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La tradizione della ḥalqa dei racconti. Il caso di Marrakech

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l’Ḥajj Ahmed Ezzarghani, Cafe Clock, storytelling session (ph. Scopelliti)

di Erika Scopelliti

Il contenuto di questo articolo è frutto di un lungo lavoro di ricerca portato avanti durante due esperienze di studio a Marrakech, di sei e dieci mesi rispettivamente, durante le quali sono entrata in contatto e ho potuto studiare il lavoro dei maestri contastorie. Il materiale bibliografico consultato è accompagnato da informazioni raccolte attraverso le interviste esclusive realizzate sul campo e l’esperienza diretta con i contastorie. Elias Canetti in The Voices of Marrakech scrive:

«Their words come from farther off and hang longer in the air than those of ordinary people. I understand nothing and yet whenever I came within hearing I was rooted to the spot by the same fascination. They were words that held no meaning for me, hammered out with fire and impact: to the man who spoke them they were precious and he was proud of them» (Canetti, 1968:74).
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Piazza Jeema el Fna, Marrakech (ph. E. Scopelliti)

La ḥalqa

Il termine ḥalqa indica il cerchio di spettatori che si forma attorno a un performer, costituisce un modo di dividere lo spazio tra pubblico e artista, chiuso al suo interno ma sempre aperto ad accogliere nuovi curiosi e passanti all’esterno. È lo stile performativo più comune e significativo in Marocco ma anche nel resto del mondo arabo. La ḥalqa è un tipo di performance proprio degli spazi aperti, è facile trovarla nelle piazze delle antiche città, o nei mercati dei piccoli villaggi.

Gli ḥlaiqi possono esibirsi in diverse abilità: sono danzatori, musicisti, comici, contastorie, giocolieri, fachiri o incantatori di serpenti. Per questo, soprattutto nei grandi spazi, come le piazze, è possibile trovare diverse ḥalqa, ognuna con le proprie caratteristiche.

La ḥalqa può essere considerata una forma arcaica di teatro. Il pubblico viene chiamato a creare spontaneamente un arco che circonda lo spettacolo da tutti i lati, lo spazio dell’ḥlaiqi non è uno spazio definito e la performance può avvenire in ogni momento. Ogni spazio può rappresentare il palco e l’intero cerchio, che comprende sia l’area nella quale l’artista si muove ma anche lo spazio occupato dallo stesso pubblico, costituisce l’area performativa.

La tradizione della ḥalqa è molto antica, risale ad una pratica ṣūfī del IX secolo, quando gli studenti si mettevano a cerchio intorno al capo religioso. La trasmissione dell’arte della ḥalqa è qualcosa di complesso. Fatto di codici precisi, di rispetto tra un artista e un altro. Se ad esempio un ḥlaiqi si istalla vicino ad un altro, si reca dal primo per informarsi se ha già proceduto alla fātḥa, la raccolta del denaro. Se il primo non ha ancora effettuato la fātḥa, egli si allontana di un paio di metri, attendendo la raccolta, prima di insediarsi a sua volta.

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Abderrahim El Maqouri, storyteller Dar Bellarj, Marrakech (ph. E. Scopelliti)

La ḥalqa dei racconti

Tra i vari tipi di ḥalqa, quella dei racconti rappresenta una delle più significative. L’arte della narrazione ha radici antiche nel mondo arabo, essendo coeva al primo teatro comico greco o romano. Irwin afferma che la parola ḥikāyah che in arabo vuol dire storia, originariamente significava mimica, cosi gli ḥakawātī, contastorie, erano mimi che non solo imitavano il diverso accento delle persone ma anche suoni di animali o elementi naturali.

Questa pratica in Marocco probabilmente risale a prima dell’invasione araba del VII secolo, per le tribù berbere infatti raccontare storie era parte integrante della vita quotidiana. Prima della dominazione e della creazione delle grandi città, i contastorie viaggiavano di paese in paese, di mercato in mercato raccontando la vita nelle altre regioni, quasi come un mezzo di comunicazione odierno. I primi contastorie di mestiere lavoravano nelle antiche medine, ma la loro condizione era precaria e per questo cercavano di incrementare le entrate vendendo anche pozioni e talismani. A Marrakech la prima testimonianza risale al XVII secolo.

