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Le mille iniziative dell’Italia spopolata

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di Mariano Fresta 

Dopo tanti libri sulle aree e i paesi spopolati e misconosciuti che spesso hanno il tono della nostalgia, ecco un testo in cui si parla delle mille iniziative, di singoli e di gruppi, che nascono nel segno della spontaneità e che cercano di dar vita a quei luoghi che per vari motivi sono stati abbandonati recentemente sia dagli abitanti, sia da quelle politiche, nazionali e regionali, basate su idee di sviluppo tendenti a privilegiare gli insediamenti urbani. Non che in esso siano assenti pagine in cui i ricordi e le espressioni sentimentali prevalgono sul resto, ma il suo aspetto più importante è dato sia dall’atteggiamento militante dell’Autore, sia dai racconti i cui protagonisti sono persone che, non accettando la visione del mondo odierna, tentano di creare situazioni di vita finalizzate alla rinascita di zone la cui storia è degna di non essere interrotta.

L’autore del volume, L’Italia vuota. Viaggio nelle aree interne (Editori Laterza, Bari 2023) è Filippo Tantillo, un ricercatore indipendente che lavora per Enti pubblici e che ha svolto indagini sociologiche per conto della Strategia Nazionale delle Aree Interne. Tale Ente, nato nel 2012 su proposta dell’allora ministro Fabrizio Barca (governo Monti), ha lo scopo di «dare risposta ai bisogni di territori caratterizzati da importanti svantaggi di natura geografica o demografica». Quei territori, continua il documento di fondazione dell’Ente,

«fragili, distanti dai centri principali di offerta dei servizi essenziali e troppo spesso abbandonati a loro stessi, che però coprono complessivamente il 60% dell’intera superficie del territorio nazionale, il 52% dei Comuni ed il 22% della popolazione. L’Italia più “vera” ed anche più autentica, la cui esigenza primaria è quella di potervi ancora risiedere, oppure tornare» [1].

Dietro il volume di Tantillo c’è, dunque il pensiero di Fabrizio Barca, economista e fautore di uno sviluppo economico e sociale capace di correggere le distorsioni e le contraddizioni del neoliberismo, che è stato assunto e promosso in Italia negli ultimi trent’anni da politici, imprenditori, giornalisti. “Meno stato e più mercato” è lo slogan che ha oscurato qualsiasi voce di denuncia dei pericoli cui si va incontro quando tutto si fa all’insegna del profitto privato. Con il risultato che chi non ha le forze per potere stare al passo finisce per essere abbandonato a sé stesso, sia come singolo sia come collettività.

In apertura di volume, infatti, l’Autore denuncia che, per impedire o quanto meno limitare il declino di tanta parte del Paese, non ci sia mai stato un qualsiasi intervento da parte dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni; anche dopo l’epidemia di Covid, con cui si è toccato, per necessità, il punto più basso dell’inerzia politica, non si è sentito il bisogno di guardarsi attorno e vedere di rimediare agli errori del passato. Anzi, la ripresa è stata iniziata in continuità con le politiche precedenti, come se il blocco causato dall’epidemia fosse stato una breve e innocua parentesi da non prendere in nessuna considerazione.

Tantillo, davanti a questa totale e piuttosto scandalosa cecità, vuole dimostrare che tutte quelle aree considerate ormai perdute, hanno una vitalità e una volontà di ripartire che andrebbero sostenute. Per questo il suo sguardo è privo di quella nostalgia che talvolta intride le illustrazioni dei paesi abbandonati: sono poche, infatti, le pagine in cui si lascia andare a considerazioni sentimentali e altrettanto poche sono quelle occupate da riflessioni e analisi storiche: il racconto di esperienze pratiche fatte in prima persona o da altri impegnati come lui nei progetti SNAI o nate autonomamente costituiscono la parte cospicua del volume.

