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Lampi di luce. Tra i rami il giorno muta e rinasce

da Perfect days

da Perfect Days

di Flavia Schiavo

«If you want, Hirayama San is an angel. Not many people see him, by the way. For a lot of people, he’s invisible. Like the angels in Wings of Desire» Wim Wenders, 2023

Tokyo, mon amour

Dopo i due documentari, più che idealmente collegati, Tokyo-Ga [1] e Aufzeichnungen zu Kleidern und Städten (sullo stilista giapponese Yohji Yamamoto), rispettivamente del 1985 e del 1989, Wim Wenders torna nel 2023 a Tokyo, con un lungometraggio di finzione, Perfect Days.

Se Wenders, in Tokyo-Ga, girato in stato di devota grazia e dedicato al grande Yasujirō Ozu (1903-1963, nato e morto a Tokyo), ripercorre i luoghi, intervista alcuni attori “feticcio”, il direttore della fotografia del Maestro, restituisce le atmosfere del cinema del regista nipponico – mostrando nel contempo l’ascesa economica del Giappone e la trasformazione della città trasfigurata, ancor più se a paragone con l’ordinato rigore degli interni e del pacato paesaggio urbano delle città di Ozu – in Perfect Days il regista tedesco posa lo sguardo non solo sul protagonista, Hirayama, ma sulla metropoli in cui anche i dettagli di alcuni scorci minuti che mantengono un forte legame con la tradizione, si sposano ai segni del contemporaneo, costruendo un intreccio che rimanda con accuratezza sia ai grandi temi del cineasta giapponese, sia a questioni delicate emerse durante la recente pandemia, come ha notato lo stesso Wenders.

Viaggio a Tokio, di Ozu

Viaggio a Tokio, di Ozu

Un intreccio complesso non immediatamente comprensibile che lavora oltre il piano immediato della narrazione (il film di fatto non contiene alcuna storia, pochi i rimandi al passato, assente ogni progetto futuro), agendo su più livelli, l’etico, l’intimo, l’interiore, il simbolico. Trattando, infatti, nodi interni al consumo di beni e risorse, alla rinuncia, al sistema capitalista, ai modi tramite cui essere parte della società e rendersi visibili (o invisibili) in essa, alla comunicazione verbale ridondante, al silenzio, alle scelte esistenziali e sociali che mettono al centro la filosofia quotidiana di Harayama: less is more, fondata sull’hic et nunc, nel superamento della semplice accezione letterale. Lo stesso Hirayama, che dialoga costantemente con il sottrarsi, con l’invisibilità e con il silenzio, nota un homeless che sta sempre sotto lo stesso albero, in vicinanza di uno dei servizi pubblici.

Tokyo-Ga, la cui visione dovrebbe essere imprescindibile per accostarsi al più recente e ispirato lavoro di Wenders, spinge però a comprendere non solo la Tokyo e il modus vivendi evocato da Ozu o le contraddizioni tra il passato e un presente dissonante con la tradizione, con l’estetica classica e con la visione religiosa shintoista, ma gli individui e i luoghi che quasi cinquanta anni dopo, “strutturano” i tempi e le emozioni di Perfect Days, colti proprio nella loro relazione con lo svolgersi del tempo quotidiano, tra passato e presente. Non unicamente inteso in termini cronologici, ma rispetto al senso profondo che il passato (la tradizione) e il presente (che sgretola la tradizione stessa) rivestono. Senso da esplorare, su cui riflettere, sia per capire pienamente Hirayama [2], omonimo tra l’altro sia del patronimico della famiglia al centro del capolavoro Viaggio a Tokyo [3] e del protagonista de Il gusto del sakè [4], lungometraggi di Ozu rispettivamente del 1953 e del 1962, sia per percepire l’intero insieme di atmosfere, soggetti, spazi ed eventi che innervano l’ultimo lavoro del regista germanico.

Scritto insieme a Takuma Takasaki, produttore e sceneggiatore, vincitore della Palme d’Or al Festival di Cannes del 2023 per l’interpretazione di Kôji Yakusho, e attualmente in corsa per gli Oscar 2024, Perfect Days restituisce all’inizio una veduta della grande metropoli colta al momento che precede il sorgere del sole. Quell’istante ancora notturno apre la giornata del nostro “eroe imperfetto”, un uomo sulla sessantina che, quieto, schiude gli occhi, piega con cura il tatami azzurro, in una piccola stanza tappezzata di libri, nessuna concessione al superfluo, mentre si lava i denti nell’angusta cucina, dove c’è spazio solo per un lavello d’acciaio, in una casa, paradossalmente, senza bagno.

