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L’apocalisse dei migranti: per una Teologia del Mediterraneo

copertinadi Leo Di Simone

Solitamente il termine apocalisse viene dai più travisato. La causa dell’equivoco è da attribuire alla scarsa conoscenza del mondo biblico ed all’ancora più scarsa frequentazione e comprensione dei suoi libri. Anche nella cultura cristiana. La comprensione che si ha dell’Apocalisse è quella di un testo che parla della fine del mondo nel susseguirsi di scene catastrofiche e terrificanti, enigmatiche e violente, immaginifiche e fantastiche. Solo un numero sparuto di cristiani, oltre biblisti e teologi, sa che apocalisse significa semplicemente “rivelazione”. Il termine deriva dal greco apokálypsis, composto di apó “da”, e kalýptō “coprire” o “velare”, e significa letteralmente sollevare ciò che copre nascondendo, togliere un velo, scoprire, disvelare. La ricchezza semantica della lingua greca ha coniato un altro termine, usato prevalentemente dalla filosofia, dal significato analogo e dal valore complementare: alétheia, composto dall’alfa iniziale di senso privativo e dal sostantivo léthe “oblio”, col significato di ciò che non resta nascosto o dimenticato ma si rende evidente e presente. Nelle lingue moderne viene tradotto con “verità”. Tale è dunque l’Apocalisse biblica: una rivelazione in ordine alla verità, ed è in questo senso proprio che intendo utilizzare il termine in questa riflessione “inattuale” già nell’intenzione di assumere una prospettiva ermeneutica alquanto inusuale per le comuni esegesi spiritualeggianti e politicamente disimpegnate. Sì, perché l’ultimo libro della Bibbia ci narra fatti, vicende, tribolazioni e contraddizioni delle comunità cristiane dell’Asia Minore ai primordi della loro esistenza, in un contesto sociale e politico determinato quale era quello dell’Impero romano.

Un testo duro e appassionato che non lesina critiche a quell’impero che considera una caricatura blasfema della sovranità di Dio sul mondo, una usurpazione indebita della sua signoria. Nello stesso tempo il testo assume quelle intricate situazioni storiche come archetipi, paradigmi della condizione umana di tutte le culture e di tutti i tempi attribuendogli significazione universale per via simbolica. Una narrazione tipologica in linea con tutta la Bibbia che è unica mega narrazione di un popolo che lotta contro vari imperi volendo essere fedele a Dio e non riuscendoci sempre. Che si tratti dell’Egitto dei faraoni, dell’impero Assiro o Babilonese, della Roma di Cesare o di qualsiasi altro impero, noi entriamo in quel racconto perché gli imperi hanno mutato nome e sono sempre emanazione della “bestia” che si arroga il diritto di governare il mondo a suo arbitrio, mutando di segno i paradigmi della legge divina. Per cui l’Apocalisse non è finita. Essa deve continuare ad illuminare il mondo quanto alla verità, alla bontà, alla bellezza, alla giustizia che non sono virtù umane, dal momento che l’umanità non ha saputo realizzarle in pienezza. Di fatto le realtà che ha considerato tali non hanno prodotto la felicità e il benessere del genere umano. C’è ancora qualcosa di nascosto che deve venire alla luce, qualcosa di incompiuto che deve essere portato a termine. Tra il già e il non ancora.

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Giusto de Menabuoi, La bestia dell’Apocalisse con la tiara papale (Duomo di Padova)

L’Apocalisse ci fa nutrire il sospetto che esiste una “realtà” che resta nascosta ai nostri occhi e che deve manifestarsi completamente; e che ciò che è ritenuto reale non è che vacuità e menzogna. Come se l’umanità giacesse ancora incatenata all’interno della caverna platonica a contemplare equivoche ombre sui muri della sua storia. L’Apocalisse chiarifica l’intuizione che c’è nella nostra vita di occidentali civilizzati qualcosa di più rispetto a ciò che i mezzi di comunicazione, i politici o i pubblicitari vorrebbero farci credere. Chiarifica però in modo oscuro per le nostre categorie mentali di occidentali aristotelici, poco avvezzi alla contemplazione simbolica e incapaci di considerare il fatto che siamo immersi, e fino al collo, nel fango di Babilonia, la “grande prostituta”, così come il libro si esprime. Quanto alla ricerca di una nuova città, di una “nuova Gerusalemme” mostrataci in visione, per noi non se ne parla neanche data la condizione di quella attuale che appare irreversibile politicamente e definitiva storicamente. E comunque l’indicazione di una “nuova città” per gli uomini non è utopica e metafisica ma concreta e reale se si accettano le condizioni edificative segnate nel progetto che è la rivelazione stessa. Non mi nascondo che tutto questo può apparire fantasia religiosa a quanti credono nella verità dell’autodeterminazione antropica supportata dalla forza di volontà psichica e dallo spirito di lotta. Ma quanto bisogna attendere ancora per la realizzazione dell’umano? Quanti “umanesimi” sono trascorsi senza soddisfacenti risultati? Anche la teologia cristiana si interroga su tali essenziali questioni e cerca, nella situazione attuale, vie d’uscita dalla caverna dove anch’essa si è lasciata imprigionare scambiando le ombre dell’anticreazione, proiettate dagli imperi terreni, per manifestazioni del divino.