Il contenuto del libro è ripartito in sette capitoli intitolati a sette colori (Smeraldo, Rosso, Verde, Argento, ecc.) a cui corrispondono sette zone dell’Italia: Le Valli occitane, Il fiume Simeto e la piana di Catania, L’Appennino centrale, La costa ionica della Calabria, Le Dolomiti orientali, I confini mobili del Molise, ed infine La Sardegna centrale. Alcune di queste zone sono già state illustrate da altri Autori, per esempio la Tarpino per il Piemonte occidentale, Vito Teti per la Calabria, e come i molti studiosi che si sono occupati dell’Italia centrale dopo i tragici eventi sismici.

18700619_1058563964243576_7242599315180112148_oSi parte, dunque, dalle Alpi occitaniche. L’area è già stata studiata da Antonella Tarpino (Il paesaggio fragile, Einaudi, Torino 2016), tanto che sul piano delle considerazioni storiche si trovano notizie già presenti nelle pagine della studiosa, ma Tantillo riesce a individuare alcuni temi misconosciuti, come il tradizionale patriarcato di quelle comunità alpine, che potrebbe essere stato una delle cause dello spopolamento, perché esso è sentito come minaccia per il futuro, tanto da indurre i giovani, specie le donne, a fuggire altrove, dove trovare possibilità di studio e di lavoro. «Chi non aveva strumenti economici, educativi, psichici è rimasta incastrata in sistemi culturali, familiari, linguistici particolarmente retrogradi», scrive Angela Rizzo, citata da Tantillo.

In questa parte del libro comincia ad essere presente, come leit-motiv di tutta l’opera, la denuncia relativa all’assenza dello Stato, o del Pubblico, come lo chiama l’Autore: in questo caso fa sue le parole del presidente dell’Uncem Piemonte: «investire in aree interne significa fare un salto di paradigma, e in giro non c’è ancora consapevolezza di quale sia il valore reale di questa Italia “vuota”». Ma ad ascoltare queste riflessioni sensate non c’è il Pubblico, non c’è la Regione Piemonte che sembra essere distratta da altri problemi, né ci sono i Comuni, troppo piccoli per poter gestire una situazione di così enorme portata. E il guaio è che talora il Pubblico, anziché sostenere le nuove forme di attivismo sociale, reagisce con modi di paternalismo umiliante, quando non usa la forza «come succede in Val di Susa … contro i movimenti che si oppongono alla linea dell’Alta Velocità Torino-Lione».

Le cose non cambiano se si scende al Sud, in Sicilia, lungo il corso del Simeto e nella Piana di Catania. È vero che qui sottotraccia esiste una certa forma di resistenza ereditata dalle lotte dei Fasci di fine ‘800, è tuttavia altrettanto vero che la cultura politica è spesso collusa con la mafia, o ha in sé caratteristiche mafiose che non permettono di sviluppare quelle soluzioni innovative che potrebbero aiutare a crescere o, almeno, a non decrescere. Un gruppo di ricercatori di Ingegneria e Architettura dell’Università di Catania, per esempio, ha avuto l’idea di costruire una mappa di comunità in cui le persone sono chiamate a tracciare i luoghi più significativi, quelli che sono in pericolo di essere persi e quelli che si desiderano per il futuro. Un modo, cioè, di coinvolgere la gente nella salvaguardia dei paesi. Ma per il momento l’iniziativa non ha avuto sbocchi.

Centuripe

Centuripe

La posizione geografica della Sicilia e soprattutto le pendici dell’Etna, nella fascia che va dal livello del mare fino a circa 1.500 metri di quota, hanno la prerogativa di offrire ambienti adatti a coltivare «avocado e fragole a pochi chilometri di distanza, ad altitudini diverse, passando attraverso frutta di tutti i climi»; se si utilizzassero meglio queste risorse naturali, sarebbe più facile superare la crisi della monocultura agrumicola della Piana. Ma anche in questo settore le buone idee non appaiono applicabili, per cui le iniziative di un preside di un Istituto alberghiero di Centuripe, che dirige un presidio di una ricca cultura alimentare, rimangono isolate.

