. In queste righe non si proporrà una mini-guida all’evento, né l’analisi dei costi/benefici (non solo finanziari) sostenuti/ottenuti – operazione, peraltro, molto più complessa delle semplificazioni da bar e delle polemiche da talk-show – che gli economisti più attrezzati potranno compiere “a freddo”, quando la polvere sin qui sollevata diventerà sedimento stabile.

Può essere utile, invece, svolgere qualche considerazione sulla genesi e sul senso di una manifestazione planetaria che da 165 anni è diventata appuntamento irrinunciabile; considerato tale sia da quella élite di nazioni che aderì alla prima esposizione universale di Londra nel 1851, sia dalla platea vastissima di 145 Paesi che in questi mesi saranno presenti a Milano, rappresentativi del 94% della popolazione mondiale.

Fino al 1933 le 21 Esposizioni internazionali e/o universali organizzate in Europa (5 volte a Parigi, 2 a Londra, Bruxelles e Barcellona; 1 a Vienna, Liegi, Milano, Ghent/Gand), negli Stati Uniti (2 a Chicago, 1 a Philadelphia, Saint Louis e San Francisco) e in Australia (a Melbourne) non scontavano alcun coordinamento preventivo ed erano promosse autonomamente nei singoli Stati, i quali invitavano altri Paesi a parteciparvi. In questa prima serie di appuntamenti (1851-1933) l’evento era contrassegnato da un’indicazione tematica che poteva essere mirata – come nel caso di Londra 1851: “Esposizione universale del lavoro industriale di tutte le nazioni”; o di quella viennese del 1873, “Cultura e educazione”; o di quella parigina del 1889, “Celebrazione del centenario della Rivoluzione Francese” (per l’occasione venne costruita la torre Eiffel) – oppure generica: “Agricoltura, industria e arti”. In ogni caso, l’appellativo internazionale o universale era utilizzato in modo indifferenziato.

Londra 1851

Londra 1851

Solo nel 1928, per iniziativa francese, si diede vita ad un organismo (il BIE, Bureau International des Expositions, con sede a Parigi) cui si attribuì il compito, per convenzione internazionale, di organizzare le esposizioni secondo uno specifico protocollo che sarebbe stato emanato nel 1933, integrato e poi modificato nei decenni successivi. In questi protocolli si è andata determinando la sostanziale differenza tra le esposizioni internazionali e quelle cosiddette universali: le prime, “specializzate”, quindi, monotematiche; le seconde, “generali” nelle quali si dovevano mostrare i progressi compiuti nei diversi campi dell’attività umana. Dal 1996, invece, si è introdotto un nuovo criterio: si distinguono le Esposizioni internazionali/universali “registrate” (come quella di Milano 2015) a frequenza quinquennale, con una durata di almeno 6 mesi e senza limiti di spazio espositivo; e quelle “riconosciute”, meno impegnative e rilevanti, a tema specifico e della durata di tre mesi.

Per comprendere meglio l’origine delle Esposizioni internazionali occorre, però, contestualizzarle nel rispettivo periodo, tra le coordinate che misurano l’andamento delle parabole demografica, economica, scientifica e culturale delle nazioni organizzatrici e del complessivo contesto europeo. É necessario un salto indietro nel passato, non solo nella Londra del 1851, ma ancor prima nell’Inghilterra di inizio ‘700, cioè ai primi passi di quel processo meglio noto come Rivoluzione industriale. Quando nel 1712 il meccanico inglese Thomas Newcomen costruì la prima macchina a vapore per sollevare acqua da una miniera di carbone, la popolazione dei tre continenti Europa, Asia e America si attestava a circa mezzo miliardo di abitanti e la Gran Bretagna si avviava a diventare la nazione più evoluta sul piano delle innovazioni tecnologiche e industriali. La produzione seriale di fabbrica, la formazione di un esercito operaio irreggimentato da una preordinata organizzazione e divisione del lavoro, lo sviluppo del sistema capitalistico quale motore potente della nuova economia mondiale, si sarebbero imposti nel volgere di pochi decenni grazie all’interazione di diversi fattori (disponibilità di risorse energetiche, di materie prime, di capitali mercantili e di forza lavoro, sviluppo del pensiero scientifico e tecnico, trasporti fluviali interni efficienti, ecc.). L’Inghilterra agricola, quindi, scopriva la sua nuova vocazione industriale che l’avrebbe portata alla guida del mondo moderno per molti decenni. «La scienza – ha scritto lo storico dell’economia  David S. Landes – costituì un ponte perfetto fra la razionalità e il dominio; rappresentò l’applicazione della ragione alla comprensione dei fenomeni naturali e, col tempo, di quelli umani; e rese possibile una più efficace risposta o manipolazione dell’ambiente naturale e umano»[1].