Che siano i “migranti” a fare da supporto ermeneutico all’apocalisse che attendiamo? Che sia l’Apocalisse biblica l’interprete autorevole della loro situazione tragica e della situazione epocale in cui tutti ci troviamo? I viaggi biblici per i deserti e le tragedie di svariate etnie, le morti di questi neoesodanti “migranti” nelle acque del Mediterraneo hanno davvero sapore e colore apocalittico e da più parti la parola apocalisse viene tirata in ballo ancora, in senso catastrofico e non senza qualche scontato accento retorico. Siamo ormai abituati alle catastrofi, specie quelle che vediamo sugli schermi televisivi. Quelle che come italiani, europei, occidentali non ci toccano però più di tanto. Non nella carne, non negli affetti, non nella vita. Solo negli occhi, tra uno spot e l’altro, senza collegamenti con il cuore. Poi seguono i commenti caserecci, le illazioni giornalistiche preconfezionate, lo scandalo farisaico da cultura egemone, e più avanti la paura del ribaltamento su di noi di qualche “danno collaterale” [1] di quelle tragiche epopee che subito vengono rinominate “minacce” alla nostra incolumità, ai nostri diritti, alla nostra identità culturale da parte di un “altro”, straniero, diverso, incivile.

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Migranti in fuga dal Bangladesh

Così lo scandalo pian piano si tramuta in opposizione, in antagonismo, in spirito di rivalsa col perdurare della tragedia non più avvertita come tale dei “migranti” ridotti a categoria sociologico-politica, poi convertiti in numeri e dati statistici con tutti i distinguo, le categorie, le sottoclassificazioni e infine trattati come oggetti da movimentare e smistare; tramutati automaticamente, da quella legge antropologica che rimuove i sensi di colpa per una razionale discolpa, in capro espiatorio da immolare sull’altare della nostra sicurezza. René Girard ha mostrato con ammirevole scavo antropologico i meccanismi che muovono i fenomeni vittimari a partire da un transfert collettivo nei confronti di un “capro espiatorio”. La questione si pone in maniera criptica sia oggi che nell’antichità: «Gli individui che ne sono coinvolti fanno di tutto pur di nascondersi i fatti, e di solito con successo. Oggi come in passato, avere un capro espiatorio significa non sapere di averlo» [2]. Allo stesso tempo «le vittime sono sempre presentate come colpevoli, e la folla non fa mai errori: uccide sempre un vero sovversivo» [3].

Oggi assistiamo così all’immolazione di vittime vicarie di un male che nasconde il suo volto dietro la maschera del neo-liberalismo, dello sviluppo economico, dei benefici del mercato globale, delle organizzazioni umanitarie, degli organismi internazionali, delle “teologie della compassione”, dei “filantropi” di turno ministri plenipotenziari di un impero globale che fonda la sua forza nell’impersonalità globalizzata. L’Impero si maschera! La maschera della tragedia greca per Maria Zambrano, filosofa spagnola di rara sottigliezza che si fece “migrante” per sfuggire agli strali della dittatura franchista, «era già molto prossima all’umano – la “persona” della tragedia –; umana, ma ermetica e perciò tragica, poiché l’essenza del tragico sembra essere la fissazione dell’umano senza rivelarsi, la manifestazione dell’umano in cattività, che si dilania in asfissia, assoggettato dalle sue stesse passioni, nell’oscuro mondo del sangue e delle viscere. Peculiare della tragedia è l’essere un’espressione che non scioglie l’ermetismo. Il personaggio da tragedia, dopo essersi manifestato urlando, dopo essersi espresso, scende a compiere il suo destino. E tutti sembrano sepolti vivi, figure di Antigone che discendono per venire rinchiuse in un sepolcro dal quale continueranno ad urlare» [4].