E poi c’è la mafia: l’oasi di Ponte Barca, gestita dalla LIPU, costituita da una zona umida, diventata punto di riferimento per milioni di uccelli migratori, potrebbe offrire tante possibilità di lavoro, ma «la criminalità organizzata che si muove intorno allo smaltimento illecito dei rifiuti ha tutto l’interesse a scoraggiare la frequentazione dell’area».

Oltre alle ceramiche di Centuripe, nella zona un’altra fonte di reddito è dovuta alle cave di pietra lavica che, segata opportunamente e scalpellinata, è utilizzata per lastricare strade e piazze, per diventare pietre ornamentali e cinte di case rurali. Oppure è lavorata per farne piastrelle e oggetti di arredamento. C’è però un problema: nelle cave gli scalpellini lavorano in un silenzio che «impedisce le lamentele, l’organizzazione sindacale, ma anche la trasmissione dei saperi».  Dalle cave questo clima di silenzio si diffonde anche in altri ambienti e facilita la riprovevole abitudine del lavoro in nero, grazie anche a politici disonesti e a teorici del lavoro clandestino. La zona di Bronte, dove si coltivano quasi esclusivamente i pistacchi, è quella in cui il lavoro nero raggiunge i picchi più alti e dove l’intermediazione del lavoro è l’affare più redditizio per la mafia.

Anche il capitolo terzo riprende molti temi già trattati da altri autori: l’Appennino centrale, dopo le sciagure dei terremoti, ha richiamato l’attenzione, infatti, di economisti, architetti, urbanisti, sociologi che hanno poi trasferito sulla carta le loro impressioni, i loro suggerimenti, le loro proposte per la ricostruzione. I terremoti, paradossalmente, hanno prodotto un’esplosione di notevoli energie intellettuali che hanno avuto però il difetto di essere spontanee e di promuovere iniziative di base: tutto ciò è bastato per non essere prese in considerazioni ed essere esautorate dalla burocrazia statale e dalla miopia politica. Spesso, per ragioni elettoralistiche, invece di sperimentare cose nuove, si preferisce tornare al passato, dando così ragione a quell’imprenditore edile che nella notte del terremoto dell’Aquila telefonava ad un amico e rideva perché pensava ai profitti che gli sarebbero venuti grazie alla ricostruzione.

In quelle zone Tantillo ha incontrato molti “rientranti”, cioè persone che hanno abbandonato la città e sono venuti a vivere secondo schemi “rurali” e comunque alternativi; molti l’hanno fatto per scelta ideologica, altri per nostalgia della campagna, altri ancora per necessità. Il fenomeno del “rientro” è stato più forte dopo la pandemia del covid, e ha dato luogo a forme collettive di gestione agraria, spesso basate sulla filiera corta, sull’agricoltura biologica, sul recupero di coltivazioni tradizionali.                   

Questa zona appenninica si caratterizza per la presenza di ben quattro parchi  nazionali e tre parchi regionali: «Quest’insieme di aree protette rappresenta il più riuscito progetto di tutela del vertice della catena alimentare del continente  (…) ma  in Italia i parchi sono istituzioni deboli» e non riescono a resistere ai tentativi aggressivi della cementificazione: gli speculatori non danno peso al riscaldamento globale, i politici sono insipienti quando non sono inclini a soddisfare gli appetiti degli imprenditori.

9788855224413_0_536_0_75Nonostante ciò, c’è ancora qualcuno che pensa che disegnare “cammini” e tracciare nuovi sentieri da percorrere a piedi, collocando lungo il percorso bed&breakfast e rifugi vari, possa aiutare a sostenere economicamente il territorio e possa rallentare la corsa del “progresso”. Si tratta sempre di soluzioni marginali che difficilmente incidono sul sistema economico del Paese. Ne è cosciente anche Tantillo che a pagina 75, unica volta in tutto il libro, parla esplicitamente di “lotta al neoliberismo”.