La ḥalqa delle storie era un fenomeno tipico in Marocco, la gente si radunava attorno a un contastorie, la storia cambiava ogni giorno, o riprendeva dal punto in cui era stata interrotta il giorno prima, il contastorie era sempre lì, un appuntamento fisso per gli appassionati. Jāma‘ Al Fnā’, la più importante piazza di Marrakech, era, un tempo, un luogo guidato dal potere evocativo della parola, dove la gente si incontrava per ascoltare i racconti: era un modo per trasmettere emozioni e nello stesso tempo aiutare il progresso sociale ed economico del luogo.

I contastorie in Marocco sono generalmente uomini, sebbene oggi alcune ragazze si mostrino interessate ad apprendere il repertorio popolare per magari esibirsi durante alcuni eventi. Esempi di contastorie donna si trovavano più frequentemente in Tunisia, dove sono presenti un numero maggiore di ḥlaiqi donne. Tuttavia le storie sono perlopiù storie da uomini e per uomini. Anche la maggioranza dei partecipanti alla ḥalqa è rappresentata da gruppi maschili, di bassa o media condizione sociale. Poche donne partecipano, l’età è varia, si possono incontrare bambini e giovani ma anche persone anziane. Il ruolo di contastorie in ambienti pubblici è storicamente infatti assegnato agli uomini mentre le donne hanno questo stesso ruolo nell’ambiente domestico familiare.

I contastorie erano rispettati dalla comunità e le storie contenevano tensioni, amore, buone e cattive azioni e a volte qualche dettaglio piccante. Le piazze dove si esibivano erano posti liberi, in cui potevano esprimere la loro visione della vita e dell’amore, o anche, con molta cautela, della politica. Quest’arte si diffuse velocemente e i vari contastorie si specializzarono in diversi tipi di narrazione. Ognuna aveva il suo pubblico, nelle piazze più importanti si potevano trovare contemporaneamente un contastorie raccontare Le Mille e una Notte, un altro il poema epico di Azaliyah, un altro storie religiose, un altro ancora battaglie eroiche.

La tradizione orale marocchina è molto ricca e variegata. Comprende opere classiche (Le Mille e una Notte, Sīrat ‘Antar, le chansons de geste), leggende popolari (Juḥā,ʿAīsha Qandīsha,) pantomime e burle, ma anche indovinelli, miti, proverbi e ninne nanne. Alcune storie però non sono mai state scritte, venivano raccontate e trasmesse oralmente di generazione in generazione; un esempio è il genere del malḥūn, un poema cantato. Come afferma Richard Hamilton infatti, «the storyteller is a mobile library, a one-man cinema and an almost limitless audio book, all rolled into one» (Hamilton, 2011:13).

Mohamed Amine Iziki, Piazza el Hedim- Meknes (E. Scopelliti).

Mohamed Amine Iziki, Piazza el Hedim Meknes (ph. E. Scopelliti)

 Non appena creata la ḥalqa, il contastorie si rivolge al pubblico per ottenere la benedizione del Profeta, il pubblico ripete in coro insieme a lui, la storia ha così inizio. Ci sono delle formule fisse che variano a seconda del tema della narrazione e della tradizione alla quale l’ḥlaiqi appartiene. Le storie marocchine iniziano sempre con un’invocazione ad Allah. La prima parte della narrazione è solitamente usata per stabilire una relazione tra il contastorie e il pubblico e introdurre la scena dove si svolgeranno gli eventi narrati. Il narratore incorpora alcune formule prestabilite per iniziare la narrazione, esse ci trasportano in luoghi e tempi lontani, indefiniti e imprecisi, ove si situano le vicende. Queste formule iniziali non hanno come scopo avvicinare il pubblico al racconto, bensì situarlo in un’epoca più lontana possibile, in modo da creare una distanza tra colui che riceve e la storia stessa. In Marocco una delle frasi introduttive più usate è: «Kān yāmā kān…»,in italiano equivale al classico «C’era una volta…». Viene allora presentato generalmente il personaggio principale e gli eventi della narrazione iniziano a svilupparsi. La storia è intercalata da pause, generalmente utilizzate per procedere alla fātḥa, anch’essa accompagnata da formule e benedizioni. Un’altra caratteristica è l’uso frequente del ta‘rījah, una specie di tamburello, nel bel mezzo della storia, per diversi motivi: chiedere a Dio una supplica dicendo «ṣalū ‘la nabī»pray upon the Prophet»), o ringraziare Dio con «alḥamdulillah» («praise be to God»), o invocarlo dicendo «inshā‘llah» («God-willing»).

