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La presenza italiana in Tunisia tra l’800 e la prima metà del 900

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Tunisi, primi 900

di Nabil Zaher

Il presente contributo si propone di ripercorrere la storia dell’emigrazione italiana in Tunisia tra il diciannovesimo e la prima metà del ventesimo secolo per preservare quello che lega la memoria italiana a quella tunisina e quindi quello che unisce le due rive del Mediterraneo. Il diciannovesimo secolo fu senza dubbio il secolo d’oro della presenza italiana in Tunisia. In quel periodo, la stragrande maggioranza degli emigrati italiani in Tunisia segnò con la sua presenza la storia del Beilicato.

Già dal Seicento, ci fu una vera e propria lingua franca [1] in Tunisia. La lingua italiana potè essere considerata la seconda lingua alla corte tunisina al punto che lo stesso Bey ne aveva generalmente una buona padronanza; i documenti commerciali furono scritti quasi tutti in buon italiano, come anche gli atti del consolato non solo relativi all’Italia, ma anche all’Austria e alla Francia ed ancora le carte necessarie per gli sbarchi nei porti come i passaporti e le patenti di sanità.

All’inizio dell’Ottocento, vennero ad inserirsi nuove componenti migratorie che trasformarono marcatamente la presenza italiana in terra tunisina, specie della piccola e media borghesia del mondo imprenditoriale e commerciale, delle professioni liberali e delle caste militari [2]. La comunità italiana era la più rilevante in Tunisia: centinaia di genovesi, livornesi, siciliani, panteschi e sardi cominciarono a stabilirsi permanentemente nelle città costiere, particolarmente a Tunisi, nei nuovi quartieri, al di fuori della medina, giocando un ruolo economico di rilievo con il controllo dei commerci, dell’industria estrattiva, della pesca e dell’agricoltura. I genovesi e i livornesi il cui insediamento nelle terre tunisine era assai radicato furono dediti specialmente al grande commercio. I più disperati con una generale e condivisa percezione di non avere prospettive per il futuro arrivarono dalle regioni più sottosviluppate del Sud, in modo massiccio dalla Sicilia, dalla Sardegna e anche da Pantelleria per sfuggire alla «trappola della povertà»[3] e sfamare le loro popolose famiglie. La loro comunità era prevalentemente composta da marinai, pescatori, minatori, proletari urbani, artigiani e braccianti.

Nel 1834, gli europei nella Reggenza erano circa ottomila, dei quali un terzo almeno italiani. In quegli anni, i commerci italiani con i porti tunisini si intensificarono e le comunità italiane presenti a Tunisi e nelle principali città costiere acquistarono nel tempo una crescente rilevanza numerica e un peso socio-economico sempre più notevole. Verso la metà dell’Ottocento, le comunità italiane rappresentavano una delle colonne portanti della Tunisia, giocando un ruolo preponderante in diversi settori e segnalandosi nell’organizzazione militare, nelle manifestazioni civili e nelle attività economiche della Reggenza:

«Verso la metà del XIX secolo, esse erano quanto mai presenti e attive nei vari settori della società locale: dall’amministrazione beylicale alle professioni liberali, dalle attività commerciali a quelle artigianali, dalla pesca all’agricoltura»[4].
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Tunisi, Gran Bazar arabo, dell’imprenditore Di Vittorio (da Gli italiani in Tunisia)

Dall’inizio del XIX alla metà del XX secolo, la Tunisia è stata meta di un fenomeno di migrazione intellettuale e politica molto peculiare, e ad un consistente gruppo di esuli si mescolarono numerosi professionisti e tecnici. Alla corte del Bey, fu “ministro” per gli Affari Stranieri Giuseppe Maria Raffo che, figlio di un ligure fatto schiavo dai tunisini, rivestì la carica di “capo del guardaroba”, in realtà fu incaricato della corrispondenza e dei contatti con i consoli stranieri, e fu molto influente, soprattutto durante il regno del Bey Husayn e del Bey Mustafâ.

Anche nel settore militare, la presenza italiana non fu secondaria: quando, nel 1811, i giannizzeri si rivoltarono contro Hamuda Bey che li voleva eliminare in modo definitivo con una sanguinosa repressione, il Bey si rivolse ai soldati dell’esercito napoleonico, prevalentemente italiani, in quel momento a Tunisi provenienti da Malta dove erano stati prigionieri [5]. Nel 1833, due ufficiali italiani furono ammessi nell’esercito tunisino quali istruttori militari e si aggiunsero agli altri che già ne facevano parte. Nello stesso anno, il maggiore Luigi Calligaris dell’esercito piemontese venne accolto al Bardo e incaricato di organizzare una scuola militare per gli ufficiali dell’esercito: «Italiano era il capitano Calligaris che per incarico del Bey fondava una scuola militare destinata a formare gli ufficiali di tutte le armi» [6]. Questa “Scuola Politecnica Militare” diretta da un piemontese fu la prima nel suo genere in Tunisia e in essa l’insegnamento veniva impartito in italiano.

Un’altra componente migratoria che assunse dimensioni importanti era quella relativa al fenomeno del fuoruscitismo politico causato dai moti risorgimentali che scoppiarono nella penisola italiana a partire dagli anni venti. Nei primi decenni dell’Ottocento, in Tunisia non giunsero infatti solo commercianti, lavoratori del campo agricolo, minatori o pescatori. Sebbene non con la stessa consistenza numerica, esistette un’altra peculiare componente dell’immigrazione italiana. Si trattava di quella politica: dai primi decenni dell’Ottocento, le coste tunisine furono meta di quanti fuggivano dalla penisola: massoni, garibaldini, anarchici, carbonari, in seguito ai moti risorgimentali e alla lotta per l’unità d’Italia condotta da Giuseppe Mazzini e da Garibaldi: «Dopo il 1815, si diressero in Tunisia oltre che mercanti, marinai e pescatori, pure patriotti liberali che, col volontario esilio, si sottraevano alle carcerazioni, alle condanne, alle rappresaglie»[7].