Anche la Calabria è stata oggetto di lunghe considerazioni da parte di Vito Teti (Il senso dei luoghi, Donzelli, Roma, 2014): la regione, quanto mai afflitta nel corso degli ultimi secoli da terremoti e alluvioni, detiene il triste primato della presenza di numerosi paesi abbandonati o semiabbandonati e paesi doppi, cioè paesi ricostruiti dopo la sciagura a poca distanza dall’antico abitato, con risultati deludenti, perché gli abitanti dei nuovi  centri, nell’assenza dell’antica rete di relazioni sociali, ci vivono ma senza possedere un qualsiasi senso di appartenenza.     

L’attenzione di Tantillo si rivolge poi al versante Ionico-Serre, territorio per il quale è stato finanziato un progetto della Strategia delle Aree interne, presentato nel 2021 dopo una gestazione quadriennale durante la quale i sindaci dei comuni interessati «hanno litigato su tutto: su quali scuole investire, se dare priorità alla sanità o ai trasporti, al turismo o all’agricoltura». Il titolo del progetto (Restanza) vorrebbe essere indicativo dello scopo per il quale è stato approntato, ma a parere di Tantillo esso è generico, inconsistente e privo di una visione generale della situazione. L’unico pregio è quello di essere stato scritto bene. Che sia un progetto vecchio, che guarda al passato, lo dimostra il fatto che esso fa appena un cenno alle esperienze più significative che in quella zona sono state effettuate nei centri storici di Camini, Badolato e Riace.    

Locride

Locride

A raccontare la storia di queste cittadine è proprio Tantillo, con pagine che forse esulano dal tono del saggio, che suggeriscono, però, quale tipo di rinascita si sarebbe potuto sviluppare se l’esperienza, specie quella di Riace, non fosse stata interrotta con un atto amministrativo piuttosto brutale. Le altre pagine relative alla Calabria parlano poi di progetti irrealizzabili imposti dall’alto e dell’incapacità della popolazione ad organizzarsi per chiedere servizi. La situazione della Locride è particolarmente desolante e fa presagire per tutta la regione un futuro senza speranza.

Il tema dei cambiamenti climatici è sempre presente nelle argomentazioni di Tantillo: se si vuole veramente cambiare sistema di vita occorre trovare il modo di fronteggiare il fenomeno e nello stesso tempo trovare nuovi modelli economici e di esistenza che salvaguardino l’umanità e insieme il pianeta. Così, quando affronta l’analisi del territorio delle Dolomiti orientali, l’Autore introduce gli argomenti  con le considerazioni del botanico Stefano Mancuso sulle piante e sul loro rapporto con l’uomo.

9788858135815_0_536_0_75Il riferimento a Mancuso non è arbitrario, perché i boschi delle Dolomiti orientali da secoli hanno fornito alle popolazioni sia la legna da ardere (il cosiddetto cippato), sia alcune qualità di abete, il cui legno è particolarmente adatto a fabbricare le casse armoniche di strumenti ad arco e a corda. C’è chi ha pensato che questo legno di “risonanza” possa essere usato anche per costruire abitazioni “sonore” che aiutino a vivere in armonia con la natura. Vero è che se vogliamo salvarci dai cambiamenti climatici dobbiamo considerare le aree interne come avanguardia del prossimo sviluppo, ma forse è meglio affidarsi a progetti più realistici.

Questa zona dell’Italia ha vissuto momenti di grande tragicità che Tantillo definisce apocalissi: la prima ha coinvolto anche genti del resto d’Italia, ma è su queste montagne che si è svolta, nelle trincee e negli assalti alla baionetta, la parte più dolorosa e sanguinosa della Prima guerra mondiale. È stata una “apocalisse contadina”, dice Tantillo, in cui non è scomparso solo il mondo rurale del Veneto e del Trentino, ma anche la “civiltà” contadina di tutta l’Italia. La seconda apocalisse avvenne in una notte d’ottobre del 1963, quando una montagna crollò dentro la diga del Vajont, le cui acque spazzarono via, in poche ore, paesi, campi, uomini ed animali. Poi, l’ultima catastrofe negli ultimi giorni di ottobre del 2018: l’uragano Vaia ha sradicato milioni di piante di conifere, per decine di migliaia di ettari, provocando un immenso disastro naturale.