Molte formule vengono anche usate per terminare il racconto, tra esse: «ḥjāytnā mshāt ma‘a alwād waḥnā bqīnā ma‘a alnāss aljawād», tradotto in italiano come «La nostra storia è andata via con il fiume e noi rimaniamo qui con la gente misericordiosa». Le formule spesso hanno a che fare con la religione. Dio è rappresentato come onnipotente, l’uomo non può nulla contro di Lui. L’utilizzo di metafore e citazioni religiose nel corso della narrazione ha come intento principale il guadagnarsi la confidenza del pubblico e provocarne la generosità.

L’improvvisazione è fondamentale nell’arte del racconto. In modo da rendere viva la storia all’interno della ḥalqa il contastorie fa uso del suo ingegno per catturare l’attenzione del pubblico: cambiare nomi, eludere azioni, impiegare formule ripetitive per preservare la memoria e fare digressioni sono alcuni dei esempi più chiari. La rappresentazione poi è arricchita da vari elementi, strategie che vanno oltre la lingua e completano ciò che viene detto, come ad esempio una voce forte e l’utilizzo di frasi brevi.

Una tecnica importante è alternare pause di silenzio. Quando qualcosa non viene detta possono esserci due ragioni: può essere al di sopra del linguaggio e quindi impossibile da esprimere, o al di sotto, ciò che già si sa e per questo si tace. Ciò che viene detto si appoggia a ciò che viene taciuto, quando si tacciono temi tabù come sesso, religione o politica, si può intuire dal contesto. Ogni contastorie poi mette il proprio tocco personale, espressioni che lo distinguono dai suoi colleghi. La comunicazione non verbale è vitale, i gesti hanno un potere comunicativo immediato pari a quello della parola, la postura esprime anche uno stato d’animo, i piedi decidono la forma del corpo, ed esso determina la voce e la tonalità. Le storie vengono rese vive, grazie alla perfetta combinazione tra codice linguistico e non verbale: il linguaggio fa spesso uso di metafore e similitudini, onomatopee, rime, corredato da espressioni facciali, postura, gesti e all’eventuale uso di strumenti musicali. L’accento, le pause e il volume della voce, così come il suo ritmo, sono manipolati per comunicare un messaggio.

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Mohamed Amine Iziki, Cafe Clock, storytelling session (ph. E. Scopelliti)

Marrakech – Jāma‘ Al Fnā’

Nella città di Marrakech, il luogo emblematico dove poter conoscere i diversi tipi di arte di strada tradizionali, nella classica forma circolare di ḥalqa, è indubbiamente la piazza Jāma‘ Al Fnā’ (الفنا جامع), che è parte della città sin dalla sua fondazione avvenuta durante l’XI secolo. È una delle piazze più conosciute al mondo e sicuramente la più importante in Marocco, grazie al ruolo economico e culturale che svolge nell’Africa del nord e nel mondo arabo più in generale. Il suo valore culturale è stato confermato e la sua reputazione è cresciuta dopo il 2001 quando l’UNESCO ha dichiarato la piazza patrimonio culturale immateriale dell’umanità.

Marrakech fu fondata verso il 1070 dalla dinastia Almoravide, che la nominò capitale del suo regno. La piazza esisteva già ma non occupava uno spazio ben definito, in quanto condivideva parte del territorio con la moschea e con il palazzo dell’emiro. Diverse cronache parlano di una raḥbah, uno spazio pianeggiante non lontano dalla moschea della Kutubya, in altre si legge di una raḥbaht al qaṣr (il cortile del palazzo), l’equivalente di un cortile appartenente al palazzo reale dove si poteva assistere all’esecuzione dei criminali. Il palazzo in questione è il famoso qaṣr al ḥajar, le cui rovine sono tuttora visibili accanto alla moschea della Kutubya.