Nelle tragiche storie dei “migranti” si avverte l’assenza di un logos, una parola, un pensiero, un senso. Tutto sembra dominato dalla physis, realtà sacrale della religione greca dei misteri, forza oscura sulla quale l’uomo non ha alcun potere. Forza dell’ineluttabile, fato o destino come lo si chiami, Moira, Tyche o Ananke, per cui Antigone scende nella tomba chiusa poi da una pietra o da una coltre di mare, senza che nessun Creonte possa essere incolpato del misfatto, del potere di morte, dell’arroganza prevaricatrice, perché anche lui è una maschera e nessuno conosce il suo volto. Ci vuole un logos, «il logos della physis che prima della sua scoperta non aveva essere. Né essere né definizione; il suo volto doveva essere maschera, perché ciò che non è riuscito a coincidere con se stesso non può resistere alla luce e deve apparire mascherato». La comparsa del logos, della parola determinante, del pensiero riflettente, del senso evidente e compiuto, in una parola, della forza che si contrappone alla physis per Maria Zambrano, «è l’infinito […] un momento divino della storia umana» [5]. La rivelazione di noi stessi a noi stessi, perché abbiamo bisogno di sapere riguardo a noi stessi; la rivelazione della vita per uscire dall’oscurità e dalla disperazione. La rivelazione per smascherare Creonte, anche quel Creonte che è in noi, e contemplare la nuda bellezza del volto trasfigurato dalla luce. Il logos infatti è luce e ciò che si espone ai suoi raggi viene messo in luce e la visione si fa chiara, apocalittica, pur nella sua tragicità; ed anzi la tragicità mette in luce la crudeltà della physis che l’ha provocata e la condanna.

foto-3Ma la rivelazione nella luce non è un fatto che si impone con violenza; è verità che va desiderata, ricercata e custodita gelosamente, in maniera vigile. Va anzitutto vista. Non consente sonno e chiusura d’occhi perché rischia di tramutarsi in concetto, in legge, in istituzione; di ricristallizzarsi in maschera dalle sembianze sempre più perfette quanto artificiali o grottesche come quelle cosmetiche portate dai Vip del nostro tempo. È quanto è accaduto all’Europa e all’Occidente che da lei è stato generato. È quanto sta accadendo al resto del mondo che trova tale maschera occidentale esportata mediaticamente accattivante e desiderabile. Per la gioia di Creonte e del suo impero della physis che nasconde il suo volto dietro la maschera del profitto. Maschere in commercio nel mercato globale.

Noi oggi viviamo all’ombra di un grande impero, il più grande mai esistito al mondo: l’impero del denaro. Un impero dove l’1% della popolazione possiede oltre il 48% della ricchezza mondiale; il 19% possiede ricchezza per il 46,5% del totale, mentre l’80% della popolazione mondiale si divide il restante 5,5% delle risorse. Tra questa maggioranza povera circa 1 miliardo di persone vivono con 1,25 dollari al giorno, mentre altre 800 mila vivono nella totale indigenza, ovvero soffrono la fame. Tra queste ci sono le oltre 24 mila persone che muoiono ogni giorno per carenza di cibo. Fra quell’1% della popolazione che vive nell’agiatezza vi sono 85 individui che possiedono risorse quanto i 3,5 miliardi di persone più povere. Secondo un rapporto pubblicato dall’ONG Oxfam, le otto persone più ricche del mondo possiedono tanta ricchezza quanto la metà più povera della popolazione. Bisogna chiedere conto a loro dei migranti, degli affamati, dei morti, dei sepolti in mare, delle guerre combattute con le loro armi, dell’odio che la povertà e l’ingiustizia generano sempre. Loro che sono i plenipotenziari dell’impero del denaro e gli assassini dell’anima dei popoli.

Tra le tante chiacchiere che sentiamo da destra a manca, o da destre, sinistre e centri “moderati” in tutto il mondo, tra tante proposte politiche tra l’insensato e l’osceno, mai un verbo sulle cause o sulla causa prima della tragedia dei “migranti”; mai il ricorso ad un logos dirimente e rischiarante, una parola di verità, una ricerca di senso. Solo maschere del logos fatto ragion di Stato, concetti, leggi, istituzioni antiche e nuove e sempre in crescita che ostinatamente si rifiutano di vedere ciò che viene in luce, la verità apocalittica che ci viene incontro ansiosa di accoglienza, di umanità, e che chiede un gesto di umanità come sgorgò dal cuore di Antigone che per amore del fratello si ribellò a Creonte, vuota maschera dell’umano e per questo fu condannata alla tomba da sigillare con lastra di pietra o d’acqua di mare. Coi “migranti” ci viene incontro l’apocalisse dell’impero, e la tomba del Mediterraneo è il monumento alla distruzione della forma umana, il documento abissale che sancisce il ripudio del logos e il regresso alla materialistica physis, alla viltà del denaro quale nuova divinità dell’impero. «In God we trust» è la professione di fede scritta sul dollaro! La formula liturgica della religione globale che sacralizza i buoni sentimenti di un umanesimo parolaio che nell’incontro delle culture vede solo opportunità di arricchimento economico, mentre l’osservazione del reale mostra con evidenza che esiste una gerarchizzazione delle diverse culture e che di fatto, sulla scena sociale, le culture non hanno pari dignità e diritti. Le povere vengono sempre più spremute dalle ricche. Il “ricco Epulone” è sempre l’affamatore del “povero Lazzaro” della parabola evangelica [6].