La tempesta Vaja nel Trentino

La tempesta Vaja nel Trentino

Su quelle montagne resiste una tradizione, forse di origine medievale, che è comune a molte zone povere e montane: è quella delle proprietà comunitarie, che si trovano un po’ dovunque, come sulle Alpi occidentali, sull’Amiata e sull’Etna. Potrebbe essere un’idea da sviluppare. Un po’ di spazio l’Autore dedica anche agli imprenditori del Comelico che si mostrano piuttosto contrari ai cambiamenti; per questo conclude che forse, al posto degli imprenditori, occorrerebbero i filosofi, capaci di coniugare il locale con il globale.

La prima cosa che Tantillo dice sul Molise è che si tratta di una regione ancora preindustriale (molisana è tuttavia la cittadina di Frosolone famosa per le sue antiche coltellerie; l’Autore ci racconta la sua ascesa e il suo declino) e che le strade a scorrimento veloce costruite per dare impulso allo sviluppo hanno accelerato invece lo spopolamento di molte zone.

Trivento, festival dell'uncinetto

Trivento, festival dell’uncinetto

Nel 2005 fu approntato il progetto Trivento, dal nome della comunità omonima, basato essenzialmente sull’attrazione turistica. Solo che la zona non ha nessuna particolarità turistica, il patrimonio artistico è povero e quasi sempre in cattivo stato di conservazione; i servizi commerciali sono assenti, i trasporti pubblici piuttosto carenti. Inoltre, non era previsto che ci fosse un’agenzia o delle persone che avrebbero dovuto realizzarlo e gestirne successivamente le attività. Si decide allora di destinare i finanziamenti a qualcosa di più realistico. Chiamati a formulare un progetto, Tantillo e i suoi colleghi hanno voluto conoscere il parere dei cittadini; per capire in quale situazione muoversi, procedono ad intervistare più di cinquecento persone che esprimono pareri alquanto diversi dalle aspettative ufficiali: le interviste vengono quindi usate per produrre un documentario da presentare in un incontro pubblico:  «I sindaci, che si aspettavano di vedere un prodotto di marketing, ne escono irritati … Un’operazione di questo genere mette a nudo la distanza tra la politica e i cittadini … Raccontare un territorio a partire dalle difficoltà per guardare al futuro suscita una sensazione di sgomento». I giovani, tuttavia, insistono, non si rassegnano ed invece di ripetere il racconto che hanno imparato a scuola cercano di inventarsene di nuovi, «per continuare a sopravvivere».

I dati economici e sociali ci danno della Sardegna un quadro piuttosto drammatico; si parla, infatti, dell’Isola come se fosse una ciambella, popolata e ricca di attività in tutto il perimetro e vuota al centro. Mentre sui litorali la popolazione è cresciuta e le attività economiche, seppur basate spesso su un turismo che non dà certezze di continuità, sono piuttosto vivaci, i paesi interni del mondo agropastorale si sono svuotati quasi del tutto: «Le motivazioni per cui i ragazzi abbandonano le aree interne sono tante e complesse: non hanno a che vedere solo con la mancanza di servizi e lavoro, ma con il senso di sentirsi invisibili in tutti i campi, dalla scuola alla politica, dalla cultura al diritto alla sussistenza. Tutto è dominato da una depressione e da sfiducia profonde».

Nel luglio del 2021 scoppia un immenso incendio nella parte occidentale dell’Isola: è un disastro ma è anche l’occasione per vedere la gente accorrere per spegnere le fiamme; è un sintomo importante che dimostra come davanti ad un evento straordinario, in questo caso il pericolo che minaccia la distruzione di un mondo naturale e contemporaneamente di una storia e di una cultura, la gente sa trovare la forza per reagire positivamente.

