Stampa Articolo

Le disavventure del “sacrificio”

copertna

Pittura vascolare greca, sec. V a.C.

 di Augusto Cavadi [*]

A una sommaria, e perfettibile, ricognizione storico-culturale sembrerebbe che la categoria del “sacrificio” abbia disegnato in Occidente, nel corso dei secoli, una sorta di curva di Gauss: accettata e praticata nel mondo antico, ha registrato una sorta di impennata di consensi nell’era cristiana per poi conoscere, negli ultimi secoli, una delegittimazione galoppante. Sino ai nostri giorni in cui la parola stessa “sacrificio” sembra intrinsecamente insensata e dunque inaccettabile. Quali le ragioni di questa sorta di parabola ascendente e discendente? E come possiamo valutare la situazione contemporanea?

I sacrifici nel mondo antico

Forse in tutte le culture antiche si praticavano sacrifici in onore degli dei: frutti e fiori, ma anche animali non-umani e perfino umani. Alcuni casi sono diventati esemplari, proverbiali: Agamennone che sacrifica agli dèi la figlia Ifigenia (per ottemperare alla promessa formulata per ottenere la grazia di venti favorevoli al ritorno in patria delle sue navi) o Abramo che arriva a un pelo dal sacrificare il figlio unigenito Isacco (per obbedire a un comando di Jahvè).

Non mancano, ovviamente, neppure nelle culture arcaiche le perplessità e le riserve critiche. Secondo qualche esegeta, ad esempio, la stessa narrazione del sacrificio di Isacco – che Dio blocca in extremis chiedendo di sostituire il ragazzo con un montone – rifletterebbe una sorta di ripensamento della prassi tradizionale dei sacrifici umani: ma non sapremo mai – anche se possiamo facilmente immaginarlo – il parere dei montoni su questo mutamento della platea di potenziali vittime.

1Il destino paradossale del sacrificio nel cristianesimo

Con il cristianesimo il tema del sacrificio subisce un passaggio paradossale: per un verso viene messo in discussione radicale, per un altro  esaltato in misura  insuperabile. Vediamo la cosiddetta [1] Lettera agli Ebrei: ogni «facitore di ponti»  (pontefice) tra Dio e l’umanità, essendo «avvolto di debolezza», «a motivo di questa deve offrire sacrifici per i peccati, come per il popolo, così anche per se stesso» (5, 2 – 3). Anche Gesù è un “pontefice”, un “sacerdote”, ma di conio nuovo, anzi inedito: «non ha bisogno, tutti i giorni, di offrire vittime prima per i propri peccati, poi per quelli del popolo, come i sommi sacerdoti, perché questo egli ha fatto una volta per tutte offrendo se stesso» (7,27). Dunque gli «ordinamenti cultuali» (9, 1) precedenti sono da considerare una cosa «resa antiquata e che invecchia», «vicina a scomparire» (8, 13). Ma l’idea di “sacrificio”, lungi dall’essere cancellata, in realtà viene riaffermata e sublimata nell’unico sacrificio di Gesù: Cristo, infatti, «non mediante sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue è entrato nel santuario una volta per tutte, perché ha trovato un riscatto eterno. Infatti se il sangue dei capri e dei tori e la cenere della vacca aspersa sui contaminati santificano, purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, il quale mediante uno spirito eterno ha offerto se stesso senza macchia a Dio, purificherà la vostra coscienza dalle opere morte per servire al Dio vivo!» (9, 11-14).

In questo trattato teologico inserito nel Secondo Testamento Gesù è ancora distinto chiaramente da Dio: man mano che la Chiesa lo riterrà sempre più “sostanzialmente” divino – insomma: Dio da Dio, divino come Dio Padre – il seme della theologia crucis qui  piantato diventerà un albero grandioso (e, a parere di molti, ingombrante). Infatti, secondo la Lettera agli Ebrei,  Cristo è entrato non «in un santuario fatto da mano d’uomo», ma «nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora davanti alla faccia di Dio per noi, non per offrire se stesso parecchie volte, come il sommo sacerdote entra nel santuario ogni anno col sangue di un altro, altrimenti egli avrebbe dovuto patire parecchie volte sin dalla fondazione del mondo», bensì «una volta sola, nella consumazione dei secoli, si è manifestato col sacrificio di se stesso per l’annullamento del peccato» (9, 24-26). Ora, se questo «sommo sacerdote» non è solo un mediatore, ma «della stessa sostanza del Padre», perché Dio avrebbe sacrificato se stesso o – per così dire – un Altro se stesso?