 Vienna 1873

Vienna 1873

Il processo di innovazione tecnologica subì una significativa accelerazione lungo tutto il Settecento e cominciò a essere emulato dalle altre nazioni del vecchio Continente in una competizione che non si sarebbe più arrestata. La borghesia imprenditoriale europea a metà ‘800 assumeva di fatto la leadership sociale fino a quel momento detenuta dall’aristocrazia e determinava non soltanto le nuove regole del liberismo economico, ma anche i nuovi valori della cultura industriale, considerata fonte inesauribile di progresso materiale, civile e persino morale. Perciò, sotto le volte trasparenti del Crystal Palace di Londra, alla prima grande Esposizione del 1851 si celebrarono i traguardi raggiunti dal sistema produttivo, primo fra tutti da quello britannico. Due anni prima, il principe Alberto, consorte della regina Vittoria, aveva annunciato il progetto espositivo con la dovuta enfasi: «Le distanze che separano le diverse nazioni e parti del globo vanno gradatamente sparendo dinanzi ai portenti di moderna invenzione […]. Signori! L’Esposizione del 1851 sarà verace testimone e vivente pittura del segno raggiunto progressivamente dall’intero genere umano». A queste dichiarazioni trionfalistiche, facevano da contrappunto le considerazioni del trentunenne Karl Marx, allora residente a Londra, che così commentava sagacemente: «Questo grande convegno mondiale di prodotti e produttori […] è la rude prova che la forza concentrata della grande industria moderna ovunque distrugge le barriere nazionali e vieppiù cancella nei caratteri dei singoli popoli le particolarità locali della produzione e dei rapporti sociali»[2]. Che vi fosse una dialettica reale tra il celebrazionismo narcisistico del progresso industriale conseguito dalle nazioni che di volta in volta ospitavano le esposizioni, e lo sviluppo simultaneo di un’ideologia sociale antagonista, è confermato dalla storia europea della seconda metà dell’800 e dei primi decenni del secolo successivo.

Milano 1906

Milano 1906

Se la precedente Esposizione internazionale di Milano svoltasi nel 1906 fu inaugurata il 28 aprile, quella odierna si colloca in singolare sovrapposizione con la festa internazionale dei lavoratori che si celebra ogni 1° maggio sin dal 1890, a ricordarci un’altra genesi e un’altra storia, una storia parallela e speculare. Infatti, mentre a Parigi nel 1889 si svolgeva la grandiosa Esposizione universale (5 maggio – 31 ottobre), il 14 luglio, nella capitale francese si tenevano pure due congressi operai che avrebbero promosso l’idea di una manifestazione annuale che accomunasse tutti i proletari del mondo attorno all’obiettivo della riduzione per legge dell’orario giornaliero di lavoro a 8 ore. Così, in quell’anno di trionfo della borghesia industriale di fine secolo, si ponevano le basi di un internazionalismo operaio che denunciava lo sfruttamento disumano del proletariato di fabbrica di cui non vi era alcuna traccia tra i padiglioni degli Expo universali.

Dal 1851 ad oggi, ovviamente, è cambiato molto e le Esposizioni internazionali – almeno nelle intenzioni – si pongono obiettivi sempre più centrati sulle questioni vitali e decisive per le sorti dell’umanità e del pianeta Terra. Si è passati dalla fase esaltante dei successi industriali e aerospaziali alle riflessioni sullo sviluppo sostenibile. Nel 1993 il tema dell’Expo coreano di Taejon era “La sfida di una nuova strada verso lo sviluppo”; cinque anni dopo, a Lisbona si ragionava di “Oceani. Un’eredità per il futuro”; nel 2005, nella nipponica Aichi, si indagava su “La saggezza della Natura” e, in ultimo, nel 2010 nella popolosa Shangai si affrontava la questione urbana per eccellenza: “Città migliore, vita migliore”. FOTO4 In verità, non sembrerebbe che le nazioni più progredite abbiano sin qui fatto del loro meglio per smentire l’aforisma secondo cui la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Tutt’altro. È il caso di ricordare che sin dalla fine degli anni Sessanta del ‘900, grazie all’impegno dell’italiano Aurelio Peccei, attorno al quale si aggregarono scienziati e intellettuali di diverse nazioni, per dar vita al Club di Roma, la riflessione sui limiti dello sviluppo è entrata a pieno titolo e con prepotenza nel dibattito internazionale e negli studi delle più prestigiose università e dei più importanti centri di ricerca.