Al principio, si trattava solo di saltuari arrivi ma via via che la comunità italiana cresceva, il numero di quanti vi cercavano rifugio non poteva che aumentare, pure grazie alla relativa facilità con la quale si potevano raggiungere le sponde tunisine, come era il caso per i siciliani: «giungevano da tutta Italia [...] profughi di cui molti sconosciuti ed umili, tra cui particolarmente numerosi i siciliani»[8].

Continuativa e attiva fu la presenza di intellettuali ed esuli politici in Tunisia. Due rifugiati politici napoletani famosi furono Luigi La Rotonda e Luigi Visconti, i quali aprirono la prima scuola privata nel 1828 in cui si insegnava l’italiano sia ai figli degli immigrati che ai giovani tunisini:

«Le repressioni seguite ai moti del 1821 spinsero in Tunisia più di quattrocento esuli napoletani e siciliani (come testimonia il console De Martino) [...]. Fra gli esuli napoletani era il Visconti che colla Rotonda istituì, [...], la prima scuola italiana – che fu anche la prima scuola europea – della Reggenza»[9].
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Tunisi, Scuola femminile “Margherita di Savoia” e Asilo “Garibaldi” (da Gli italiani in Tunisia)

Un altro esule politico fu il livornese Pompeo Sulema il quale fondò con la sorella Ester una nuova e meglio organizzata scuola di impostazione laica nella quale l’insegnamento era impartito in italiano. Nel 1834, arrivò a Tunisi il profugo genovese Gaetano Fedriani, amico e collaboratore di Garibaldi e di Mazzini, già conosciuto attivista, iscritto alla “Giovine Italia” di Genova, fu obbligato a rifugiarsi a Marsiglia in seguito ai moti mazziniani del 1833, e da lì, su intercessione del Raffo, si rifugiò in Tunisia insieme ad altri compagni. Lo stesso Garibaldi, già condannato a morte dal Consiglio Divisionario di Guerra, scelse di raggiungerlo in Tunisia:

«Alla fine del 1834 o ai principi del 1835 arrivò poi a Tunisi il più illustre dei nostri esuli: Giuseppe Garibaldi, che aveva preso servizio su una fregata del Bey, costruita a Marsiglia. Garibaldi strinse saldissima amicizia con il Fedriani nella cui casa alloggiò e con cui fece vita comune»[10].

Fedriani che rimase in Tunisia sino alla sua morte divenne un punto di riferimento politico e sociale non solo per la comunità italiana di Tunisia e per quanti si rifugiavano sulle sponde nordafricane ma per tutta l’élite politico-intellettuale dell’epoca. Collaboratori attivi del Fedriani furono Benedetto Calò, fuggito da Livorno nel 1837, che ebbe anche un alto incarico alla corte beylicale, e Giuseppe Morpurgo, personalità di rilievo che lavorò tra l’altro come corrispondente da Tunisi per “L’Avvenire di Sardegna.

Dalla metà del diciannovesimo secolo, la Tunisia divenne un centro importante per i mazziniani. Alla fine del 1850, giunse a Tunisi l’eroico patriota Licurgo Zannini il quale collaborò col Fedriani a favore dell’Associazione Nazionale Italiana e promosse più di una sottoscrizione patriottica [11]. L’attività mazziniana in Tunisia andava progressivamente sviluppandosi e Mazzini, il quale intratteneva frequenti rapporti epistolari col Fedriani, guardava con un interesse specifico a quella terra:

«non solo per il forte nucleo d’Italiani ivi emigrati ma anche per la posizione geografica di quella regione che egli giudicava un’ottima base di operazione ed un buon punto di partenza: quando fosse giunto il momento opportuno, una mano di audaci poteva partire di là e prendere piede sulla terra di Sicilia, per preparare lo sbarco di un più grosso numero di emigrati e per propagare la rivoluzione in tutta l’isola contro l’odiato governo borbonico»[12].

Molti giunsero in Algeria dalla Francia in cui avevano cercato rifugio e da cui furono spediti dalla polizia francese nelle colonie d’oltremare; alcuni invece si diressero direttamente verso la vicina Tunisia, dove concorreranno notevolmente allo sviluppo culturale, alla divulgazione della lingua e delle arti italiane, con l’apertura di tipografie e imprese editoriali [13], di scuole e teatri. Alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, per quanto riguarda il fenomeno del fuoruscitismo politico, i sovversivi del regime monarchico e i cosiddetti “sobillatori” sociali (anarchici, repubblicani, socialisti) si rifugiarono sempre più numerosi in Tunisia e contribuiranno alla nascita di una stampa di protesta sociale [14].

Pertanto, la comunità italiana era la più equilibrata e compatta tra quelle straniere presenti in Tunisia, grazie alle sue associazioni culturali, sportive ed economiche come la Camera di Commercio, Arti e industria fondata nel 1884, l’ospedale “Garibaldi”, le banche come quella italiana di credito, un quotidiano a partire dal 1886 e anche merito delle sue scuole, come quella commerciale e tecnica commerciale:

«nel 1887 furono fondati la scuola elementare “Umberto I”, un collegio convitto con scuola elementare completa, una scuola commerciale ed un ginnasio, da cui più tardi si sviluppò il regio liceo-ginnasio “Vittorio Emanuele II”. Nel 1888, [...] la scuola commerciale venne fusa con la scuola tecnica, divenendo così scuola tecnica commerciale» [15].