Con la dinastia Almohade, la città di Marrakech divenne un polo commerciale, centro di scambi tra il Marocco, l’Europa e il resto dell’Africa. Si può affermare pertanto che il ruolo della piazza come punto di incontro dei mercanti è sempre stato significativo. La sua ricchezza culturale è uno dei vettori più significativi per lo sviluppo del turismo che interessa un gran numero di persone e la piazza Jāma‘ Al Fnā’ rappresenta uno spazio turistico per eccellenza in quanto dispone di una quantità notevole e varia di risorse, attività differenti che fanno conoscere a tutti coloro che vi si recano diversi savoirs et savoir-faires della cultura marocchina.

Oggi però l’utilizzo della piazza è cambiato: le attività commerciali e i ristoranti hanno occupato lo spazio una volta adibito alle attività culturali che si trovano relegate ai margini. Soddisfare i bisogni della clientela turistica è un dovere per un Paese in cui il turismo è un importante fattore economico, ma ciò minaccia indubbiamente l’autenticità del luogo.  Come mette in evidenza il lavoro di ricerca Jamaa el-Fna: tourisme et durabilità, la presenza turistica comporta la «folklorisation de la culture» definita come:

«l’utilisation des ressources du patrimoine culturel d’un territoire pour sa promotion touristique, mais en en donnant une image fausse, exagérée, figée, qui n’est pas en accord avec la réalité en créant des identités fausses, basées sur des clichés ou stéréotypes, sur des traditions désuètes, afin de continuer à attirer des visiteurs» (Amzzough, 2014: 94).

 Nella piazza si può assistere a tutto ciò, le tradizioni culturali sono semplificate e volgarizzate per la semplice ragione di attirare turisti. Gli artisti della piazza esercitano la loro arte, che sia suonare musica tradizionale, ipnotizzare serpenti, o altro; quando però ci si rende conto che il sapere viene messo da parte e l’obiettivo della performance diventa convincere il turista a lasciare del denaro per una foto, essi rendono la loro arte un mero prodotto commerciale e la privano di ogni valore.

Parlando di salvaguardia, Lauriel J. Sears si chiede se la piazza possa in qualche modo essere preservata senza diventare una versione “Disney” di ciò che era prima: molti viaggiatori infatti credono che le performance siano ormai solo un teatro per turisti (Schmitt, 2005: 180). La “Disneyficazione” temuta, è purtroppo divenuta realtà. I turisti che soggiornano a Marrakech solo per alcuni giorni non saranno in grado di giudicare il valore culturale della piazza e delle sue performance, per esempio dei contastorie.

Il materiale della piazza era originariamente concepito per i visitatori marocchini, la barriera linguistica infatti separa spesso coloro che mettono in scena la performance dai turisti stranieri, le uniche attività senza questa barriera sono i musicisti e gli acrobati, spesso sono gli stessi attori a coinvolgere i turisti stranieri nelle esibizioni.

 Dar Bellarj, Marrakech (ph. E. Scopelliti).

Dar Bellarj, Marrakech (ph. E. Scopelliti)

Lavorare alla piazza però, oggi come allora, ha sempre comportato un altro genere di rischi. Un tempo infatti non era un lavoro ben visto, alcuni animatori furono costretti a lavorare in incognito per paura che le loro famiglie li scoprissero. Sono diversi i problemi che i vari artisti devono affrontare: un esempio è la commercializzazione delle loro performance senza il loro consenso, spesso vengono filmati e registrati senza saperlo; inoltre l’occupazione di gran parte della piazza da parte di chioschi e attività commerciali è un duro colpo per gli ḥlaiqi. Oggi purtroppo non ci sono più contastorie che esercitano in piazza, poiché la situazione odierna non permette loro di avere una vita dignitosa lavorando lì. Il loro numero è inoltre in continua diminuzione, molti sono ormai troppo anziani o malati e non vi è un ricambio generazionale.

Secondo Ouidad Tebbaa, la piazza, nonostante la nomina da parte dell’UNESCO, resta il luogo della perdizione per i marrakchi. «Nelle ḥalqa troviamo i temi della rivolta, della fuga, dell’essere erranti, come se una chiamata da fuori sia una esigenza interiore e segreta che impone loro di mettersi a rischio» (Tebbaa, 2003: 31).

L’apprendimento dell’arte del racconto è composto da varie tappe, stazioni di ricerca: si va di piazza in piazza, si osservano i maestri all’opera, si cerca di imitarne le movenze, le espressioni, e ad ogni passo ci si arricchisce un po’, si riempie il bagaglio di qualcosa in più prima di giungere alla grande prova: alla fine Jāma‘ Al Fnā’, come un apoteosi, mette fine all’errare e realizza la vocazione.