Buon giorno, d Ozu

Buon giorno, di Ozu

Wenders, a volte adottando una tecnica propria di Ozu chiamata pillow shot [5], non racconta la storia del personaggio lasciata sullo sfondo, ma tratteggia in 4:3 [6] – prediligendo un formato adottato dalle pellicole cinematografiche post avvento del sonoro – la sua essenza. Pare che egli non abbia interesse per la memoria (nessun flashback caratterizza lo svolgimento del film), vivendo costantemente nell’adesso, in un moltiplicato e fluido “qui e ora” – «un’altra volta è un’altra volta, mentre adesso è adesso», afferma, davanti al fiume Sumida, il protagonista – scandagliato con un approccio quasi documentaristico privo di giudizio, che consente agli spettatori di seguirlo in ogni momento, dal risveglio, alla notte.

Scopriremo poi che la sua devozione all’istante lo protegge, forse, dal peso stesso dei ricordi, da quelle tracce dolenti di una vita trascorsa che emergeranno quando Hirayama sarà visitato dalla giovane nipote, figlia della sorella, quasi alla fine del film. Dove il passato, semmai, viene evocato per frammenti e immagini indefinite nei sogni in bianco e nero che ritmano l’intera pellicola. Sono frazioni oniriche, geometrie luminose, tracce di desideri, ricordi, particelle lucenti, rappresentazione non esplicativa degli stati d’animo e dell’inconscio.

La ritualità domestica, che inaugura ognuna delle giornate, vede Hirayama impegnato nella cura niente affatto leziosa di sé, riservata con dedizione sacrale anche ad alcune piantine di acero giapponese a dimora in vasetti di ceramica posti, in una sorta di altare domestico [7], al centro di un ambiente della casa. Teatro, questa, di minimi ed essenziali gesti che mostrano quanto ogni azione sia accurata e niente affatto ridondante, come in una danza rituale dove la fatica non esiste, e il corpo, in armonico accordo con l’anima, sa dove andare, sa quando fermarsi. 

da Perfect days

da Perfect Days

Addetto alla pulizia di alcuni bagni pubblici in uno specifico contesto intraurbano, chiamato Shibuya, Hirayama indossa una tuta azzurra (disegnata da Nigo, direttore artistico di Kenzo), che reca sulla schiena, in bianco e in bold, “The Tokyo Toilet”. Alla sua cintura, agganciate a robusti moschettoni, tintinnano le chiavi che utilizzerà durante la giornata di lavoro, inaugurata da un caffè in lattina preso da un distributore automatico sotto casa.

Pur immerso e intriso di bellezza, sembra che nessun edonismo segni la sua routine, tutto è scarno, essenziale, efficiente, sebbene né superficiale, né meccanico o freddo; traspare, infatti, fin dalle prime inquadrature, la profonda interiorità di Hirayama, la sua leggera pacificazione, la connessione con il proprio compito, con il luogo: egli guarda il cielo, mentre il delicato sorriso ricorrente nel film, tra tristezza e sentimento, illumina i suoi occhi, tra le contraddizioni di una Tokyo moderna e globalizzata, dove la cultura locale, che Harayama cerca e persegue, permane.

La bellezza evocata, quella che egli stesso sfiora, o produce, non sta nel danaro, negli oggetti che lo circondano o nello sfarzo domestico, risiede, invece, nella natura (per lo shintoismo luogo di intenso potere spirituale), nel pensiero su di essa e nella pratica dell’osservazione immersiva, nell’attenzione che pone al fare. In tal senso egli dà dignità alla ripetizione, la nobilita, come se ogni gesto fosse compiuto per la prima volta, centrando l’azione del sé nel momento specifico, privo di tedio. Come afferma Wenders:

«You know, the potter’s secret is doing it for the first time each time, and for our man, Hirayama, it’s the same. Each day, he’s doing it for the first time. And he’s not thinking how he did it yesterday, and not thinking how he will do it tomorrow. He’s always doing it in the moment. And that’s the potter’s secret as well. And that’s what gives a whole different dignity to any repetition»[8].

Potremmo dire, allora, che Hirayama sia l’alter ego di alcuni protagonisti di film tra cui Modern Times (1936, Charlie Chaplin), o Sorry We Missed You (2019, Ken Loach), pellicole assai lontane temporalmente che hanno in comune la relazione stretta tra alienazione umana e produzione.