Nel campo economico e commerciale, con le maggiori agevolazioni di comunicazioni e di trasporti tra la sponda nord e quella sud dopo l’istituzione di linee marittime come quella inerente ai collegamenti regolari fra Genova, Cagliari e Tunisi con periodicità bimensile della compagnia Rubattino inaugurati nel 1852 e quella relativa alla tratta Palermo-Tunisi avviata nel 1863. Nella seconda metà del secolo, l’emigrazione italiana in Tunisia divenne più consistente: i siciliani (con sardi, pugliesi e calabresi), per la naturale vicinanza geografica e le somiglianze climatiche e socio-economiche, costituirono il grosso nucleo dell’emigrazione italiana dando l’avvio alla formazione di tante “piccole Sicilie”.

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Tunisi, Banca Commerciale tunisina (da Gli italiani in Tunisia)

Anche la popolazione di Pantelleria emigrò quasi in massa in Tunisia, più precisamente nei mesi di settembre-ottobre 1859, a causa dei tributi fondiari esorbitanti imposti dal Governo delle due Sicilie, nonché per la carenza di mezzi di sussistenza e la penuria dei raccolti [16]. Fu questa l’origine del trapianto etnico in Tunisia di parecchi panteschi che vi si moltiplicarono e che diedero un grande contributo particolarmente all’agricoltura del Beilicato. Nel frattempo, la componente borghese dell’emigrazione italiana in Tunisia, cominciata ancora prima che nascesse il Regno d’Italia, proveniente principalmente dalla Sardegna, Liguria, Toscana e Piemonte, si era ben integrata nell’ambiente socio-economico locale sino a divenire determinante nell’amministrazione e nell’economia, sia a Tunisi che nelle principali città costiere.

Intorno alla metà dell’Ottocento, la colonia italiana composta maggiormente da una popolazione dedita al commercio contò pressappoco sei o settemila persone [17]. In questo settore, gli italiani signoreggiarono sino al 1881, monopolizzando qualsiasi iniziativa del genere nelle loro mani capaci e fungendo di tramite fra tutto il mondo civile e la Tunisia: «La colonia italiana [...] conta nel suo seno i più ricchi commercianti, i più valenti banchieri»[18]. Nello stesso contesto, ancora nel 1878, l’Italia fu di gran lunga il Paese che ebbe con la Tunisia i legami commerciali più intensi: poco meno dei tre quarti dei venti milioni di franchi che entrarono nel Paese erano italiani, mentre l’Italia esportò in Tunisia più del doppio di tutte le altre bandiere riunite [19].

Nel campo industriale, gli italiani primeggiarono nelle aziende degli oli e dei farinacei. Gli olifici italiani, modernamente impiantati, produssero olio di alta e pregevole qualità, largamente esportato. Inoltre, tutta l’industria della pasta fu nelle mani degli italiani e soprattutto dei siciliani. E così pure le attività della pesca; in particolar modo, per quanto riguarda l’industria della salagione del pescato, ci fu un’immigrazione temporanea di mano d’opera specializzata, sin da Genova, da Livorno e da La Spezia [20].

Nel settore artigianale, specialmente nella falegnameria, nel ferro battuto, nell’ebanisteria, nella decorazione e nella sartoria, gli italiani di Tunisia furono incontestabilmente senza rivali. Nei tre decenni che precedettero l’era coloniale francese, le comunità italiane di Tunisia ricevettero privilegi assai apprezzabili. Infatti, furono stipulati trattati che garantivano pienamente i diritti dei sudditi italiani in Tunisia e regolavano lo svolgimento dei loro affari nella Reggenza economicamente e commercialmente. Tra questi trattati, ci fu quello di pace tra la Tunisia e i Governi di Torino e Napoli nell’aprile del 1816, quello di tregua toscano-tunisino nell’agosto del 1816 [21], quello di pace del 10 luglio 1822 concluso tra «S.M.I. e R. Gran Duca di Toscana e S.A. Mahmoud Bascia Bey di Tunisi con la mediazione del cav. Antonio Nyssen, Console Generale [...] della Toscana»[22], quello sardo-tunisino di amicizia e di commercio in data 22 febbraio 1832 [23] e soprattutto quello della Goletta nel 1868 che confermò ed estese a tutta l’Italia i trattati preesistenti, cioè quelli sardo-tunisini del 1816 e 1832, quello toscano-tunisino del 10 luglio 1822 e anche quello siculo-tunisino del 17 novembre 1833.

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Tunisi, Camera di Commercio e Arti italiana (da Gli italiani in Tunisia)

Il trattato del 1868 in cui l’Italia fu ufficialmente considerata “nazione favorita”, concluso per la durata di 28 anni e con tacito rinnovo, costituì una solida base per gli interessi degli italiani in Tunisia, cosicché dalla fine dell’Ottocento in poi l’emigrazione italiana nel Beilicato andò incrementando specialmente dalla Sicilia [24], da Napoli e dalla Sardegna. Continuò a crescere il numero degli italiani e – come abbiamo detto – si può parlare di una vera e propria collettività italiana organizzata con le sue infrastrutture cioè con scuole, ospedali, banche ecc…

Negli anni precedenti all’instaurazione del protettorato francese nel 1881, gli italiani di Tunisia erano ben venticinquemila e la loro colonia era più numerosa di tutte le altre colonie europee esistenti. Nel febbraio 1871, il Console italiano di Tunisi dichiarò in un suo rapporto che la cifra dei capitali impiegati dagli italiani nel settore commerciale in Tunisia era molto ingente. Ciò dimostra che la partecipazione degli italiani alla vita della Reggenza era rilevante non solo quantitativamente ma anche qualitativamente ed economicamente. In un’interessante nota del Carpi al detto rapporto del console italiano sulla collettività italiana di Tunisia, è documentato che i tre gruppi principali dei quali essa si componeva, cioè quello tabarchino, israelita, livornese e siciliano, «segnavano, in qualche modo, la storia della sua fondazione»[25].