Il patrimonio culturale che caratterizza la piazza ha come fonte un patrimonio orale ancestrale. Gli stessi contastorie dichiarano che le loro fonti sono le Mille e una Notte, le leggende epiche greche, le favole a tema fantastico, ma anche epopee storiche. Nelle storie si riconoscono le radici della letteratura scritta occidentale. Questo patrimonio si esprime in una lingua dialettale, mescolata all’arabo, che usa termini propri degli stessi attori. Oggi esso è in pericolo, la prova è che la catena di trasmissione del sapere che lega maestro e allievo si è come spezzata, ciò ci ricorda come questo sapere debba essere protetto, così come il desiderio dei contastorie di raccontare. Come sostiene Ouidad Tebbaa, il patrimonio immateriale è frutto della maestria e dell’arte di persone. Le persone sono più difficili da preservare rispetto ai luoghi.

Diventare un ḥlaiqi è il risultato di anni di apprendistato e sacrifici. L’esercizio del mestiere di ḥlaiqi è sottomesso ad abitudini e condizioni, tra cui avere il sostegno del capo della corporazione; per iniziare a esibirsi in piazza bisogna essere accompagnati da un professionista, qualcuno a cui si obbedisce e si deve rispetto, la maggioranza ha appreso con gli anziani, imparando i racconti a memoria, grazie a lunghe ore di osservazione e ascolto. Era consuetudine che gli anziani prendessero i nuovi arrivati e insegnassero loro ad animare le performance così da renderli meno timidi e far interessare il pubblico. Jāma‘ Al Fnā’ è comunque un esempio unico nella trasmissione orale della cultura popolare. Si accede direttamente al sapere, la ḥalqa  può avere come soggetti di narrazione: racconti, aneddoti, storie di guerra, recitazione del malḥūn, lettura di poemi d’amore o lettura del Corano.

«Y día tras día se produce el milagro: las palabras quedan escritas sin escribirse en la Plaza. La Plaza no es redonda ni cuadrada: no tiene bancos, ni arriates, ni flores, ni árboles; por no tener, ni siquiera tiene palmeras. A esta hora del día está desierta, desnuda, solitaria y yerma. En realidad, no sé por qué la llaman, del Fnà –de la aniquilación, de la desaparición- si es un lugar que incita a la fiesta, la risa, la locura, la fantasía y la nostalgia de la niñez» (Goytisolo, 2003:54).
L'Hajj Ahmed Ezzarghani - Cafe Clock, storytelling session - Marrakech (ph. E. Scopelliti).

L’Hajj Ahmed Ezzarghani,  Cafe Clock, storytelling session, Marrakech (ph. E. Scopelliti)

La salvaguardia della tradizione

Nonostante il periodo di crisi vissuto dai contastorie della piazza, in questi ultimi anni, diverse personalità si sono interessate al futuro della tradizione del racconto orale in Marocco. Si è infatti assistito a una presa di coscienza generale riguardo alla problematica della trasmissione di questa antica arte alle nuove generazioni. I vari dibattiti sul tema hanno sottolineato l’importanza delle famiglie e delle scuole in questo processo che dovrebbe essere portato avanti sin dalla più tenera età. Ma fondamentale è anche far conoscere quest’arte, oltre che ai giovani marocchini, anche a tutte le altre persone che, vivendo o semplicemente viaggiando in Marocco, tuttora ignorano un patrimonio orale ricchissimo. Soprattutto nel secondo caso, è importante superare la barriera linguistica che si crea con coloro che non parlano l’arabo marocchino e che, soprattutto per questa ragione, non hanno avuto la possibilità di entrare in contatto con questa parte della cultura marocchina. Significativi a questo proposito sono il lavoro di Thomas Ladenburger con il progetto Al Halqa e il programma di storytelling del Cafe Clock di Mike Richardson.