Bagno pubblico, di Toyo Ito

Bagno pubblico, di Toyo Ito

Anche le piantine di acero coltivate in casa rivestono un significato concreto e simbolico. Raccolte durante la routine lavorativa ­– ai piedi degli alberi dei parchi che ospitano i bagni pubblici o nel parco che circonda il santuario prossimo a uno dei servizi puliti da Hirayama – sono oggetto di cura, e offrono una dimensione traslata della paternità e dell’essere figli, tema centrale sia nella cinematografia di Ozu, che spesso affronta il conflitto generazionale, sia in Perfect Days. Hirayama coglie le piantine nate all’ombra dell’albero “padre” e le aiuta a crescere autonomamente, lontane dall’imponente “genitore” che potrebbe soffocarle. Cosa vuol dire, allora, essere padre? Pretendere che il figlio si sviluppi unicamente sotto l’ombra protettiva? Tutelare la tradizione quale ripetizione coattiva di comportamenti immutabili? oppure accompagnare la crescita di un “individuo” vivente, amato e rispettato e che è, e sarà, altro da te? Potrebbe affermarsi, forse, che le piantine, rappresentando lo stesso Hirayama, tratteggino la sua capacità di salvarsi e di sviluppare autonomamente la propria dimensione vitale. La crescita fuori dalla matrice paterna e in un terreno esterno a quella medesima matrice, inoltre, sottolineano la profonda relazione che Hirayama stesso intrattiene con l’impermanenza (mujō, nella filosofia classica giapponese che vede la realtà in continuo cambiamento), e con la transitorietà, rappresentata nella cultura giapponese anche dagli aceri, a causa della mutazione del colore delle foglie nelle stagioni. Gli stessi frutti “alati”, chiamati samare, simili a piccoli elicotteri cadono lontano dall’albero, favorendone la propagazione.

Bagno pubblico, di Kengo Kuma, A Walk in the Woods

Bagno pubblico, di Kengo Kuma, A Walk in the Woods

Tra i Bagni

Il film ­– che in modo diverso si misura ancora con l’incastro tra Tokyo e il cinema di Ozu, indagando i rapporti generazionali tra passato e presente, tra ciò che si perde e ciò che si intende conservare – nasce da uno specifico invito mosso a Wenders da Koji Yanaï, (poi coproduttore) per visitare e valorizzare i diciassette bagni pubblici [9], siti nel vasto ambito di Shibuya, inaugurati tra il 2020 e il 2023, progettati in vista dei Giochi olimpici, da archistar  e designer (Kengo Kuma [10], Tadao Andō [11], Nao Tamura, Nigo, Takenosuke Sakakura, Toyo Ito [12], Takenosuke Sakakakura, Shigeru Ban, Sou Fujimoto, Masamichi Katayama, Junko Kobayashi, Fumihiko Maki [13], Marc Newson, Miles Pennington, Kashiwa Sato, Kazoo Sato, Tomohito Ushiro), per le XXXII Olimpiadi “Tokyo 2020” rinviate a causa del Covid-19, e posticipate al luglio-agosto del 2021, svolte sostanzialmente quasi a “porte chiuse”. Gli splendidi bagni pubblici pensati per rigenerare il paesaggio urbano e per far sentire i visitatori ben accolti nella tradizione dell’ospitalità nipponica e del culto per l’igiene, rimasero pressoché inosservati in una città riconsiderata per accogliere migliaia di visitatori, in vista dell’evento sportivo mondiale. Per ovviare all’oblio che rischiava di avvolgere queste singolari opere di architettura, pensate non unicamente per gli abitanti, Koji Yanaï chiese a Wenders di fotografarle o di realizzare alcuni cortometraggi su di esse.

Ispirato dall’adorata Edo (nome primigenio di Tokyo) e dai bagni, e soprattutto dal loro profondo senso (Wenders li definisce “piccoli santuari”), dalla loro bellezza a volte rievocativa della tradizione, dalla varietà delle soluzioni architettoniche, il regista decise di raccontarli attraverso questo raro personaggio, non di immediata comprensione, la cui consistenza e profonda interiorità vengono svelate lentamente.