Prima dell’imposizione del protettorato francese alla Tunisia, la forte ed esuberante colonia italiana

«assumeva in Tunisia aspetti di imponenza e di supremazia incontestata. In un tempo in cui i francesi non ancora avevano messo a Tunisi nessuna radice e non potevano vantarsi di una sola casa commerciale di qualche importanza, italiane erano le principali ditte commerciali e bancarie della Reggenza: le case Ravasini, Gutierrez, Vignale, Bensasson, Cesana, Gnecco, Moreno, Fiorentino, Traverso, Peluffo, Sgallino, Raffo e così via» [26].

Dal 1881, la Tunisia fu sotto il protettorato francese. In realtà molto prima che venisse istituito il protettorato, la reggenza di Tunisi era divenuta «una sorta di vassallo della Francia» [27] dal punto di vista finanziario. Infatti, la Tunisia contrasse enormi prestiti a Parigi nel 1863 e nel 1865. Quello contratto nel 1867 causò la bancarotta e la messa a tutela da parte della Francia, della Gran Bretagna e dell’Italia. Successivamente, prendendo a pretesto uno sconfinamento della tribù tunisina dei Krumirik nell’Algeria, il presidente del Consiglio Jules Ferry impose al bey Muhammad al-Sadiq la firma del trattato del Bardo, con il quale la Francia veniva autorizzata ad occupare militarmente la Tunisia «in vista del ristabilimento dell’ordine e della sicurezza alle frontiere e sulle coste»[28].

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Tunisi, Porta di Bab El khadra (da Gli italiani in Tunisia)

Il colpo di mano francese spense in modo definitivo le rimanenti speranze italiane di fare della Tunisia una terra d’espansione coloniale e così fu persa la corsa per la supremazia sulla Tunisia. Nel ventennio precedente, più numerosa e meglio integrata socialmente ed economicamente con l’elemento locale era la colonia italiana; più sostenuta dalla politica del governo era quella francese. La classe dirigente francese aveva una politica più dinamica e attiva verso la Tunisia a differenza di quella italiana inerte in cui mancò un progetto di respiro mediterraneo in grado di supportare politicamente e diplomaticamente la sua colonia presente nelle terre tunisine. La classe dirigente italiana giocò malamente e maldestramente le sue carte: convinta che una colonia così forte numericamente non potesse che portare, in modo spontaneo, l’intera Tunisia nell’orbita dell’influenza italiana, puntò solamente sullo sviluppo dal basso e sull’economia, tralasciando gli aspetti diplomatici e politici della questione, che invece si riveleranno decisivi [29].

Dalla stipulazione del trattato del Bardo, uno dei principali problemi per la Francia fu quello del “péril italien”. La comunità italiana sempre numerosa e attivissima non solo economicamente ma anche culturalmente fu tenuta sotto stretto controllo dai francesi. Era considerata un possibile elemento di disturbo delle politiche locali francesi, un freno alla colonizzazione diretta e quindi all’arrivo dei coloni francesi. Essi guardarono sempre con tanta attenzione alle attività degli italiani allo scopo di evitare ogni ingerenza nella loro politica o, peggio ancora, tentativi di rovesciare il loro potere coloniale.

Dopo aver imposto il suo protettorato alla Tunisia, nel periodo che va dal 1881 al 1896, la Francia ebbe bisogno della manodopera italiana dato che in quel periodo ne deficitava. Le cose andarono male quando si cercò di mettere in pratica la cosiddetta colonizzazione ufficiale francese che fu un vero e proprio smacco: in quel sistema, i coloni, spesso ex-funzionari a riposo, non capirono nulla di agricoltura. Inoltre, il colonizzatore francese fu in generale «superficiale e disordinato, niente affatto tenace nello sforzo, e facile allo scoraggiamento» [30]. Nello stesso contesto, «ben magri furono [...] i risultati che lo Stato protettore ottenne dal lavoratore francese» [31]. Prospettive poco ottimistiche si presentarono dunque per un rapido e radicale miglioramento del Paese.

La contraddizione fondamentale nella quale si trovò la Francia nei riguardi di una comunità italiana più numerosa e pertanto più robusta fu quella di doverla accettare di buon grado perché non potè farne a meno sul piano economico, anche se al tempo stesso fu indotta a temerla. Il dilemma troverà una sua definitiva soluzione attraverso le convenzioni del 1896 con cui l’Italia riconoscerà il protettorato francese, ma conserverà per la colonia italiana della Tunisia uno stato particolare: le convenzioni del 1896 segnarono una svolta nelle relazioni franco-italiane ponendo fine alla conflittualità permanente sulla Tunisia e avviando accordi di carattere doganale e commerciale.

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Tunisi, Palazzo Di Vittorio, rue de Portugal (da Gli italiani in Tunisia)

Con le Convenzioni del 1896, la Francia dovette riconoscere uno status speciale per gli italiani di Tunisia, in virtù del quale gli italiani potevano mantenere la nazionalità di padre in figlio in modo automatico e potevano continuare ad amministrare le imprese in possesso e gli enti preesistenti. In particolare l’articolo 13 delle suddette convenzioni garantì l’inviolabilità della cittadinanza italiana in Tunisia proibendo ogni politica francese d’assimilazione globale, come fu il caso per l’Algeria.

La costruzione di una nuova rete ferroviaria, lo sviluppo delle attività estrattive, l’apertura di nuovi cantieri nei porti tunisini e il fiorire di svariate iniziative industriali allargarono notevolmente la rappresentanza della classe operaia. Ci fu un potentissimo richiamo di mano d’opera italiana da parte dei francesi, necessaria per i nuovi grandi lavori pubblici d’infrastrutture messi in atto e le nuove esigenze economiche. Questa mano d’opera fu di qualità, abbondante e a buon mercato. Così, dalla fine del XIX secolo sino ai due primi decenni del ventesimo secolo, ci fu un’emigrazione italiana operaia di massa, particolarmente dalle regioni del Mezzogiorno. Si trattò di una consistente emigrazione proletaria, di diseredati alla ricerca di un lavoro. In seguito a tale massa operaia, si mossero artigiani, professionisti, piccoli commercianti, terrazzieri, minatori, ecc. [32].