Al Halqa Project è un progetto condotto da Thomas Ladenburger che ha avuto inizio con la realizzazione del film documentario Al Halqa – In the Storyteller’s Circle uscito nel 2010. Il film, ambientato principalmente a Marrakech, racconta, in 90 minuti, il processo di trasmissione dell’arte della narrazione di storie popolari di padre in figlio. Il protagonista Abderrahim El Maqouri, contastorie sin da bambino, insegna al figlio Zoheir i segreti del mestiere di ḥakawātī, e attraverso un viaggio a Fes, la capitale culturale del Marocco, il ragazzo vive un vero e proprio processo di iniziazione ad un mestiere ormai quasi del tutto scomparso. Abderrahim ha esercitato per molti anni nella piazza principale di Marrakech, dove ha imparato le storie che poi a sua volta ha iniziato a raccontare. Come afferma lui stesso nel documentario, «Jāma‘ Al Fnā’ madrasa» («Jāma‘ Al Fnā’è una scuola»).

 Il documentario è un esempio di amore per la tradizione e un tentativo di trasmissione di un sapere antico in un’epoca che rende difficile la sopravvivenza di determinati elementi culturali. È stato presentato in diversi festival in giro per il mondo e ha ricevuto due premi, nel 2010 una Menzione Speciale della Giuria al 24esimo Festival Internazionale di Antropologia Visuale di Pärnu (Estonia) e nel 2011 un premio dal Comitato organizzativo del Festival Flahertiana a Perm, in Russia. Nel 2011, è stato inaugurato Al Halqa Kinetics, seconda parte del progetto, presentato al Haus der Kulturen der Welt di Berlino. A Marrakech, uno dei luoghi significativi per il progetto Al Halqa è sicuramente la Fondazione Dar Bellarj che dal dicembre 2015 fino al novembre 2016 ha ospitato l’esposizione di Thomas Ladenburger Al Halqa – Les Trésors Humains de Jemâa el Fna.

La fondazione è situata nel cuore della madīna di Marrakech, e il suo scopo principale è la conservazione della cultura vivente della città attraverso la trasmissione di tradizioni e il riconoscimento di coloro che detengono e possono trasmettere questo patrimonio. Significativi sono anche gli eventi con lo scopo di sensibilizzare le nuove generazioni riguardo al tema della narrativa orale. Dar Bellarj è uno spazio creato principalmente per i marocchini ma che, nello stesso tempo, può contribuire a far conoscere questo aspetto culturale anche ai visitatori stranieri. Ascoltare le storie attraverso lettori mp3 o assistere a proiezioni video rappresenta un tentativo di salvaguardia di queste storie, pur comportando la perdita di alcuni elementi fondamentali quali l’improvvisazione e l’importanza della gestualità.

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Terrazza del Cafe Clock, Marrakech (ph. E. Scopelliti)

Cafe Clock

Un altro luogo importante a Marrakech per la tutela della narrativa orale è sicuramente Cafe Clock. Situato tra le stradine della kasba, questo caffè interculturale ospita diverse attività tra le quali prevalgono gli appuntamenti sulla narrazione delle storie tradizionali, due volte la settimana. Idea concepita dall’inglese Mike Richardson, il caffè apre la sua sede di Marrakech agli inizi del 2014, dopo sette anni dall’apertura della sua prima sede a Fes. Cafe Clock Marrakech è uno spazio culturalmente significativo. Il programma sulla narrazione rappresenta qualcosa di innovativo. Per la prima volta infatti, si ha l’opportunità di ascoltare le storie popolari, una volta raccontate in piazza Jāma‘ Al Fnā’, in uno spazio chiuso sia in lingua inglese che in dārija.

Con la creazione del programma dedicato alle storie popolari, diversi studenti, pazientemente seguiti dal maestro contastorie l’Ḥajj Ahmed Ezzarghani, lavorano duramente per mantenere viva questa tradizione e renderla fruibile anche agli stranieri. Gli apprendisti incontrano l’Ḥajj la domenica mattina, ricevono le loro storie, e nel corso della settimana si esercitano a raccontarle, alcuni di loro dopo averle tradotte in inglese. Le performance avvengono il lunedì e il giovedì sera. Le sessioni si aprono con la presentazione del programma che spiega al pubblico presente la situazione della letteratura orale in Marocco e l’importanza di questo programma dal punto di vista culturale. Successivamente viene dato spazio alle storie. Le storie in dārija sono spesso tradotte per il pubblico o la loro traduzione è rimandata alla sessione successiva.