Per percepire le immagini apocalittiche è necessario uno sguardo contemplativo, un modo di guardare che l’Occidente ha perso totalmente essendosi costretto alla miopia del profitto e del materialismo. Sguardo corto ed avido. Lo sguardo contemplativo è lungo, va oltre, è al di là di ogni umana visione e per tale motivo viene reputato dai più patologico, perché in disuso, estraneo alla nuova ontologia dell’Occidente. È il modo di vedere che si sintonizza sul logos, generando l’idea della vera conoscenza… La lingua greca che è la lingua ormai sconosciuta del vero pensiero dell’Occidente, della sua anima antica, ci aiuta ancora, tenendo presente che il verbo orào, “vedo”, nella forma del perfetto oida significa sia “ho visto” che “io so”. “Io vedo e so”. Dalla comune radice indoeuropea wid il latino ha dato origine a video e la filosofia greca al termine idea. Lo sguardo contemplativo è allora uno sguardo che sa, uno sguardo che vedendo si fa la giusta idea della situazione del mondo; uno sguardo non di superfice ma di profondità. La contemplazione del logos divino, del cristiano “Verbo visibile” che da inizio all’Apocalisse [7] è la conoscenza eidetica dell’essenza delle cose.

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H. Bosch, Quattro visioni dell’aldilà, 1500-1503

Eidetico è lo sguardo dei profeti, antichi e moderni, delle Cassandre e dei Tiresia della mitologia tragica cui nessuno crede e che il potere imperiale zittisce ed acceca. Ma non servono gli occhi carnali per la visione eidetica, contemplativa, perché la visione si fa interiore e nitida, quanto più le tenebre tentano di soffocarla, per stridente difformità ontologica. La Tragedia greca e il profetismo giudaico-cristiano sono due convergenti filoni che testimoniano l’attitudine di pochi alla contemplazione che esige l’anima oltre l’intelletto. Il razionalismo e lo scientismo assunti come assoluti hanno mortificato se non distrutto l’attitudine spirituale dell’Occidente; per dirla ancora con Maria Zambrano hanno distrutto «la radice del suo eroico idealismo, anche se dall’estremizzazione e dall’abuso di quest’ultimo è sorta gran parte dei nostri mali». È mancata la solitudine, il silenzio, «lo spazio libero puro e vuoto all’interno della coscienza» [8]. Sappiamo guardare con impensabili strumenti fino ai confini dell’universo o nei recessi dell’atomo, senza avere idea della ricchezza e della nobiltà che albergano nel cuore dell’uomo. Ora l’uomo tecnologico troneggia tra gli idoli della cultura occidentale globalizzata mentre sparisce alla vista l’umanità tout court.

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Thomas Merton

Per insistere sulla contemplazione ed esemplificare, mi piace citare un profeta, un veggente, cui per studio e affinità elettive sono molto legato: Thomas Merton. Americano, libero pensatore convertito, monaco trappista, poeta e fine intellettuale si definì “testimone colpevole” della prima metà del XX secolo. Voce critica della politica statunitense negli anni della “guerra fredda” si impegnò per la causa dei “negri” e degli ultimi, subendo critiche e censure dai potentati politici e dalla chiesa cattolica americana. Papa Francesco il 24 settembre del 2015, parlando al Congresso degli Stati Uniti, lo ha citato insieme a Martin Luther King e a Doroty Day nella qualità di americani che si sono prodigati nella denuncia dei mali dell’umanità: razzismo, segregazione, ingiustizia, miseria, speculazione economica, perversità politica, superficialità culturale… e li ha citati come cristiani che non hanno temuto di perdere, donare, spendere la loro vita per la causa dell’uomo [9].

Nel 1947 questo monaco contemplativo scrisse un poema, Immagini da un’Apocalisse. Nella sesta parte titolata Le rovine di New York si possono leggere questi versi:

«Come sono state distrutte, come sono crollate
 quelle grandi e possenti torri di ghiaccio e d’acciaio
 fuse da quale terrore? […]
 Quali fuochi, quali luci hanno smembrato,
 nella collera bianca della loro accusa
 quelle torri d’argento e d’acciaio
 colpite da un cielo vendicatore? […]
 Le ceneri delle torri distrutte si mescolano ancora alle volute di fumo
 velando le tue esequie nella loro bruma; e scrivono il tuo epitaffio di braci:
“Questa fu una città
 che si vestiva di biglietti di banca”» [10].