Per quanto riguarda la Sardegna e la Sicilia dalle quali provenivano flussi migratori notevoli, secondo un rapporto dell’Ufficio di patronato degli emigrati italiani della Tunisia del 1905, la Sardegna mandò terrazzieri e minatori, mentre dalla Sicilia giunsero braccianti, muratori, gente di mare, esercenti di piccole industrie. Oltre ai minatori e ai terrazzieri, giunsero in Tunisia centinaia di operai che si recarono nelle zone abitate da italiani per lavorare a cottimo o nelle foreste per il decorticaggio del sughero [33]. L’emigrazione sarda fu fondamentalmente individuale, sporadicamente coinvolse interi nuclei familiari e fu perciò per lo più stagionale e temporanea destinata a durare qualche mese: «Alla categoria degli emigranti temporanei appartenevano anche [...] sardi che arrivavano a maggio e tornavano a metà agosto» [34]. Quella siciliana, invece, fu per lo più di intere famiglie e non di individui e pertanto fu spesso permanente “senza spirito di ritorno”: «per esempio molti agricoltori si stabilirono con le famiglie e riuscirono dopo tanti anni di fatiche a comperare un pezzo di terra dove coltivare in particolar modo viti» [35].

Il numero di navi italiane nei porti tunisini era il più elevato in assoluto. Contadini, artigiani e braccianti provenienti dalle regioni italiane più diseredate affluivano in Tunisia in modo massiccio: I francesi «non aprirono, ma spalancarono le porte al lavoro italiano, sollecitandolo [...] in mille modi. Ciò coincise con l’acuirsi e il precipitare del fenomeno migratorio del nostro popolo, che proprio in quel ventennio toccò cifre e forme iperboliche» [36].

Le condizioni economiche e soprattutto sociali dell’Italia meridionale favorirono in misura considerevolissima l’esodo proletario dei lavoratori italiani verso la Tunisia facilmente raggiungibile, dalle condizioni climatiche simili a quella dell’Italia meridionale, accogliente e ricca di tutte le promesse ai lavoratori italiani che non trovavano in patria un tozzo di pane. Altre cause dell’esplosione del boom migratorio italiano fu l’esistenza di una classe latifondista parassitaria al Sud e di una punitiva e miope politica tariffaria [37].

Lavoratori siciliani, calabresi e sardi spinti dalle difficoltà economiche e sociali, lasciarono «le coste natie senza passaporto, su piccole imbarcazioni a vela, e il loro ingresso nei paesi del Nord Africa non veniva mai registrato» [38]. Il differenziale salariale in vari settori come quello minerario e pubblico e dunque «il desiderio di maggior guadagno e fortuna» fu anche un fattore basilare nella spiegazione della spinta a partire:

«Nel 1905, un bracciante in Sicilia guadagnava circa 1 franco al giorno, mentre in Tunisia, per una mansione specifica [...] come piantare un vigneto o in qualità di esperto terrazziere, poteva guadagnare fino a 4 franchi al giorno e per il lavoro non specializzato nei campi era pagato da 3 a 3,5 franchi al giorno. Le società francesi impegnate nei lavori pubblici pagavano anche di più, da 4,50 fino a 6 franchi al giorno» [39] .

In seguito alla conquista francese, la presenza di un potente Stato europeo, agli occhi dei lavoratori italiani, doveva essere, certamente, una garanzia di tranquilità e di guadagno. Così, si comprende agevolmente come in un ventennio, i flussi migratori italiani siano stati cospicui e il numero degli italiani emigrati in Tunisia si sia moltiplicato per quattro.

Per merito della marcata proletarizzazione della presenza italiana, la Francia potè attuare un vero e proprio modello di colonizzazione con protagonisti i lavoratori italiani, i quali assunsero nell’economia della Tunisia una posizione egemone contribuendo generosamente alla valorizzazione del Paese. Nel campo dell’edilizia, dal 1881 alla fine dell’Ottocento, furono aperte strade per oltre milleseicento chilometri, città nuove furono costruite sia per ospitare le famiglie dei funzionari dello Stato protettore e dei militari, sia per i commercianti  e gli industriali, per gli agricoltori e per gli stessi operai. Furono anche edificati caserme, scuole, moschee, chiese, ospedali, alberghi e sedi per istituti di credito o per locali di svago.  A questo proposito,

«le grandi strade di comunicazione fra le principali città tunisine, le strade ferrate, i porti di Tunisi, di Susa, di Sfax, di Biserta, le caserme, le scuole, gli ospedali, i più bei palazzi della Avenue Jules Ferry; i teatri, le opere monumentali. Dappertutto il lavoro italiano lasciò inobliabile impronta di sé»[40].

Terrazzieri, manovali, muratori, scalpellini, sterratori, e cantonieri delle strade costruirono la nuova Tunisia, cioè «quanto oggi è vanto della colonizzazione francese» [41]. La verità è che «non v’è muro che non sia fabbricato da braccia italiane» [42].

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Tunisi, Palais Arabe (da Gli italiani in Tunisia)

Nel settore minerario, subito dopo il 1881, società francesi e coloni si assicurarono la supremazia nell’estrazione dei fosfati di Gafsa. Somme ingenti di denaro furono stanziate da potenti compagnie francesi per sfruttare metodicamente il sottosuolo tunisino. Ricchissime miniere davano paradossalmente risultati modestissimi a causa dei metodi antidiluviani di lavorazione, per l’incapacità tecnica che regnava sovrana nell’organizzazione e per la carenza di mano d’opera specializzata capace di eseguire il lavoro di estrazione e di raffineria del prodotto: «Lo sfruttamento di importanti giacimenti minerari di fosfati, zinco e talco [...] richiedono l’impiego di braccia esperte»[43].