L’apprendista Mohamed Amine Iziki afferma:

«Quando ricevo una storia, estrapolo le idee e gli eventi principali e le caratteristiche di luoghi e personaggi, poi traduco il tutto in inglese, in un modo nel quale un anglofono possa capire. [...] quindi prendo la storia, la riformulo e inizio a raccontarla, parte dopo parte, cercando di assicurarmi che suoni bene, che non sia ripetitiva e che il significato non si perda tra le parole. Quando ritengo che abbia raggiunto la forma definitiva, mi esibisco davanti al pubblico, cercando di abbinare il linguaggio del corpo alle mie parole».

L’Ḥajj sostiene di essersi trovato quasi per caso a ricoprire il ruolo di maestro contastorie all’interno del programma:

«Alcuni giornalisti stranieri stavano scrivendo riguardo alla cultura di Marrakech e avevano bisogno di qualcuno che ne parlasse, mio figlio si trovava al Cafe Clock e suggerì loro di chiamarmi. Dopo aver parlato di Marrakech, mi chiesero di raccontare una storia. Il manager di quel tempo allora mi chiese se fossi interessato ad insegnare a giovani studenti, così accettai».

La maggioranza degli apprendisti si esibisce in lingua inglese, ma ad ogni sessione il pubblico ha la possibilità di ascoltare una storia direttamente da l’Ḥajj, in dārija. Nonostante le difficoltà di comprensione, la sua maestria nel narrare e il suo linguaggio del corpo portano a un risultato sorprendente. Lo stile di Ḥajj è peculiare, energico, attivo, sa essere serio e divertente allo stesso tempo e tenere viva l’attenzione del pubblico in ogni momento.

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Piazza Jeema el Fna sunset, Marrakech (ph. E. Scopelliti)

Per i giovani contastorie, Cafe Clock rappresenta una grande opportunità per imparare e condividere questo patrimonio con gente appartenente ad altre culture. L’inserimento del programma sulle storie è nato per rispondere alla rapida scomparsa dei contastorie dalle piazze del paese, e in particolar modo da Marrakech – «Possa Dio avere pietà di Jāma‘ Al Fnā’ poiché la sua anima è morta così come l’intrattenimento e le storie!» invoca l’Ḥajj. Ma anche le nuove generazioni sono consapevoli della situazione critica in cui versa l’arte della narrazione a Jāma‘ Al Fnā’.

Nel caffè si cerca di ricreare la ḥalqa vera e propria, con un pubblico attento che circonda interamente il contastorie. Ma, secondo Amine, quando lo spettacolo avviene in ambienti chiusi, le differenze sono notevoli:

«Prima di tutto, il concetto di ḥalqa cambia quando si è al chiuso. Alzare la voce e usare gesti e il linguaggio del corpo, facendo del tuo meglio per attirare l’attenzione del pubblico mentre racconti una storia è un elemento aggiuntivo: quando si è al chiuso, il pubblico è già lì, ti sta già aspettando e non c’è nulla che influenzi la tua performance dall’esterno, come rumori o passanti».

Il programma include apprendisti di entrambi i generi: nonostante il racconto pubblico di storie sia fino ad oggi una prerogativa maschile, la partecipazione di ragazze è ben vista sia dai turisti che dagli altri protagonisti del programma tra i quali si crea un piacevole ambiente familiare.

Mentre l’Ḥajj si esibisce in dārija, gli apprendisti devono tradurre le storie affinché possano essere comprensibili ad un pubblico più ampio, questo è un processo particolarmente difficile in quanto molti giochi di parole o proverbi perdono di valore nel processo traduttivo. Bisogna pertanto che gli studenti abbiano anche una conoscenza profonda della lingua e cultura inglesi in modo da rendere al meglio le varie sfumature della storia nella traduzione.

Questo caffè dà inoltre risposta a una domanda sempre più crescente di viaggiatori che puntano a un turismo culturale, ad un’idea di vacanza che vede i visitatori impegnati nell’apprendimento di abilità tipiche del luogo in cui si trovano, esperienze ricche di significato che possano poi portare con sé una volta ripartiti.