Hirayama sembra, infatti, inizialmente, non avere una storia, una famiglia, dei figli. Vive con semplicità, in uno spazio scarno ed essenziale, mettendo sé stesso nel compito quotidiano che svolge con cura meticolosa.   I bagni divengono, per così dire, espressione della stessa vita di quest’uomo in grado di purificare gli scarti, di eliminare le scorie. Con precisione millimetrica deterge, controlla gli angoli invisibili (con uno specchietto autoprodotto che gli consente di vedere ciò che nemmeno il visitatore più attento avrebbe scorto), rendendo la sua fatica apparentemente ordinaria, un’opera d’arte.

bagno-pubblico-di-ban-shigeru-yoyogi-parkTra i bagni pubblici uno in particolare, il complesso sito a Yoyogi Fukamachi Mini Park, di Shigeru Ban [14], assume un valore emblematico. Vicino a un altro bagno gemello (ma con colori differenti) [15], la toilette, sita in un piccolo parco prossimo a un’area residenziale e a una strada a grande traffico che limita un esteso ambito verde, ha inconsuete caratteristiche tecniche. I vetri esterni, inizialmente trasparenti per far filtrare la luce e per controllare la pulizia interna, si opacizzano girando la chiave, quando qualcuno entri nel servizio. Mentre Hirayama, uomo insieme opaco e trasparente, pulisce, una donna gli chiede spiegazioni sul funzionamento, fornite dal protagonista senza parole, con un semplice gesto: il click della serratura. Quel bagno pubblico, trasparente e illuminato la notte con tonalità che variano dal lilla, al rosa salmone intenso, al giallo, che riluce come una lanterna all’interno del piccolo parco, consente di vedere o di schermare. Tale alternanza tra vedere e, nel contempo, non essere visto, è metafora della scelta esistenziale di Hirayama che si sottrae, scomparendo o, meglio, vivendo in un’area interstiziale il proprio quotidiano, scarno solo se giudicato secondo una visione convenzionale, quella che vira verso lo spreco, il consumo, il desiderio di possedere, l’accumulazione, l’apparire. Tale interstizio rimanda all’angulus latino dove l’esperienza vissuta coincide, per quanto aperta all’esterno, con una chiusura protettiva, salvaguardando la propria evoluzione interiore.

Come sostiene il regista egli, con umiltà e semplicità, con cortesia ed eleganza nelle interazioni umane, è contento di essere utile. Possiede pochi oggetti, legge con misura, un libro alla volta (tra essi: un “monumento” di William Faulkner), preso in una libreria-biblioteca di quartiere [16], ascolta vecchie musicassette e non per seguire un trend modaiolo, vive in una casa senza pretese, priva di bagno o di lavanderia. Estremamente attento alla propria igiene personale Hirayama frequenta, infatti, un bagno pubblico, dove si deterge prima di immergersi in una vasca comune che lo accoglie come una placenta.

Pronto a giocare a 0X0 trovando in uno dei bagni un foglio color crema piegato sul quale una/uno sconosciuta ha tracciato un segno; disposto a interrompere il proprio lavoro quando arriva un fruitore del bagno, si allontana e attende, guardando la luce che filtra tra i rami, o le ombre del fogliame sui muri. Pur provvisto di un background che non viene ostentato, lo immaginiamo colto, legge classici internazionali oltre a opere giapponesi, ascolta musica [17] (ancora una volta un’importante colonna sonora contraddistingue il film di Wenders che qui, forse, costruisce un potente intertesto [18], mostrando non solo l’amore per il suo personaggio, ma il suo desiderio di identificazione), e sceglie una vita modesta, apparentemente monotona, che attraversa pacificato, anche quando posto davanti a passaggi più impegnativi.

da Perfect days

da Perfect Days

Intravediamo così la sua determinazione e la sua spiritualità, simile a quella che ha innervato altri film di Wenders, uno per tutti The Wings of Desire. Intravediamo inoltre il suo rapporto con gli oggetti, con la durabilità di questi, con la misura delle cose. Egli infatti predilige manufatti analogici, dalla macchina fotografica, alle musicassette audio, oggetti desueti che lui conserva, che non vengono riconosciuti, ad esempio, dalla giovanissima fidanzata di un collega ciarliero e un po’ inconsistente, Aya. Questa, ospitata nell’auto di Hirayama, ascoltando un brano di Patti Smith, Rodondo beach, ruba (per poi restituirla) la cassetta, affascinata dal brano a lei sconosciuto e dall’oggetto. 

Hirayama si sposta in bicicletta, non parla, rimandando agli eroi altrettanto imperfetti di altre pellicole, tra esse Ferro 3 [19], o Buon giorno del 1959, di Ozu, e in particolare al voto di mutismo messo in atto dai due bimbi Minoru e Isamu, per convincere il padre ad acquistare un televisore. Anche in quella pellicola del cineasta nipponico si assiste a un conflitto generazionale che trascende il dissidio stesso, mostrandoci come il dramma domestico sia sintomo di un dramma più pervasivo, connesso alla occidentalizzazione del Giappone, al dominio del capitalismo rappresentato, nel film di Ozu, dalla tecnologia e dagli elettrodomestici. Esplorando, dunque, la trasformazione di un “continente”, rimasto isolato per anni i due registi, il tedesco e il Maestro giapponese, fanno i conti con il progresso, mentre genitori con idee tradizionali devono adeguarsi al cambiamento e alle richieste dei figli.