Il tema di Milano – “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” – dovrebbe valere da imperativo categorico per i governi, anche se la montagna di interessi privati delle multinazionali dell’agro-alimentare e le speculazioni di borsa sugli approvvigionamenti cerealicoli rischiano di ampliare le disuguaglianze tra Paesi opulenti e nazioni immiserite dalle guerre e dalle precarie condizioni igienico-sanitarie. A tre secoli di distanza dalla macchina a vapore di Newcomen, gli esseri umani sul pianeta sono aumentati di 14 volte, superando il livello di sette miliardi e si avviano a raggiungere quota nove miliardi già nel 2045. Questa prospettiva imminente e la questione dell’utilizzo sostenibile delle risorse del Pianeta saranno oggetto di approfondimenti importanti nei tavoli programmati dell’Expo, ma dovranno attivare un circuito virtuoso di iniziative coordinate tra gli Stati, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Un passaggio preliminare importante e apprezzabile è stato già fatto nei mesi scorsi con la stesura della “Carta di Milano”, un documento frutto di un ampio dibattito che ha coinvolto non solo la comunità scientifica, ma anche le istituzioni e numerose organizzazioni della società civile. Il messaggio condiviso è inequivocabile: ogni cittadino, impresa o governo deve assumersi la responsabilità di garantire alle generazioni che verranno il diritto a potersi nutrire. Non ci sono più alibi ed è tempo di lasciarsi alle spalle i finti programmi di sostegno ai Paesi in via di sviluppo che si sono rivelati fallimentari. Bisogna evitare di copiare il canovaccio delle periodiche conferenze sul clima, a conclusione delle quali si assume l’impegno a contrastare l’effetto serra con rigorosi provvedimenti a carico dei Paesi più progrediti, salvo poi a verificare che la temperatura della nostra atmosfera continua a salire. Si rischia, cioè, di assumere con ritardo decisioni che, invece, sono urgenti e che, comunque, per diventare operative e produrre effetti positivi richiederanno del tempo.

5.Il noto fisico e cosmologo inglese Stephen Hawking, non sospetto di catastrofismo, alcune settimane fa, è tornato a ribadire un suo convincimento circa la necessità di pensare a colonizzare altri pianeti se si vuole garantire la sopravvivenza della specie che è a serio rischio di estinzione.  Secondo lo scienziato, infatti, la crescita demografica può vanificare sia il tentativo di mitigare il clima, sia quello di razionalizzare la produzione e la distribuzione delle derrate alimentari.

Inoltre, «la fine dell’umanità potrà arrivare da un’aggressione da parte della stessa specie umana. Il problema principale da correggere è appunto l’aggressività […] che ora rischia di distruggerci, magari con una grande guerra nucleare che potrebbe costituire la fine della nostra civiltà»;

da qui, prosegue lo scienziato, l’esigenza di moltiplicare i viaggi nello spazio che «potrebbero essere un’assicurazione sulla vita per la nostra specie in futuro» [3]. Se, dunque, queste sono le questioni con cui già le menti migliori fanno i conti, è tempo che anche i mediocri si diano una mossa.

Dialoghi Mediterranei, n.13, maggio 2015
 Note

1        D. S. Landes,  Prometeo liberato, Einaudi, Torino 1978: 34-35
2        cit. da J. Gubler, Percorso attraverso le esposizioni internazionali nella seconda metà dell’Ottocento, in Storia del disegno industriale, Electa, Milano 1990: 12
3       S. Hawking, “Colonizzare altri pianeti è l’unica salvezza per l’umanità”, in “La Repubblica”, 20 febbraio 2015

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Rosario Lentini, studioso di storia economica siciliana dell’età moderna e contemporanea. I suoi interessi di ricerca riguardano diverse aree tematiche: le attività imprenditoriali della famiglia Florio e dei mercanti-banchieri stranieri; problemi creditizi e finanziari; viticoltura ed enologia, in particolare, nell’area di produzione del marsala; pesca e tonnare; commercio e dogane. Ha pubblicato numerosi saggi anche su riviste straniere; ha presentato relazioni a convegni in Italia e all’estero; ha curato e organizzato alcune mostre documentarie per conto di istituzioni culturali e Fondazioni.

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Una risposta a L’ideologia del progresso illimitato. Le Esposizioni internazionali da ieri a oggi

  1. Augusto Marinelli scrive:

    Articolo lucidissimo, che accompagna il lettore nell’attraversamento di oltre due secoli di storia universale rintracciandone un filo logico che permette di ricostruirne il senso. E in questo ennesimo momento irrazionale della nostra storia non era facile.

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