Non è necessario alcun commento. Le immagini parlano da sole a questa nostra generazione testimone dell’11 settembre. Le Twin Towers nel 1947 non erano state né costruite né pensate. Ed è sulla scorta di questa apocalittica profezia che Merton costruì la sua teologia contemplativa che anticipò, di fatto, la cosiddetta “svolta antropologica” operata dai più grandi teologi europei che lavorarono per e dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II; e preconizzò quell’altro grande filone di teologia non europea nata in Cile nel 1968 con Gustavo Gutierrez e da questi denominata “Teologia della Liberazione”.

merton-fedeIl principio fondante tale nuova teologia, la sua svolta antropologica, è che non si può parlare di Dio senza parlare dell’uomo, perché Dio si è incarnato in Gesù di Nazareth ed ha assunto, eccetto il peccato, tutte le miserie, le sofferenze e le debolezze dell’umanità. E non per soggiacervi ma per sanarle e liberare l’uomo da tutte le schiavitù. Nel 1967, un anno prima della sua morte misteriosa, che qualcuno ha congetturato opera della CIA [11], Merton portò a termine un’opera di grande impatto sui temi della pace, della guerra del Vietnam, della discriminazione razziale e della giustizia sociale: Fede, resistenza, protesta [12]. Merton identifica con sicurezza i metodi nefasti del potere economico-politico del suo tempo e lo paragona alla “bestia” dell’Apocalisse:

«Quando il potere oppressore si è completamente stabilito, non sempre è costretto a ricorrere apertamente al “metodo delle bestie”, perché le sue leggi sono già abbastanza potenti e forse anche abbastanza bestiali. In altre parole, quando una sistema può, senza ricorrere alla forza aperta, forzare il popolo a vivere in condizioni di abiezione, d’impotenza e di miseria che lo mantengono a livello delle bestie più che a quello degli uomini, esso è chiaramente violento. Far vivere gli uomini ad un livello che è al di sotto di quello umano contro la loro volontà, reprimerli in modo tale che essi non abbiano alcuna speranza di sfuggire alla loro condizione, è un esercizio ingiusto della forza. Coloro che in un modo o in un altro cooperano all’oppressione – e forse ne traggono profitto – esercitano la violenza anche se predicano il pacifismo. E le loro leggi ipoteticamente pacifiche, che mantengono questo falso genere di ordine, sono in realtà strumenti di violenza e di oppressione. Se gli oppressi tentano di resistere con la forza – il che è un loro diritto – la teologia non deve predicare la non-violenza a costoro. La pura cieca distruzione è, naturalmente, stolta e immorale: ma chi siamo noi per condannare una disperazione che abbiamo aiutato a provocare?» [13].

Questa è la corda di recita dell’intero libro, analisi a tutto tondo dei mali di una “civiltà occidentale” ipostatizzatasi nell’Impero americano che già al suo tempo facevano presagire una loro globalizzazione planetaria. Per uno che rimase per quasi trent’anni nella clausura di un monastero trappista è stato un bel “vedere”! Ha significato acquisire con lo sguardo lungo della contemplazione la partecipazione appassionata alla sofferenza del mondo, riuscendo a guardare il mondo e l’umanità con gli occhi di Dio, alla luce della sua rivelazione. La contemplazione non è guardarsi l’ombelico ma accogliere l’Apocalisse in atto. Ciò comporta un severo esame di coscienza che Merton, il “testimone colpevole”, invita i cristiani a fare senza infingimenti e senza indugi:

«Noi non siamo idolatri, ma stiamo forse compiendo punto per punto le prostituzioni dell’Apocalisse. E quando lo facciamo lo vogliamo fare così innocentemente, così decentemente e con le mani pulite perché il sangue è sempre versato da qualche altra parte! Il fumo delle vittime è sempre giustificato da qualche pulita spiegazione sociologica, e naturalmente non è superstizione perché noi per definizione siamo le persone più illuminate che siano mai esistite» [14].

Merton ha contemplato l’Apocalisse in atto in cui è inscritta la liberazione in atto. Ha segnato, insieme ad altri profeti del XX secolo, le linee per una teologia cristiana che deve uscire fuori dalle diatribe dottrinarie autoreferenziali quanto sterili e gettare lo sguardo contemplativo sulla dimensione apocalittica della nostra epoca, leggendo la rivelazione dei mali di questo tempo nella risoluzione dell’Apocalisse biblica in quanto sigillo della rivelazione divina nell’atto concreto della liberazione di Gesù Cristo.