Lampi di luce tra i rami

Il termine giapponese Komorebi, 木漏れ日, letteralmente: la luce del sole filtra attraverso il fogliame, restituisce la visione abbagliante del sole tra gli alberi, seguita da un senso di pace indotta dal verde e dai giochi di ombre visibili al suolo o sulle pareti. Tale vocabolo, il dialogo tra bagliore e le ombre creato dalle foglie che ondeggiano al vento, come dice Hirayama «esiste solo una volta, in quel momento», che potrebbe rimandare, metaforicamente, alla possibilità di rendere luminosi passaggi o eventi oscuri dell’esistenza, descrive un “gesto” nodale tra i riti del protagonista. Questi, con una macchina fotografica analogica ogni giorno scatta un’immagine delle fronde illuminate dal sole. Foto in bianco e nero catalogate, esaminate, selezionate e conservate in un archivio domestico. Anche da questa “pratica” trapela la profonda connessione con l’istante presente che non tornerà mai più, mentre esiste, nel contempo, la possibilità di scegliere tra le immagini da strappare e, quasi fossero momenti vissuti, quelle da mantenere.

da Perfect days

da Perfect Days

Anche tale azione implicitamente ci dice quanto l’apparente ripetizione del quotidiano di Hirayama non sia una noiosa routine subita, ma sia di contro frutto di una precisa determinazione consapevole. Comunicandoci, inoltre, l’intima connessione con il “qui e ora” irripetibile che si estende alla vita e ai gesti ordinari. Una specifica modalità dell’essere che porta Hirayama a vivere con la massima intensità ogni istante, presente a se stesso, agendo non per proprio interesse personale, ma in armonia con la realtà cosmica e con i valori estetici tradizionali, con la visione del mondo che si compie attraverso la natura, con la ricerca di una bellezza semplice, in accordo con la natura stessa.

Nel XVIII secolo lo scrittore giapponese Motoori Norinaga (1730-1801), fautore di un’idea contraddistinta dalla purezza e dalla spontaneità naturale dello spirito e dei sentimenti del patrimonio storico del Giappone, riprese il concetto estetico mono no aware che esprime un’intensa partecipazione emotiva nei confronti della bellezza della natura e della vita umana, intrisa di un sentimento di nostalgia per il mutamento incessante. La traduzione italiana di mono no aware, pathos o sensibilità estetica, appare riduttiva. Tale concetto, presente in classici come il Genji monogatari [20], e considerato come un fulcro dell’estetica classica nipponica, si ritrova pienamente nell’essere di Hirayama in risonanza con la bellezza effimera delle cose che svaniscono, in armonia con il fluire del tempo. Accettando la transitorietà e la semplice e austera bellezza delle cose imprecise, la malinconia e il senso di solitudine che riecheggiano nel film e che ritroviamo nella magistrale sequenza conclusiva, mentre alla guida del furgone Hirayama attraversa highways urbane e quartieri residenziali. 

Wim Wenders e Kôji Yakusho

Wim Wenders e Kôji Yakusho

Tokyo, come in Tokyo-Ga, anche in quest’ultimo film di Wenders, ha un grande rilievo, nell’integrazione, molto ben rappresentata, tra le permanenze e l’innovazione. Tra i più recenti progetti urbani uno spicca in numerose sequenze. È la Tokyo Sky Tree (albero del cielo), una torre alta 634 m. che ha una principale funzione radio-televisiva. Progetto presentato nel 2006 e costruito nel 2012, la Tokyo Sky Tree è un elemento catalizzatore della rivitalizzazione urbana. Dotata di una base triangolare, si affusola assumendo, a 350 m., una forma cilindrica. Gli osservatori a 350 m. e a 450 m. consentono di ammirare l’intero paesaggio della “Capitale dell’Est”, Edo, nome storico di Tokyo.

Periferie, viadotti, piccoli parchi dove fermarsi per una breve sosta durante il pranzo, un templio con i suoi “guardiani” e con un monaco al quale Hirayama chiede con gesti misurati il permesso di prendere una piantina nata ai piedi del grande albero, passeggiate in bici per raggiungere il pub tradizionale o un locale (interno alla metropolitana) dove Hirayama si reca abitualmente, per la sua cena. Tutto si ripete, mentre brani come House of the Rising Sun, de The Animals, o come Sittin’ On the Dock of the Bay, di Otis Redding, sottolineano i percorsi e la stessa filosofia del film.