Dall’inizio del secondo millennio in poi si diffonde come ortodossa una bizzarra tesi di sant’Anselmo d’Aosta: la  morte di Gesù è un  sacrificio voluto dal Padre per riparare il danno infinito del “peccato originale” mediante la sostituzione del proprio Figlio al posto dei veri colpevoli, gli esseri umani. D’altronde, essendo la gravità di un’offesa misurabile sulla base non della consistenza ontologica dell’offensore, quanto della dignità dell’Offeso, chi altri se non un Dio avrebbe potuto rimediare all’offesa infinita nei confronti di Dio?

2Il tema del sacrificio nei due millenni cristiani

Sarebbe troppo lungo soffermarsi sulle conseguenze di questa lettura della croce nella mentalità e nella psicologia – conscia e inconscia – di intere generazioni cristiane (cattoliche, ortodosse, anglicane, protestanti): sensi di colpa; accettazione masochistica del dolore nella propria esistenza (implicante, per esempio, diffidenza nei confronti delle cure palliative e, a maggior ragione, del suicidio assistito); pulsioni sadiche camuffate da amore del prossimo  («Bruciamo sul rogo il tuo corpo vivo per purificare la tua anima»)…

Vorrei solo evidenziare come questa idolatria del sacrificio si è estesa ben al di là dei confini ecclesiali ed è stata, per così dire, secolarizzata da ideologie molto lontane dal cristianesimo. Mio padre, ad esempio,  non è mai stato un credente praticante. Eppure, nelle sue lettere ai genitori, durante il servizio militare al tempo del Fascismo, tornano spesso espressioni come questa: «la solita vita che impone dei sacrifici e delle rinunzie – e attraverso di essi corrobora il carattere e completa la personalità: vita che va accettata con spirito di disciplina e con ferma, cosciente volontà» . Negli stessi anni diventava giustamente celebre, su un fronte culturalmente opposto,  il discorso di Winston Churchill alla Camera dei Comuni il 13 maggio 1940 in cui chiedeva ai cittadini della Gran Bretagna «sangue, fatica, lacrime e sudore» per neutralizzare la terribile minaccia del nazismo tedesco. Ma neanche l’attualità è avara di esempi: vivere di “sacrifici», o per lo meno affrontare periodi di “sacrifici”, è considerato un vanto nei necrologi di padri e madri esemplari la cui vita è stata – almeno nella sintesi idealizzante dei congiunti -  «interamente dedicata alla famiglia e  al lavoro».

Lo sguardo critico odierno

Eppure, se non vedo male, nell’orizzonte socio-culturale contemporaneo la parola “sacrificio”, e quel che più conta il concetto evocato dalla parola, non gode di buona salute. Anzi, lo si nomina essenzialmente per affermare che è da stolti (o da fanatici fondamentalisti) ricercarlo e, se proprio ci sbattiamo il muso contro, è da saggi attraversarlo velocemente per lasciarselo quanto prima possibile alle spalle.

Come mai questa parabola, ascendente e discendente, dell’idea di “sacrificio”? Oggi le quotazioni di quest’ultimo sono basse perché siamo diventati tutti meno coraggiosi e più egoisti? O non ci sono state delle acquisizioni antropologico-filosofiche e teologiche che ci hanno resi più avvertiti, più criticamente vigili, nei riguardi di questa categoria e delle sue implicazioni psico-sociologiche?

Allo stadio attuale delle mie riflessioni propenderei per questa seconda ipotesi. Infatti, da una parte, la stessa etimologia del vocabolo – sacrum facere, rendere sacro ciò che di per sé non lo sarebbe   evoca un processo affascinante: nel panificio si fabbrica pane, nel pastificio si fabbrica pasta; il sacrificio è il “luogo” in cui si fabbrica il sacro. Dall’altra parte, però, il sacrificio la produzione del sacro – è intriso di violenza: non è un caso che in latino sacrum significhi “sacro” (come opposto a profano) ma anche “esecrando” (nel senso di odioso, di riprovevole: auri sacra fames in Orazio è la «maledetta fame di oro»).