Per quanto riguarda la valorizzazione del sottosuolo tunisino, si avvertì l’esigenza di ricorrere agli italiani che misero a frutto le conoscenze accumulate in qualità di minatori esperti. Tecnici e minatori italiani provenienti dalla Sardegna [44], dalla Sicilia e dalla Toscana fecero un duro, tenace ed eroico lavoro scrivendo pagine stupende di sacrificio e laboriosità grazie alle loro braccia infaticabili. Ben poveri esiti si sarebbero sicuramente potuti raggiungere, senza il decisivo e valido concorso al lavoro e alla tecnica dei minatori italiani impiegati nei duri lavori nelle miniere dell’interno della Tunisia: «L’àncora di salvezza fu trovata, ancora una volta, nelle braccia laboriose ed abili di siciliani e soprattutto di sardi, che nelle miniere di carbone o nello solfare, avevano ben appreso quel rude mestiere» [45].

Nel campo agricolo, il lavoro degli italiani brillava particolarmente in due settori relativi alla valorizzazione economica della Tunisia. Si tratta dell’olivicoltura e della viticultura. Nel ventennio che seguì l’insediamento del protettorato francese, molti contadini siciliani, perennemente frustrati nel tentativo di conseguire una distribuzione più equa della terra, emigrarono in Tunisia con l’intenzione di stabilirvisi definitivamente e godere dell’opportunità concreta di diventare dei piccoli proprietari terrieri acquistando piccoli lotti (dai 5 ai 10 ettari) o servendosi dell’enzel [46], una specie di enfiteusi: nel 1900, sul “Corriere della sera” si scriveva che l’immigrato siciliano aveva un solo scopo consistente nell’acquisto di un piccolo pezzo di terra per sostenere la sua famiglia, pure a costo di ipotecare il lavoro futuro per parecchi anni a venire.

Il vice-console Ugo Sabetta così raccontò la metamorfosi del povero contadino siciliano, arrivato in Tunisia senza nessun mezzo al di là delle sue braccia e della grande voglia di lavorare, in proprietario, essendo riuscito ad accumulare risparmi per rendere possibile il suo sogno cioè l’acquisto dell’agognato pezzo di terra:

«Egli arrivava in Tunisia ricco solo delle sue braccia e si acconciava a lavorare presso un colono francese per due lire e cinquanta al giorno [...]. Dopo quattro o cinque anni [...] mette gli occhi su un pezzo di terra. Lo prende in enfiteusi, [...] lavora, lavora, raspra la terra e cura il crescere della vigna [...]. E lavora, lavora ancora. Dopo anni e anni, riuscirà a liberare la sua terra dell’enfiteusi. Diventerà padrone assoluto» [47].

Prima del 1881, dato che la coltura del suolo fu rudimentale, ci furono solo duecentomila ettari di oliveti, seicentomila ettari di cereali e duemila ettari di vigna e di alberi di frutta. Quarantasette anni dopo, le superfici coltivate furono triplicate per quanto riguarda i cereali, raddoppiate per le coltivazioni arbustive, il numero degli ulivi passò da sette a sedici milioni  e il vigneto occupò circa tremila ettari.

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Tunisi, Grandi Mulini, Alta Italia, in costruzione (da Gli italiani in Tunisia)

Soltanto il lavoro italiano, come del resto ammettono studiosi francesi, rese possibile raggiungere in un tempo breve risultati trionfali. In quel periodo, la Francia fece della Tunisia una colonia fiorente, con la coltura degli ulivi, dei cereali, delle viti e del bestiame riservandovi ingenti capitali. Vi portò la ferrovia e il tram, sfruttò le miniere di fosfati, di ferro e di zinco, ma non volle mandarci la popolazione francese [48]. Al servizio del capitale della Reggenza, lavorarono instancabilmente folte schiere di manodopera italiana: 30 mila nel 1881, diventarono 67 mila nel 1898; alla vigilia della Grande guerra divennero 130 mila mentre i francesi non raggiunsero nemmeno le 35 mila unità [49].

Nonostante questi servizi forniti ai francesi, gli interessi delle colonie italiane furono gravemente danneggiati. Infatti, la convenzione del 1896 che teoricamente tutelò sufficientemente gli interessi economici e sociali italiani, subì «nelle sue applicazioni [...] le interpretazioni restrittive che si sono verificate in tutti i campi»[50]. In altri termini, fu adottata una politica francese astiosa, non coerente con lo spirito di cordiale amicizia proclamato nell’atto del 1896: «dopo il 1896 [...] la Francia non ha saputo trattenere la Colonia italiana nelle vie della più cordiale intesa»[51].

Visto che l’immigrazione italiana rischiò di mettere a repentaglio l’influenza francese, fra il 1896 e il 1901, il governo del protettorato francese introdusse un importante complesso di iniziative tese a sostenere la colonizzazione francese e indebolire e scoraggiare la comunità italiana. Vennero imposte arbitrariamente misure stringenti ed abusive contro la colonia italiana, violando di fatto le convenzioni stipulate. Nel campo agricolo «una legge del 1902 ha vietato agli italiani l’acquisto di terreni coltivati ad olivo e di proprietà demaniali»[52]. Le naturalizzazioni divennero parte integrante della politica coloniale francese. I tentativi di francesizzare gli stranieri residenti nella colonia tunisina riguardarono qualsiasi settore della vita politica, amministrativa e civile, dalla scuola alla sanità, all’amministrazione all’esercizio dell’avvocatura. Nel campo scolastico, «la Francia negò il diritto alla comunità italiana di aprire nuove scuole» [53]. Si proibì anche agli imprenditori italiani di partecipare «alle assegnazioni di lavori pubblici»[54].