Fautore di una rivoluzione silenziosa Hirayama è dunque un ribelle, per certi versi jüngeriano, non per la sua dissociazione dall’ordine sociale, bensì da una coazione castrante familiare, da una integrazione globalizzata al mondo dei consumi, per salvarsi ed essere integro e profondamente in pace.   

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Tokyo-Ga è un documentario del 1985 presentato al Festival di Cannes del 1985, e dedicato al regista Yasujirō Ozu.  Fu realizzato nella primavera del 1983, durante una pausa delle riprese del film Paris, Texas. Tokyo-Ga, montato nel 1985, mostra frammenti e panoramiche della città, alternando tali immagini a interviste condotte ai collaboratori di Ozu, tra essi l’attore Chishū Ryū e il direttore della fotografia Yuharu Atsuta. In giapponese “Ga” (画) significa “immagini”, “fotogrammi”.
[2] Interpretato dall’attore giapponese Kôji Yakusho (al secolo KôJi Hashimoto, nato nella prefettura di Nagasaki nel 1956), il film è frutto di una coproduzione Germania-Giappone, lungo 123 m., vede altri interpreti, tra cui: Yumi Asô, Tokio Emoto, Sayuri, Ishikawa, Tomokazu Miura, Arisa Nakano, Min Tanaka, Aoi Yamada. Kôji Yakusho dopo il diploma al liceo tecnico ha lavorato in un dipartimento di ingegneria civile. Trasferitosi a Tokyo, ha cominciato la sua carriera di attore di teatro, giungendo nel 1979 al debutto cinematografico con il film Yami no karyudo di Hideo Gosha, cui seguiranno alcune pellicole dirette da Kivoshi Kurosawa. Dotato di un timbro vocale profondo, nel 1996, recita nell’originale Shall we dance?; vincitore  di numerosi premi in Giappone, nel 1997 è protagonista  del film Le anguille di Shohei Imamura e di Acqua tiepida sotto un ponte rosso del 2001. Interprete di Nobu in Memorie di una geisha del 2005, recita in Castigo del 2006, in Babel del 2006, e nella co-produzione italo-giapponese Seta del 2007. Con Takashii Miike partecipa al remake 13 assassini, del 2010. Nel 2011 interpreta l’ammiraglio, in Isoroku Yamamoto, the Commander-in-Chief of the Combined Fleet, film biografico di Izuru Narushima. Recita in una commedia nel 2013 di Kôki Mitani, The Kiyosu Conference. Nel 2014 vince come Migliore attore al Sitges International Film Festival della Catalogna con un film distribuito a livello internazionale, The World of Kanako di Tetsuya Nakashima. Nel 2015 si impegna in un doppiaggio nel cartone animato di Mamoru Hosoda, The Boy and The Beast. Protagonista del thriller Il terzo omicidio, del 2017, vince il premio per la migliore interpretazione maschile al Festival di Cannes 2023 in Perfect Days, di Wenders. 
[3] Viaggio a Tokyo (東京物語?Tōkyō monogatari, lett.: Una storia di Tokyo, vede Shūkichi e Tomi Hirayama, coppia di settantenni, in viaggio verso Tokyo per incontrare i figli, presi dalle proprie vite e poco disposti a dedicare tempo ai vecchi genitori. Essi vengono, invece, accolti dalla nuora, vedova da otto anni del secondo genito. Per Tomi sarà l’ultimo viaggio, giunta infatti a Onomichi, loro città di residenza, muore. I figli si recheranno al capezzale della madre, ma solo la nuora resterà un po’ di più riservando cure e gentilezza per l’anziano suocero. La disgregazione familiare coincide, nella visione del regista, con il processo di occidentalizzazione del Giappone, ben visibile a Tokyo, centro della contaminazione e della modernizzazione.
[4] Titolo originale: 秋刀魚の味, Sanma no aji, 113 m., produzione giapponese, introduce nuovi temi oltre a quelli già trattati dai film del Maestro.
[5] Tale tecnica (in parte riproposta in Perfect Days, per alcune scene domestiche), che nasce da un’attenta inquadratura dal basso, come se l’operatore fosse seduto su un tatami, è, in Ozu, unita a riprese fontali realizzate con un obiettivo da 50 mm (abbastanza affine alla visione dell’occhio umano), e a ridotti movimenti della camera. Come afferma lo studioso Noël Burch, in Form and meaning in Japanese cinema, 1979, University of Michigan Library, queste inquadrature sono istanti che “sospendono il flusso diegetico, senza mai contribuire all’avanzamento della trama in sé”, e sono come afferma Gilles Deleuze in L’immagine-tempo. Cinema, una “rappresentazione del tempo”.
[6] Wenders sceglie questo formato, non il panoramico 16:9, che permette di seguire più da vicino il protagonista. Tale formato, comunque, è utilizzato in questo periodo anche nel cinema italiano, a esempio nei film: Nostalgia di Mario Martone, Marcel! di Jasmine Trinca, Le vele scarlatte di Pietro Marcello e Le otto montagne di Van Groeningen e Vandermeersch.
[7] Nello shintoismo vengono allestiti altarini chiamati kamidana, su cui viene posto uno specchio e vari oggetti sacri acquistati presso i templi. L’altare viene utilizzato per offrire preghiere alle divinità ed è arricchito con sale, riso o acqua.
[8] Sapete, il segreto del vasaio è fare il vaso ogni volta come se fosse la prima volta; per il nostro uomo, Hirayama, è lo stesso. Ogni giorno agisce come se fosse la prima. Non pensando a come lo abbia fatto ieri, né a come lo farà domani. Agisce sempre in un preciso momento. Anche questo è il segreto del vasaio. Ed è questo che dà tutta una differente dignità a ogni ripetizione.