3L’antropologo René Girard ha meditato a lungo su questa natura violenta del sacro: non per caso un suo saggio fondamentale si intitola La violenza e il sacro. Qui leggiamo, ad esempio, che «la violenza e il sacro sono inseparabili. L’utilizzazione ‘astuta’ di alcune proprietà della violenza, specie della sua tendenza a spostarsi da oggetto a oggetto, si dissimula dietro il rigido apparato del sacrificio rituale» [2]. E ancora: «Il sacro sono le tempeste, gli incendi e le foreste, le epidemie che decimano una popolazione. Ma è anche e soprattutto, pur se in maniera velata, la violenza degli uomini stessi , la violenza posta come esterna all’uomo e confusa ormai con tutte le altre forze che gravano sull’uomo dal di fuori. È la violenza che costituisce il vero cuore  e l’anima segreta del sacro» [3].

Anche la teologia è diventata sempre più lucida nel denunziare la teologia della riparazione per sostituzione alla sant’Anselmo d’Aosta. Scrive, ad esempio, nel suo testamento teologico, a proposito della «mistica del patire», uno dei biblisti italiani più apprezzati dalla comunità scientifica  (e, dunque, più  perseguitato dalle gerarchie vaticane):

«La reinterpretazione in senso sacrificale della morte di Gesù in croce ha introdotto nella mentalità popolare e ufficiale una elevazione, quasi una sacralizzazione, della sofferenza, vista più come un bene, un favore, una grazia, che una carenza, un male; ma Gesù non sembra dello stesso avviso. Egli si affretta a dare la risposta più ovvia ma che non sempre i suoi vicini e lontani discepoli sembrano essere riusciti a capire o ad accettare. Essi infatti si sono lasciati prendere più dalla mistica o dal mito del sacrificio, dell’oblazione all’Altissimo, del valore espiatorio della sofferenza, perciò di ogni dolore, più che dalla testimonianza perentoria, inequivocabile del loro maestro. Gesù non ha mai esortato nessun malato che si è rivolto a lui a rassegnarsi alla sua situazione di disagio, di condanna, ma l’ha aiutato a venirne fuori, a liberarsene. Non ha pensato a ‘santificare’ il dolore […]. Al contrario Gesù ha introdotto nella storia della spiritualità la norma, che ognuno dovrebbe fare propria, che il dolore non è un bene. Non piace a chi ne è colpito ma neanche a Dio né al suo Cristo. Una lezione più che evidente ma che la comunità dei suoi seguaci, l’ufficialità credente, ha stentato a capire e sembra ancora non voler comprendere perché continua a ripete slogan per lo meno blasfemi (‘il Signore fa soffrire quelli che ama’) e davanti alle ‘disgrazie’ più laceranti o assurde invita chi ne è colpito a rassegnarsi alla volontà divina […]. Il dolore di Gesù, la sua passione e morte, non sono la sofferenza di chi si immola alla divinità, ma di chi si sacrifica per il bene, la felicità dei propri simili. Egli ha messo in palio la propria esistenza non perché Dio sia ripagato delle offese ricevute, ma perché i propri eguali, i fratelli imparino a vivere in tranquillità, giustizia e pace, fra di loro, liberi dalla povertà, dal limite del male così come dalle angherie dei perturbatori dell’ordine pubblico» [4].

Un giudizio teorico-pratico affidato alla responsabilità personale

Nell’attuale contesto di delegittimazione del sacrificio come tassello di vita esemplare ognuno di noi è chiamato a prendere posizione. Un primo orientamento  è di reagire alla inaccettabile enfatizzazione della dimensione sacrificale dell’esistenza propendendo per la mera cancellazione di questa categoria antropologica.  È opportuna la transizione da un regime di imperialismo del sacro a un regime di secolarizzazione totale in cui non ci sia più nulla di sacrum facere, di rendere sacro (o di riconoscere come tale)?

Personalmente propendo per ritenere che una società in grado di cancellare ogni traccia di “sacrificio” non sia possibile. Se non capisco male il testo, troppo raffinato per le mie attuali capacità di lettura, di Peter Sloterdijk sulla “antropotecnica”, è quanto sostiene egli stesso in Devi cambiare la tua vita:  per esempio là dove avverte che «in qualunque luogo si incontrino membri del genere umano, essi rivelano ovunque i tratti di un essere condannato a compiere una fatica surreale. Chi cerca esseri umani troverà acrobati»[5]. Ma ne sanno già abbastanza i miei con-umani che trascorrono notti all’addiaccio per poter acquistare all’alba l’ultima versione dell’i-phone; fanno ressa davanti ai grandi magazzini nei giorni di supersconti; percorrono in una giornata centinaia di chilometri all’andata e altrettanti al ritorno per assistere a una partita di calcio o a un concerto rock; si sottopongono a liposuzioni che sottraggono o a chirurgie estetiche che addizionano là dove le rotondità non appaiono abbastanza nella media.