Nel campo della sanità, le cariche di medico ufficiale del bey e del bey del campo, così come quelle di direttore di sanità e di medico sanitario, comunale e governativo, passarono in modo progressivo nelle mani dei medici francesi, dopo che erano stati estromessi dal libero esercizio della professione coloro che non possedevano un titolo di studio ottenuto in Francia. La situazione degli avvocati era simile a quella dei medici. Davanti ai tribunali francesi, furono ammessi solo gli avvocati provvisti di un diploma francese. Un decreto beylicale del 1901, il cui contenuto era in palese violazione della convenzione del 1896, stabilì che «non si può essere iscritti all’albo dell’avvocatura se non si ha una laurea rilasciata in Francia»[55].

La comunità italiana fu sottoposta ad espropriazione di beni, al divieto della pesca, alla chiusura di scuole, istituti culturali e dei giornali in lingua italiana, sino alla misura estrema dell’espulsione. I flussi migratori concentratisi in Tunisia si attenuarono con il primo conflitto mondiale fino ad interrompersi con l’avvento del fascismo, il quale, arrivato al potere nel 1922, proclamò il suo desiderio di vedere cessata l’emorragia dell’esodo degli italiani nel mondo. Questo bloccò evidentemente l’arrivo in Tunisia di emigranti italiani: «Dopo la prima guerra mondiale, l’emigrazione italiana verso l’Africa rallentò, le opportunità offerte dalle mete oltreoceano si interruppero [...] e, con l’inizio del regime fascista, la partenza dei lavoratori italiani fu apertamente osteggiata»[56].

Le decisioni del governo fascista, che si orientarano verso una politica di restrizione e di arresto del flusso migratorio, rispondevano alla decisione del Duce di esaltare la dimensione demografica e quindi la forza militare dell’Italia fascista. Parallelamente a ciò, “la grande speranza” che il fascismo volle a tutti i costi alimentare presso la collettività italiana all’estero fu “la necessità del ritorno”. Ciononostante, per la maggioranza di questi italiani, il ritorno poté significare la perdita del lavoro.

9-9

Tunisi, interno del Politeama Rossini (da Gli italiani in Tunisia)

Anche in seguito alla liberazione di Tunisi, nel maggio 1943, l’obiettivo precipuo della politica francese nei riguardi della comunità italiana fu quello di assoggettare quest’ultima al regime di diritto comune con l’abolizione di tutti i privilegi dei quali avevano goduto gli italiani di Tunisia in riferimento al regime della “nazione più favorita”, sancito dalle predette convenzioni del 1896, ma anche obbligando in tutte le maniere alla vendita da parte degli italiani delle proprietà immobiliari possedute in Tunisia e incentivando sempre più una politica di naturalizzazione massiccia degli italiani di Tunisia.

Si cercò insomma di “deitalianizzare” la Tunisia utilizzando a pretesto, quasi mai giustificato, la cautela nei riguardi dei probabili infiltrati “fascisti” nella comunità italiana. Di conseguenza, potettero essere legittimate le misure più severe come i sequestri, le espulsioni, le vendite forzate e gli arresti che colpirono banchieri, funzionari, professori, missionari, medici, farmacisti, proprietari terrieri, avvocati, intellettuali e “indesiderabili” in generale.

Tutte le istituzioni italiane furono chiuse, la stampa fu proibita, i provvedimenti di espulsione, per lo più ben poco giustificati furono sempre più frequenti: solo in seguito alla firma del trattato di pace fra l’Italia e la Francia nel febbraio 1947 e all’accordo franco-italiano concluso nel novembre seguente, la situazione si normalizzò. Lo testimoniò la riapertura del Consolato Generale d’Italia al principio del 1948. Nonostante ciò, la politica anti-italiana dei sequestri dei beni perdurò per almeno tre anni.

screenshot_20201224_182331La proclamazione dell’indipendenza della Tunisia nel 1956 segnò l’inizio di una nuova fase per gli italiani di Tunisia. Furono introdotte nuove leggi nazionali che tagliarono fuori dal mercato del lavoro un numero cospicuo di stranieri, come quella relativa al provvedimento del marzo 1958, il quale impose la sostituzione degli autisti stranieri con tunisini lungo le frontiere con l’Algeria, dove era in corso la guerra di liberazione. Nel medesimo anno, un altro provvedimento costrinse i datori di lavoro ad assumere esclusivamente apprendisti tunisini. La legge emanata dal governo tunisino nel 1964 e relativa alla nazionalizzazione delle terre agricole cioè all’abolizione delle proprietà straniere della terra fu infine un duro colpo per la comunità italiana di Tunisia.

Tali misure crearono un clima di insicurezza e incoraggiarono la fuga degli italiani di Tunisia, i quali intravidero un futuro privo di prospettive visto che si stava definitivamente chiudendo un’epoca. In altri termini, le nuove leggi tunisine sopramenzionate segnarono irrimediabilmente quasi la fine della colonia italiana in Tunisia che, in quel periodo, spinta a lasciare il Paese si divise a metà tra la Francia e l’Italia per i rimpatriati [57].

Per concludere, gli emigranti italiani che contribuirono in modo determimante allo sviluppo economico della Tunisia e favorirono un processo di mescolamento culturale fra le due sponde del Mediterraneo subirono paradossalmente in modo pesante le conseguenze della decolonizzazione, pur non essendo stati i colonizzatori della Tunisia.

Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Note
[1] La lingua franca fu un miscuglio di dialetti italiani e di arabo.
[2] G. Marilotti (a cura di), L’Italia e il Nord Africa: l’emigrazione sarda in Tunisia (1848-1914), Roma: Carocci editore, 2006: 104.
[3] F. Fauri, “L’emigrazione italiana nell’Africa mediterranea 1876-1914”, Italia contemporanea, n.277 (2015): 40.
[4] Marilotti, cit.: 104.
[5] E. de Leone, La colonizzazione dell’Africa del Nord (Algeria, Tunisia, Marocco, Libia), Padova: CEDAM, tomo primo, 1958: 180.
[6] N. Marchitto, L’Italia in Tunisia, pref. di Ezio M. Gray, Roma: Latium, 1942: 24.
[7] Ivi: 15.
[8] Ivi: 31.
[9] Ivi: 17.
[10] Ivi: 24.
[11] Ivi: 33.
[12] E. Michel, Esuli italiani in Tunisia: 1815-1861, Milano: Istituto per gli studi di politica internazionale, 1941: 269.
[13] La prima tipografia privata in Tunisia fu aperta da Giulio Finzi nel 1829 ed ebbe riconoscimento ufficiale solo nel 1879.
[14] Cfr. Memoria del R. Console E. De Gubernatis sull’influenza francese in Tunisia, in ASD del MAE, Archivio personale, Miscellanean Relazione dei Consoli, b.392/897
[15] F. Caparelli, Civiltà italiana in Tunisia, Roma 1939: 96.
[16] Marchitto, cit.: 35.
[17] Marilotti, cit.:104.
[18] Marchitto, cit.: 44.
[19] Cfr. Memoria del R. Console E. De Gubernatis sull’influenza francese in Tunisia, in ASD del MAE, Archivio personale, Miscellanea, Relazioni dei consoli, b.392/897
[20] Caparelli, cit.: 90.
[21] Marchitto, cit.: 15.
[22] Alcuni articoli del trattato risultano interessantissimi come il primo e il secondo. Nel primo articolo, è convenuto che vi sarà pace ed amicizia invariabile fra i due Stati e i loro sudditi. Nel secondo articolo, è convenuto che il commercio sarà libero fra le due nazioni (Marchitto, cit.: 17).
[23] F. Caparelli, cit.:90.
[24] Soprattutto s’ingrandì la colonia dei Siciliani, i quali, data la vicinanza della loro isola, giungevano tanto numerosi (Marchitto, cit.:24).
[25] Ivi: 41.
[26] A. Gallico, Tunisi: i Berberi e l’Italia nei secoli, Ancona: La Lucerna, 1928: 231.
[27] Fauri, “L’emigrazione italiana nell’Africa mediterranea 1876-1914”: 51.
[28] Marilotti, cit.: 73.
[29] Ivi:76.
[30] Caparelli, cit.:82.
[31] Ibidem.
[32] Marilotti, cit.: 113.
[33] Fauri, cit.: 55.
[34] Ibidem.
[35] Ivi: 34.
[36] Caparelli, cit.:83.
[37] Fauri, cit.: 35.
[38] Ivi: 43.
[39] Ivi: 55.
[40] Caparelli, cit.: 86.
[41] Ibidem.
[42] Ibidem.
[43] Marilotti, cit.: 112.
[44] I sardi che andavano a lavorare in miniera provenivano soprattutto da Iglesias.
[45] Caparelli, cit.:88.
[46] L’inzāl (chiamata enzel dai francesi) è un’istituzione tradizionale tunisina che diede l’opportunità di divenire affittuari permanenti dietro pagamento di un canone fisso di affitto.
[47] Caparelli, cit.: 91.
[48] Cfr. Commissione parlamentare d’inchiesta sulla condizione degli operai delle miniere della Sardegna, Atti della Commissione, III: Interrogatorio del giorno 13 maggio 1909 nella sede del Municipio di Carloforte: 176-177.
[49] Cfr. Relazione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla condizione degli operai delle miniere della Sardegna, Roma : Tip. della Camera dei deputati, 1911: 378.
[50] G. Provenzal, Il problema tunisino nei rapport franco-italiani, Roma : L’agave, 1922: 47.
[51]  Ivi: 23.
[52] Marilotti, cit.: 91.
[53] Fauri, cit.: 59.
[54] Ibidem.
[55] De Leone, cit.: 304.
[56] Fauri, cit.: 62.
[57] Ibidem.
Riferimenti bibliografici
Camera italiana di Commercio e Arti, Gli italiani in Tunisia, Tunisi, s.d
Caparelli, F.  Civiltà italiana in Tunisia,  Roma: Tip. editrice Italia, 1939.
De Leone, E.  La colonizzazione dell’Africa del Nord (Algeria, Tunisia, Marocco, Libia), Padova: CEDAM, tomo primo, 1958.
Fauri, F . “L’emigrazione italiana nell’Africa mediterranea 1876-1914”, Italia contemporanea, n. 277 (2015).
Gallico, A. Tunisi: i Berberi e l’Italia nei secoli, Ancona: La Lucerna, 1928.
Marchitto, N.  L’Italia in Tunisia. Pref. di Ezio M. Gray, Roma: Latium, 1942.
Marilotti, G. (a cura di). L’Italia e il Nord Africa: l’emigrazione sarda in Tunisia (1848-1914), Roma: Carocci editore, 2006.
Michel, E. Esuli italiani in Tunisia : 1815-1861, Milano: Istituto per gli studi di politica internazionale, 1941.
Provenzal, G. Il problema tunisino nei rapporti franco-italiani, Roma: L’agave,  1922

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Nabil  Zaher, Docente universitario di Lingua, civiltà e Lettere italiane presso l’Università di Monastir (Istituto Superiore di Lingue applicate di Moknine) dal 2007. Ha insegnato anche all’Università di Messina come professore ospite del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne nel 2014 e nel 2015. Ha pubblicato diversi articoli in riviste culturali tra cui “Amaltea” e “Leukanikà”. Nel 2015, è stato insignito del premio letterario nazionale «Carlo Levi», XVIII edizione 2015 ad Aliano per la sua tesi di Dottorato discussa presso la Facoltà di Lettere, delle Arti e delle Umanità della Manouba (Tunisia) e intitolata «Riflessi del Mezzogiorno nell’opera narrativa di Carlo Levi» .

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