[9] Anche se in Giappone i bagni pubblici hanno uno standard igienico elevato, l’uso appare comunque limitato per alcuni pregiudizi comuni che li definiscono poco luminosi, sporchi, maleodoranti, non sicuri. Pertanto e per renderli accessibili a tutti indipendentemente da sesso, età o disabilità le nuove toilette hanno cercato di ovviare a tali irrisolti, grazie all’intervento della Nippon Foundation e al governo urbano della municipalità di Shibuya.
[10] A Shoto Park, il progetto ha previsto cinque capanne coperte da persiane in cedro, connesse a una passeggiata nel boschetto che simula quasi una foresta. Gli edifici separati configurano una sorta di villaggio, attraversato dal vento. Walk in the Woods, nome del progetto, contiene uno spazio dedicato ai bimbi, con fasciatoi e piccole toilette.
[11] Il bagno pubblico del progettista di Osaka, sito a Jingu-Dori Park, è noto come “Amayadori”, a pianta circolare con un tetto a due ante e un’engawa (veranda coperta con il tetto spiovente, tipica dell’architettura tradizionale giapponese), è disegnato come uno specifico luogo nel paesaggio urbano in grado di riqualificare e dare valore pubblico all’intero quartiere. Uno spazio confortevole dove gli utenti possono muoversi all’interno della parete cilindrica, formata da persiane verticali, per avvertire vento e luce dell’ambiente circostante.
[12] Il terzo bagno raggiunto da Hirayama, progettato da Toyo Ito, è stato edificato in sostituzione di un precedente blocco di servizi, ai piedi di una rampa di scale che conduce al santuario shintoista Yoyogi Hachimangu, dedicato al dio della guerra Hachiman, protettore dei samurai.  
[13] Il primo bagno pulito da Hairayama è sito nell’Ebisu East Park, noto come Octopus Park per la presenza di uno scivolo a forma di polipo, ed è progettato dall’architetto giapponese Fumihiko Maki, nato a Tokyo nel 1928. Allievo di Kenzō Tange e formatosi poi negli Stati Uniti, Fumihiko Maki, vincitore del Premio Pritzker nel 1993, ha sviluppato un linguaggio proprio integrando materiali come acciaio, vetro, con il legno e il mosaico. L’Ebisu East Park, parco di quartiere utilizzato come spazio giochi, è ricco di vegetazione; il bagno, fungendo anche da padiglione e luogo di sosta, vi si inserisce ri-polarizzando il luogo e caratterizzandolo attraverso forma, materiali e colore. I blocchi, sormontati da un tetto sottile, circondano un cortile al cui interno vi è un piccolo albero.
[14] Nato a Tokyo nel 1957, formatosi negli Stati Uniti, ha brevemente lavorato con Arata Isozaki. L’architetto è noto soprattutto per la sperimentazione nel campo delle tensostrutture realizzate con materiali a basso costo, come il cotone o il bambù. Nel 1995, post terremoto di Kobe, progettò un prototipo di casa per accogliere gli sfollati, 16 mq con pareti di tubi di cartone e fondazioni realizzate con bottiglie di birra riempite di sabbia. Unendo tradizione e innovazione ha realizzato vari edifici residenziali; nel 2009 ha presentato un progetto per il Conservatorio dell’Aquila, post terremoto in Abbruzzo. Nel 2014 vince il Pritzker per l’architettura; nel 2020 ha firmato, insieme a una vasta compagine di insigni protagonisti, l’appello per una “economia viola”, che integra i valori culturali in economia, tesa a adattarsi alla diversità umana nel contesto della globalizzazione, partendo dalla dimensione culturale per valorizzare beni e servizi.
[15] Ad Haru-no-Ogawa Community Park. In questo blocco predominano i verdi e i blu.
[16] Anch’essa un luogo, una biblioteca più che una semplice libreria, che sfugge alla modernizzazione. Un altro segnale della stretta relazione affettiva tra Wenders e Hirayama emerge dalla scelta di quest’ultimo che prende un romanzo di Patricia Highsmith, mentre la proprietaria della libreria afferma che la scrittrice americana sappia tutto sull’ansia, è naturale pensare al film L’amico americano (Der amerikanische Freund), del 1977, tratto proprio da un’opera, Ripley’s Game, della Highsmith, del 1974.
[17] Rock classico, pop vintage, musica giapponese, su vecchie audiocassette. Perfect Day, Lou Reed; Pale blue Eyes, The Velvet Underground; House of the Rising Sun, The Animals; (Sittin’ On) the Dock of the Bay, Otis Redding; Redondo Beach, Patti Smith; (Walkin’ Thru The) Sleepy City, The Rolling Stones; 青い魚, Sachiko Kanenobu; Sunny Afternoon, The Kinks; Brown Eyed Girl, Van Morrison; Feeling Good, Nina Simone.
[18] Sia riguardo ai brani scelti, sia alle liriche degli stessi brani.
[19] Ferro 3 – La casa vuota è un film del 2004, diretto dal regista sudcoreano Kim Ki-duk. Il protagonista Tae-suk, che non parla, si introduce all’interno di varie case momentaneamente disabitate, cura le piante, aggiusta gli oggetti rotti, lava i panni e la casa stessa e va via prima del ritorno dei proprietari. Una volta arrestato sviluppa una tecnica che, sfruttando i punti morti del campo visivo umano, lo rende invisibile: riesce a simulare così la sparizione nella cella, senza mai evadere.
[20] Il racconto di Genji è un romanzo dell’XI secolo, della poetessa e scrittrice Murasaki Shikibu vissuta nel periodo Heian. È uno dei capolavori della letteratura giapponese e mondiale. Spesso ci si riferisce a esso come al primo romanzo moderno o al primo romanzo psicologico.