4Ma, ammesso e non concesso, che una società senza sacrifici sia possibile, è anche auspicabile? Probabilmente chi cancellasse ogni traccia di sacrificio si consegnerebbe a una sorta di nichilismo edonistico autolesionistico. Infatti: non rinunziare a qualcosa nell’immediato significa preparare, alla distanza, danni a se stesso e agli altri. A se stesso: chi di noi non ha mai sperimentato il vantaggio individuale di “sacrificare” alcuni beni di lusso per acquistare una casa, alcuni cibi ingrassanti per acquistare un benessere fisico, alcune pigrizie motorie per vincere una gara sportiva…? Agli altri: come può reggersi una convivenza civile in cui ai diritti di ciascuno (in primis, il diritto al piacere) non corrisponda il dovere di nessuno? È quanto hanno intuito – più o meno esplicitamente – personaggi come Peppino Impastato, Falcone, Borsellino, don Pino Puglisi. Si noti, tra parentesi, che  non c’è naufragio sociale, collettivo, che non si riverberi negativamente sulla qualità della vita dei singoli individui ipoteticamente egoisti. Insomma, direi che l’etica del sacrificio chiede di essere rivista razionalmente più che espunta radicalmente. Rinunzia, astinenza, sofferenza non hanno valore in sé ma ne acquistano per riverbero dei “valori” in vista dei quali vengono accettate.

Il “sacrificio” può dunque mantenere, a certe precise condizioni, una legittimità filosofica e morale.  Ma direi anche, e più profondamente, che ne va riletto il senso e rilegittimata, di conseguenza, l’arte di praticarlo. Tradizionalmente, infatti, sacrificare qualcosa significa distruggerla, annientarla, bruciarla: sì, bruciarla, dal momento che l’elemento purificatore viene considerato il fuoco. Tutto ciò sottolinea l’elemento redentivo del sacrificio che presuppone, logicamente, qualcosa di negativo da cui redimersi. Lo scenario atavico e archetipico sinora vigente è dominato da un “male radicale». Ma se invece di presupporre una maledizione originaria, un “peccato originale”, con Matthew Fox presupponessimo una benedizione originaria [6], il sacrificio potrebbe assumere una valenza prevalentemente positiva: “rendere sacro” qualcosa o qualcuno potrebbe significare riconoscerne la preziosità intrinseca e promuoverla, coltivarla, farla fiorire. Accarezzarla con tenerezza. Al posto del fuoco, ricorrere all’acqua che rinfresca e ravviva.

Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2018
 [*] Il testo è servito come base per un’esposizione orale al Convegno sul tema organizzato a Marsala e Mozia, nei giorni 25-26 maggio 2018, dalla sezione meridionale  del Cipa (Centro italiano di psicologia analitica).
Note
[1] Infatti Giuseppe Barbaglio ci spiegava, ai corsi di teologia per laici organizzati in collaborazione con l’Università del Laterano, che la Lettera di Paolo agli Ebrei non è una lettera (ma un trattato di teologia), non è di Paolo (ma di un teologo anonimo) e non è agli Ebrei (ma a cristiani convertitisi dall’ebraismo).
[2] R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1986 (ed. or. 1972): 35.
[3] Ivi: 50.
[4] O. Da Spinetoli, L’inutile fardello, Chiarelettere, Milano 2018 (ed. or. 2017): 41- 43.
[5] P. Sloteridijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, Cortina, Milano 2010 (ed. or. 2009): 19.
[6] Cfr. M. Fox, In principio era la gioia. Original blessing, Fazi, Roma 2011 (ed. or. 1983). 
 __________________________________________________________________________
Augusto Cavadi, tra i pionieri della filosofia-in-pratica contemporanea, già docente  presso il Liceo “G. Garibaldi” di Palermo, è fondatore della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”. Collabora stabilmente con La Repubblica-Palermo. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica, con particolare attenzione al fenomeno mafioso, nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2010); La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); Il Dio dei leghisti  (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015); Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi ( Di Girolamo, 2018).
 __________________________________________________________________________
Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Religioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>