Quanto detto può indurci a pensare alla necessità di una “Teologia del Mediterraneo”? ad assumere cioè il Mare nostrum quale emblema apocalittico che ci induca ad una riflessione teologica che insista con forza sulla necessità di smascherare, in nome di Dio, un Impero che tiene in soggezione l’umanità intera? Un impero che reputa un semplice “danno collaterale” l’esodo, in cerca di una terra promessa che non c’è, di popoli che migrano nella speranza illusoria di sottrarsi alla sua insaziabile avidità? La risposta non può che essere positiva. È una necessità e un’urgenza. La categoria biblica della liberazione è in fondo quella che soggiace a tutta la teologia cristiana. Per il cristiano credere significa fare questo viaggio che libera dalla schiavitù. Credere vuol dire muoversi verso la liberazione totale, materiale e spirituale. Il compito dei credenti è quello di domandarsi cosa significhi nel nostro tempo camminare attraverso il deserto verso la terra promessa, una terra senza armi, senza sperequazioni sociali, senza ingiustizie, senza genocidi, senza odio di parte, senza razzismi, senza idolatria della materia. La professione di fede nel Dio di Gesù Cristo deve essere una professione di fede nel Dio che si è manifestato nella storia salvifica come “Colui che libera”, che prende posizione contro coloro che fanno soffrire il suo popolo. Non il Dio dei filosofi, delle metafisiche, delle pure tradizioni, il Dio garante della legittimità di tutti i poteri, il Dio delle monarchie di “diritto divino”. Si tratta di prendere atto di questa “epifania” – epifaínomai, “apparire” – di Dio che sta al principio della storia salvifica e libera dalla schiavitù d’Egitto che è uno dei tanti nomi dell’unico Impero. Il grande drago rosso dell’Apocalisse ha personalità polimorfa; ha, infatti, sette teste e dieci corna!

Una Teologia del Mediterraneo è possibile solo se si fa apocalittica. L’Apocalisse giovannea non è un libro esoterico ma una denuncia seria della cultura del tempo orchestrata e diretta dall’Impero romano. Il suo linguaggio simbolico è preso dall’apocalittica biblica che criticava le strutture di potere che caratterizzavano Egitto, Canaan, Assiria, Babilonia, Persia, Grecia e Roma, nazioni che nell’arco della storia biblica avevano assoggettato Israele. L’Apocalisse è un appello a fidarsi di Dio e della sua parola rivelatrice piuttosto che dell’Impero con le sue ambiguità e nefandezze. Una teologia apocalittica sarà una teologia di denuncia chiamata ad individuare uomini, nazioni e culture che oggi hanno preso il posto dell’emblematico Egitto che costringeva gli Ebrei a lavori sempre più pesanti per costruire le sue piramidi e i suoi templi. Una denuncia che consista nella demolizione degli idoli, gli oggetti sacrali del sistema vigente e il sistema stesso considerato come assoluto e degno di adorazione. E bisogna ricordare che gli idoli esigono sempre sacrifici umani.

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The raft di Lampedusa, opera di Jason de Caires Taylor

Una teologia profetica che rilegga la tipologia della liberazione umana e cristiana nelle sue ambiguità storiche ma anche nelle sue prospettive per il futuro. La liberazione non è un programma compiuto una volta per sempre, è sempre in fieri, e il Vangelo è profezia, non religione. Non appena la fede si propone come cemento costitutivo di unità politica si ha la regressione nel carnale imperiale, con tutte le degenerazioni di cui la storia ci fa fare memoria: dalle crociate all’inibizione delle coscienze, alla repressione della libertà di pensiero, alla persecuzione dei profeti, all’acquisizione di un potere teocratico. Questo è accaduto ed accade alle religioni e al cristianesimo quando ha vestito i panni della religione. L’Apocalisse rimprovera quelle Chiese che si stavano lasciando sedurre dai costumi imperiali, tradendo così la freschezza della novità evangelica. Una teologia profetica per la riforma della Chiesa che nel Mediterraneo ha realizzato la sua primitiva espansione ma ha subìto anche le sue deformazioni.

Il Mediterraneo è il mare dove si affacciano diverse confessioni cristiane e il luogo in cui si è perpetrata la più grande lacerazione ecclesiale tra Oriente e Occidente, tra cesaropapismo bizantino e teocrazia romana. Una scissione avvenuta per motivi politici e di potere. Una Teologia del Mediterraneo non potrà che essere ecumenica, tendente al recupero urgente dell’unità, pena l’incredibilità della fede cristiana e l’impossibilità di indicare la necessaria unità del genere umano. La lotta all’Impero non potrà che essere morale, e le Chiese dovranno accettare di essere ascritte tra le “minoranze morali” del pianeta, non avendo in linea di principio interessi economici e politici da difendere. E proprio lo stato di minorità potrebbe costituire il cemento per recuperare l’unità evangelica e la credibilità per apostrofare autorevolmente il sistema imperiale autoritario e mortifero. Per poter proferire, senza timori, come il profeta Giovanni Battista: «Non ti è lecito!». Ma le Chiese hanno questa reale intenzione di farsi sentire? Hanno il coraggio della parresia in sostituzione del linguaggio diplomatico? Di uscire fuori dai loro paradigmi liturgici e caritativo-assistenzialistici per predicare la giustizia di Dio e la sua pratica come vero atto di culto? L’unico vero atto di culto nonostante le legittime diversità liturgico-rituali. Una Teologia del Mediterraneo dovrebbe sapersi elaborare come simbolo efficace del meglio delle tradizioni teologiche delle Chiese in favore della giustizia come condizione essenziale per la pace, secondo il monito del profeta Isaia: Opus iustitiae pax! [15]