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Flavia Schiavo, architetto, architetto del paesaggio e PhD in Pianificazione Territoriale. Prof.ssa Associata presso la Università degli Studi di Palermo, insegna Urbanistica (Laurea in Urbanistica e Scienze della Città) e Laboratorio di Progettazione urbanistica (Corso di Laurea in Architettura). È componente del Collegio dei docenti del Dottorato di ricerca in Architettura, Arti e Pianificazione. Ha al proprio attivo numerose pubblicazioni (saggi e monografie), in italiano e in inglese, che sviluppano articolati temi di ricerca: fonti non convenzionali (letteratura e cinema per interpretare città e territorio); linguaggio urbanistico; partecipazione, conflitti, azioni e pratiche bottom-up in ambito urbano; parchi e giardini; sviluppo e questioni sociali, economiche e antropologiche nel contesto della Rivoluzione Industriale; arte, culture urbane e contaminazioni. Tra i titoli delle monografie: Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004, Sellerio, Palermo; Tutti i Nomi di Barcellona, 2005, FrancoAngeli, Milano; Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City, 2017, Castelvecchi, Roma; Lettere dall’America, 2019, Torri del Vento, Palermo; New York: entre la tierra y el cielo, Ediciones Asimétricas, Iniciativa Digital Politècnica, Barcelona, Madrid, 2021; Lo schermo trasparente. Cinema e Città, Castelvecchi, Roma, 2022; Nata per correre. New York City tra il XIX e gli inizi del XX secolo, Aracne, Roma, 2023; 8 lezioni newyorchesi. La Democrazia delle Città, la Democrazia della natura, Il Sileno edizioni, Cosenza, 2023. Fa parte di Comitati scientifici di prestigiose collane editoriali (FrancoAngeli) e di Riviste del settore. Ha organizzato seminari, simposi, meeting, convegni nazionali e internazionali e ha condotto lunghi periodi di ricerca in Italia e all’estero, in Europa (UAB, Barcellona) e recentemente negli Stati Uniti (Columbia University, New York City). 

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