Cafe Clock è per questo considerato un ottimo esempio su come coinvolgere le nuove generazioni e trasferire quest’arte e conoscenza ai giovani; è una tappa importante per i viaggiatori e contastorie di varie parti del mondo. È infatti aperto a chiunque voglia cimentarsi in quest’arte o esibirsi e condividere una storia con il pubblico presente durante gli appuntamenti sulla narrazione di storie tradizionali. Non è raro infatti che contastorie provenienti da vari paesi entrino a far parte della performance, raccontando una loro storia nell’intento appunto di rendere ancora più completo questo processo di condivisione del patrimonio orale.

Anche la realtà rappresentata dal Cafe Clock si può considerare un buon tentativo di salvaguardia del patrimonio orale. Una delle caratteristiche maggiormente apprezzabili è l’intervento diretto dei giovani in questo percorso. Essi, pur in modo diverso dal loro maestro, diventano in un certo senso i detentori di questo patrimonio. È da tenere in considerazione che tanto il cambio generazionale quanto il processo di traduzione a cui le storie sono sottoposte influenzano in modo notevole lo stesso patrimonio orale. Una rappresentazione per turisti perde di autenticità ma, nonostante ciò, è un dato di fatto che questi giovani conoscono le storie in dārija, così come imparate dal loro maestro. Essi possono nel caso vogliano continuare a portare avanti il loro interesse per la letteratura popolare trarre beneficio dalle loro conoscenze poiché provengono dallo stesso “patrimonio vivente” che si cerca di salvaguardare.

Dialoghi Mediterranei, n.34, novembre 2018
Riferimenti bibliografici
Viola Altrichter, The Gateway to the Heart is the Ear. Cultural Heritage of Mankind: the Halqas of Marrakech, in Ladenburger Thomas (a cura di), Al- Halqa, Fondation Dar Bellarj, Marrakech, 2011: 1 7-29.
Khalid Amine, Crossing Borders: Al-halqa Performance in Morocco from the Open Space to the Theatre Building, The MIT Press, Cambridge, Vol. 45, No. 2 (Summer, 2001):5 5-69.
Khalid Amine e Marvin Carlson, “Al-Halqa” in Arabic Theatre: An Emerging Site of Hybridity, in Theatre Journal, The Johns Hopkins University Press, Baltimora, Vol. 60, No. 1 (Mar., 2008): 71-85.
Mohamed Amzzough et al., Jemaa El Fna: Tourisme et durabilité, Tesi magistrale non pubblicata e discussa presso l’Università Cadi Ayyad, Marrakech, a.a. 2013-2014.
Elias Canetti, The Voices of Marrakesh: A Record of a Visit, Marion Boyars Publishers Ltd, Londra, 1968.
Juan Goytisolo, Xemaá-el-Fná: el espacio de las palabras, Fundación Tres Culturas, Almuzara, Madrid, 2003.
Richard Hamilton, The Last Storytellers. Tales from the Heart of Morocco, I. B. Tauris, Londra, 2011.
Thomas Schmitt, Jemaa el Fna Square in Marrakech: Changes to a Social Space and to a UNESCO Masterpiece of the Oral and Intangible Heritage of Humanity as a Result of Global Influences, in The Arab World Geographer, Universitat Bayreuth, Akron, n.4, (2005): 173-195.
Ouidad Tebbaa, Destins singuliers: les Hlaiquis de la Place Jama’ al Fna  in Jama el fna entre art et bazar – Actes des journées d’etude, 13/14 Juin 2003, Ministère Délégué Chargé de l’Habitat et de l’Hurbanisme, Direction de l’Architecture, Association Jama’ al Fna Patrimoine Oral, Rabat, 2003: 30-33.
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Erika Scopelliti,  ha conseguito la laurea magistrale in Lingue Moderne: Letterature e Traduzione presso l’Università di Messina con una tesi di letteratura araba sulla tradizione dei racconti orali in Marocco. Durante gli studi ha beneficiato di due borse presso l’università Cadi Ayyad di Marrakech (rispettivamente di 6 e 10 mesi). Durante questi soggiorni di ricerca è entrata in contatto diretto con i maestri contastorie che ha intervistato e grazie ai quali ha reperito diverso materiale originale. Ha successivamente portato a termine un master in Global Marketing, Comunicazione & Made in Italy del CSCI e della fondazione Italia-USA e il programma della Luiss Business School “Generazione Cultura”. Attualmente vive ad Alicante dove sta svolgendo un tirocinio presso l’EUIPO, occupandosi di proofreading e revisione di traduzioni.
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