lo-zen-e-gli-uccelli-rapaciUna Teologia del Mediterraneo dovrebbe utilizzare, oltre quello interconfessionale, il registro interreligioso. Frequentare la Fenomenologia della Religione e la Teologia delle Religioni, l’antropologia religiosa e quella culturale. Uno sforzo, allo stato attuale, compiuto da pochi pionieri e addetti ai lavori e con ricadute pressoché nulle nella teologia ufficiale delle Chiese e nella loro pratica pastorale, nella cognizione ordinaria di pastori e fedeli. Per citare ancora Merton c’è da dire che ad un certo punto avvertì la necessità di capire cosa si credeva nel Buddismo, nell’Induismo, nello Zen, quale era la percezione e la visione di Dio nelle grandi religioni d’Oriente e trovare punti di contatto col cristianesimo proprio sulle questioni importanti nelle quali si dibatte l’umanità. Mistici e maestri Zen e Lo Zen e gli uccelli rapaci sono due testi ancora attuali e magistrali per indicare un fronte comune dal quale le religioni, pur nella profonda differenza delle loro teologie, possano costituire un baluardo per frenare le mire espansionistiche dell’Impero. L’Apocalisse è chiara nella visione dell’umanità radunata senza distinzione di «tribù, lingua, popolo e nazione» accomunata dal fatto di essere passata «attraverso la grande persecuzione» [16] e trovando in questa condizione la predilezione di Dio. È sicuramente quella maggioranza della popolazione mondiale che attualmente vive sotto il giogo dell’Impero e solo nel nome dell’unico Dio può trovare la forza del riscatto.

Sul Mediterraneo si affacciano le tre cosiddette religioni monoteistiche, credenti nell’unico Dio ma diverse nella sua concezione e per l’ermeneutica della sua rivelazione. Cosa pensano in ordine alla giustizia, alla pace, al rispetto per la diversità? Come giudicano l’Impero e l’imperialismo e dunque la sorte dei poveri? Ci sono linee comuni nei libri rivelati delle tre religioni che considerano immorale la ricchezza smodata dei capi e la miseria più sordida dei sudditi? Cosa pensano i Principi sauditi quando pregano Dio? Cosa pensano le religioni della Società per lo sviluppo spirituale della Banca mondiale che sponsorizza conferenze internazionali su religione spiritualità ed etica per dare un contributo “tangibile” al benessere dell’umanità? [17] Che la Banca Mondiale si sia convertita e abbia abbandonato il suo programma neo-liberista e la globalizzazione del capitalismo senza regole? Per rispondere a tali domande la teologia che attendiamo dovrà scriversi anche nell’ottica dell’interdisciplinarietà, per comunicare la fede in Dio in una situazione planetaria di sempre maggiore complessità e per informarsi su questioni difficilmente verificabili e poter elaborare denunce circostanziate.

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Ruggero riceve la corona da Cristo (Mosaico nella chiesa della Martorana a Palermo)

Una Teologia del Mediterraneo non potrà sottrarsi al confronto con la filosofia, le arti, le scienze umane della contemporaneità, per percepire istanze e recepire ragioni, stimoli, nuovi simboli di desiderio e di speranza, perché tutto ciò che l’uomo produce in ordine al vero, al bello, al buono, al giusto è produttivo per la crescita di una data cultura, anche se viene prodotto nell’accampamento accanto. Nell’ottica della crescita totale del “villaggio globale” bisogna tener presente che siamo immersi in una mutazione culturale di proporzioni mai viste. Gli incroci tra le latitudini e le longitudini del mondo sono tali da apparire una rete ingarbugliata se non ne rintracciamo il filo di senso. Le nostre pur ricche e venerande tradizioni culturali d’Occidente che valore hanno per il versante orientale del mondo? La Chiesa cattolica si è accorta piuttosto di recente, fatta eccezione per alcune sue frange fondamentaliste, che l’ossimoro Cattolico-Romano non ha più senso. Cattolico è universale, Romano è particolare. Le nostre tradizioni non si impongono più come modelli, appartengono all’ordine dello spettacolo. Nel campo speculativo dell’etica, dell’estetica, della politica, non definiscono né un itinerario ancora percorribile né una pienezza di senso. Sono appannaggio di pochi eruditi ma non interagiscono più di tanto nel mutamento culturale. La stessa tradizione cristiana con i suoi monumenti letterari e artistici non la si considera più fonte di verità e, a dispetto di ogni Via pulcritudinis, le opere d’arte producono un mero godimento estetico di stampo emozionale. Lo stesso gaudio, religioso quanto si voglia, lo si prova per i mosaici di Monreale che per la statuaria greca. La tradizione cristiana è ammirata senza essere significante, forse perché le referenze a cui essa rinvia non hanno più significato per i nostri contemporanei. I mosaici di Monreale sono splendidi ma dietro essi si cela la gloria pretenziosa di una monarchia normanna incoronata direttamente da Cristo. Per la legge del contrappasso il cesaropapismo bizantino passò in Sicilia a fronteggiare, simbolicamente, il mandato teocratico del papa di Roma dal quale gli Altavilla avevano ricevuto regno e corona.