Ed è su questo che conta Silvia, una community manager. La Sardegna possiede una storia lunga e ancora misconosciuta, che va dai nuraghi al santuario del pozzo di Santa Cristina, dalle città puniche di Nora e Tharros alle bellezze del mare e di tutto il litorale, dai miti carnevaleschi (Bosa e i mamuthones di Mamoiada, ecc.) alle peculiari tradizioni subregionali. Se ci fosse, dice Silvia, un manager in ogni comunità capace di costruire attorno a questi temi un movimento culturale vasto, molti problemi si risolverebbero. Può darsi; ma la realtà ci dice che molti paesi sono senza sindaco e sono commissariati, che non si riesce a portare a termine una elezione, perché nessuno si fa avanti e nessuno va a votare, perché la politica è vista non come uno strumento al servizio della comunità, ma come mezzo per raggiungere un proprio tornaconto. Il concetto di polis qui sembra non avere attecchito.                                                                                                                                       

spopolamento-della-sardegnaAlla fine del libro si rimane con un senso di insoddisfazione. Le mille iniziative di cui Tantillo racconta la storia, facendoci a volte entusiasmare, finiscono spesso nel vago o nella sconfitta. Ovvio che non si tratta qui di un libro di Salgari dove alla fine gli eroi vincono e il bene trionfa: i problemi che ci sono presentati sono ingarbugliati e forse irrisolvibili in quei contesti.

L’idea di Barca, di cui Tantillo riporta un brano esplicativo della Strategia delle Aree Interne è certamente buona e, nel silenzio totale di tutte le Istituzioni politiche e amministrative e nell’assenza di altre proposte alternative, appare come una speranza di un futuro migliore. Ho l’impressione, tuttavia, che si tratti di attività episodiche e marginali che a volte possono anche essere fonti di agiatezza ma che alla lunga non scalfiscono per nulla il sistema economico che è stato costruito in Italia negli ultimi quarant’anni. Malgrado le sue intenzioni iniziali, il quadro generale che viene fuori dal libro di Tantillo è desolante e sconfortante. I tanti nobili e coraggiosi tentativi di dare una qualche risposta sembrano annegare nell’indifferenza dei movimenti politici e dei governi, preoccupati più a mantenere il potere, qualsiasi esso sia, piuttosto che cercare e trovare risposte ad una crisi che appare di sistema e non di congiuntura. Le situazioni del Molise, della Calabria e della Sardegna sono lo specchio di un’Italia in cui predominano l’insipienza della politica e il cinismo degli speculatori.

Le iniziative più o meno spontanee presenti nei territori cosiddetti abbandonati o Aree interne sono sempre da sostenere, ma appaiono velleitarie e destinate all’insuccesso, perché nate in un contesto generale in cui è più bravo non chi ha idee brillanti e magari utopistiche ma chi riesce in breve volgere di tempo ad accumulare denaro. Mentre, avrebbe detto il Machiavelli, in una repubblica ben ordinata esse sarebbero state il coronamento e l’abbellimento di una società equilibrata nella giustizia sociale, disponibile alle sperimentazioni, culturalmente aperta alla ricerca e alle innovazioni.

Per questo avremmo bisogno di osare, di rompere con i tentennamenti e con la paura di dare fastidio ai potenti; dovremmo convincerci che i problemi possono avere soluzioni alternative rispetto a quelle proposte dal cosiddetto “pensiero unico”, che ha avvelenato il sistema democratico e che ha scomunicato qualsiasi altra idea che non fosse quella proposta dai poteri forti.

Comunque, grazie a Tantillo, al suo entusiasmo malgrado tutto, con l’augurio che le Aree interne possano estendersi fino ai confini delle Alpi e dei mari che bagnano la nostra Penisola, colmando il “vuoto” e modificando in meglio tutta la Nazione. 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023 
Note
[1] https://www.agenziacoesione.gov.it/strategia-nazionale-aree-interne/

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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadinoLo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003.  Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici. E’ stato appena edito dal Museo Pasqualino il volume, Incursioni antropologiche. Paesi, teatro popolare, beni culturali, modernità.

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