Una Teologia Mediterranea deve saper leggere criticamente la storia della sua cultura e cercare nell’oggi i modelli anche laici che possano stimolare il suo essere scienza pensante e propositiva. Penso ad esempio, e faccio solo un esempio, all’utilità di assumere come supporto filosofico in teologia la riflessione non confessionale di Emmanuel Lévinas, la sua filosofia della Carità intesa «come vivere per-Altri». Arturo Paoli, dei Piccoli Fratelli di Gesù, così si esprime nell’introdurre un volume sulla filosofia di Lévinas: «La Chiesa non può rimandare una risposta che sia vera alla gioventù perduta in un mondo senza parametri etici. Non può giustificare con le solennità e le feste l’assenza di un’etica calata nella vita reale e autenticata da scelte concrete di giustizia. Non può non assumere un’opposizione chiara, coerente ad un potere che autorizza l’accumulazione dei beni e lo sperpero allegro e adolescenziale del denaro, succhiando il sangue dei poveri» [18].

Voci nuove, che cantano fuori dal coro, stanno spuntando un po’ dappertutto nel vasto campo della teologia. Anche le donne, dotate di sensibilità viscerale e materna stanno dando un forte contributo per la nascita di una teologia “non allineata” ai parametri romani. Dal Mediterraneo, ad esempio, si sta levando la voce di Teresa Forcades, pasionaria catalana, medico e monaca benedettina che mette a frutto la sua vita claustrale e contemplativa per caratterizzare la sua teologia della liberazione nel senso di una teologia contestuale, usata come strumento per affrontare e debellare l’oppressione in qualsiasi forma si manifesti. Ponendo le domante più brucianti che interpellano ogni essere umano, cristiano o meno che sia, e mostrando che la fede non è nemica della ragione, e semmai una ragione ulteriore; e che è possibile amare in uno spazio di libertà dove si attua la possibilità d’essere, di essere Altro [19].

Una Teologia del Mediterraneo, per finire, – e per cominciare – dovrà essere, nel voto, una teologia della prossimità e dell’alterità, così come preconizza il filosofo:

«All’ontologia – alla comprensione dell’Essere – si sostituisce come primordiale la relazione da essente ad essente, che tuttavia non si riconduce a un rapporto tra soggetto e soggetto, ma a una prossimità, alla relazione con Altri» [20].

Ora sono gli Altri, i “migranti”, a chiamare a discorso il possibile: Vivere per-Altri.

Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
 Note
[1] Z. Bauman nel suo libro Danni collaterali, Laterza, Roma-Bari 20186, sostiene che i danni collaterali non sono esclusivi della guerra ma rappresentano uno degli aspetti più diretti e sconcertanti delle disuguaglianze sociali che caratterizzano la nostra epoca.
[2] R. Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, Milano 2001: 205.
[3] Id., Violenza e religione. Causa o effetto?, R. Cortina, Milano 20155: 13.
[4] M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, Marsilio, Venezia 20138: 81.
[5] Ibidem
[6] Cf. Lc 16, 19-31.
[7] Cf. Ap 1,12. Et conversus sum ut viderem vocem. “Mi sono voltato per vedere la voce” dice Giovanni “il veggente”.
[8] Cf. M. Zambrano, op. cit.: 14.
[9] Cf. L. Di Simone, Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2018: 174.
[10] Th. Merton, Poesie, Garzanti, Milano 1962. Titolo originale dell’opera: Figures for an Apocalypse, cit. in M.W. Higgins, Sangue eretico. La geografia spiritual di Thomas Merton, Garzanti, Milano 2001: 90.
[11] Ne do resoconto nel mio libro su citato, Il romanzo di Thomas Merton, op. cit.: 315-320.
[12] Th. Merton, Fede, resistenza, protesta, Morcelliana, Brescia 1970.
[13] Ivi: 18.
[14] Ivi: 120.
[15] Is 32, 17.
[16] Cf. Ap 7, 9.14.
[17] Cf. G. Baum, Trascendimento dei confini o invasione dei territori? Riflessioni sulle attività della Banca Mondiale, in «Concilium», 2 (1999): 63-67.
[18] A. Paoli, Prefazione a G. De Gennaro, Emmanuel Lévinas profeta della modernità, Mondadori, Roma 2001: 11.
[19] Cf. T. Forcades, Siamo tutti diversi. Per una teologia Queer, Castelvecchi, Roma 2016.
[20] E. Lévinas, Difficile Libertà, La Scuola, Brescia 1986: 45.

 

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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003)Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas MertonUn umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).

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