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La piazza “mediterranea” nei borghi rurali in Sicilia

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Edoardo Caracciolo, Borgo Gattuso, la chiesa, 1941

di Cesare Ajroldi

Affronto in questo articolo un tema che penso possa assumere un senso rispetto al dibattito contemporaneo: quello dei borghi rurali costruiti in Sicilia tra la fine degli anni Trenta e gli anni Cinquanta da un gruppo di architetti siciliani, il cui esponente principale è Edoardo Caracciolo, che si occupò alla fine degli anni Trenta di architettura spontanea. Caracciolo, figura nota e citata in molti testi, con altri (Gruppo Urbanisti Siciliani) lavorò tra l’altro con Giuseppe Samonà in alcune occasioni, la cui principale è la realizzazione di Borgo Ulivia a Palermo nella seconda metà degli anni ’50, un quartiere di edilizia sovvenzionata particolarmente innovativo per il periodo. E un altro protagonista di questo gruppo è Pietro Ajroldi, grande amico e di qualche anno più giovane di Caracciolo, autore con lui di studi e mostre sull’architettura minore e autore di molti progetti di case del fascio e di un borgo.

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Pietro Ajroldi, Borgo Sparacia, poi Callea, assonometria

Pietro Ajroldi inizia a progettare alla fine degli anni ’30: i suoi primi progetti, redatti tra Roma e Palermo, risentono poco della stagione razionalista italiana, e pochissimo della retorica di regime. Si tratta soprattutto di progetti per Case del Fascio in piccoli centri e borghi rurali, di cui almeno uno costruito (Borgo Sparacia, poi Callea, in provincia di Agrigento). In questi l’architettura è caratterizzata da semplicità, utilizzazione di materiali naturali, in una parola da una sorta di mediterraneità, di vernacolarità derivata soprattutto dagli studi compiuti, in particolare con Edoardo Caracciolo, sull’architettura minore siciliana: Erice, i borghi attorno a Palermo, eccetera.

Scrive su Pietro Ajroldi Paola Barbera:

 «L’interesse per l’architettura minore è uno dei tentativi di coniugare i termini ‘tradizione’ e ‘modernità’ scegliendo una ‘tradizione’ quanto mai lontana dall’aulicità della Roma imperiale e una modernità fatta sostanzialmente di rispondenza essenziale alla funzione. La scala della ricerca è certamente nazionale, eppure trova in Sicilia una folta schiera di architetti disposti a ripartire proprio dallo studio di un’edilizia spontanea, fortemente legata al contesto, connessa da vincoli strettissimi a un dato paesaggio, a un determinato territorio [...]
Partecipa nel 1941 al concorso indetto dal PNF per la costruzione di case del fascio tipo in piccoli centri rurali; il concorso ha complessivamente esiti poco felici, segnali di una definitiva involuzione. La piccola casa di Ajroldi tuttavia ha degli elementi che preannunciano una possibile ripresa: la torre littoria, nella maggior parte dei progetti volume sgraziato ancor prima che monumentale, diventa nel progetto di Ajroldi la torre di avvistamento tipica delle coste palermitane, una sorta di preesistenza di pietra inglobata in un volume di intonaco. Memoria di antiche tonnare. A ben guardare, il progetto atopico per eccellenza viene trasformato da Ajroldi in una casa in un luogo preciso: la torre è l’antica torre di avvistamento di Mondello e sullo sfondo riconosciamo il golfo e la celebre silhouette del Monte Pellegrino»[1].
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Borgo Callea, la piazza, stato attuale

I progetti dei borghi rurali costituiscono un complesso di risultati di grande interesse, e rappresentano una stagione significativa dell’architettura siciliana. I primi otto sono stati progettati e in buona parte costruiti tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, e sono stati pubblicati nel 1941 su «Architettura» con un articolo di Maria Accascina, che scrive:

 «… risulta la necessità, da parte dell’Ente di Colonizzazione, di affidare il compito a giovani architetti perché la soluzione fosse suggerita da individuali possibilità di interpretazione, e, nel tempo stesso, s’intende perché la Direzione dell’Ente abbia segnalato agli architetti stessi la necessità di far sorgere borghi non di tipo internazionale, ma mediterraneo; e non semplici aggregati di costruzioni, ma espressioni spirituali del nuovo stato d’animo: tramite di civiltà, e non semplice riduzione popolareggiante di civiltà; pietra che si fa parola educatrice e benefica. [...]
In generale, nella sistemazione delle piante, tutti gli architetti hanno preferito la soluzione della piazza al centro, che è, per chi conosce l’abitudine siciliana, elemento di straordinaria importanza: luogo di riunione, di contratti, di scambi commerciali, di svaghi. Un borgo senza piazza non avrebbe suggerito al rurale siciliano l’idea del paese»[2].
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Edoardo Caracciolo. Borgo Gattuso, 1941

 La piazza come elemento caratterizzante della gran parte di questi piccoli insediamenti, connessi secondo il progetto generale in una rete che li legava alle abitazioni rurali diffuse nel territorio diviso in lotti coltivabili in modo intensivo. La piazza è anche l’elemento che motiva la scelta degli esempi che presento, perché costituisce la struttura fondamentale di quelli più significativi. Le due bellissime immagini che corredano lo scritto di Accascina, di Borgo Gattuso e Borgo Fazio, appena costruiti, in rapporto con un territorio ancora assolutamente deserto, di cui i borghi dovevano essere l’occasione di una grande trasformazione produttiva, sono estremamente significative: ci danno, insieme alla citazione del tema della piazza, lo spunto per caratterizzare questa architettura come metafisica costruita, riprendendo il titolo di un testo relativo soprattutto alle città della bonifica pontina.

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Borgo Gattuso, planimetria

In un saggio di un testo riferito alle architetture pontine, ribadisce Giuseppe Strappa:

 «… non si può non rilevare come gran parte dei borghi e delle Città di fondazione costruiti dagli architetti italiani tra le due guerre siano partecipi di una nuova, tutta moderna specificità mediterranea la quale, se si guarda alle radici organiche (tettoniche e tipologiche) della costruzione e del suo rapporto con l’organismo urbano, oltre le ideologie e le inevitabili diversità areali, sembra per larga parte derivare da un nucleo centrale di caratteri condivisi, la coscienza dei quali nasce e si evidenzia dalla contrapposizione con la serialità e discontinuità del mondo moderno nordeuropeo. E dalla quale traggono origine i linguaggi, cioè gli usi personali della lingua, il cui studio strutturale permetterebbe di legare in un inedito percorso, per esempio, la produzione “muraria” dei pionieri del moderno, testimoniata da Le Corbusier delle case Errazuris, De Mandrot, Jaoul; le opere degli architetti “emigrati” verso il sud, come i costruttori della “città bianca” di Tel Aviv; quelle di interpreti più recenti del linguaggio plastico e murario su cui si fonda la tradizionale organicità del mondo costruito mediterraneo come Pouillon, Pikionis, Costantinidis.

Illuminando di nuovi significati opere e personaggi che, se interpretati secondo i metodi e i principi delle storiografie ufficiali, non risulterebbero che frammenti dispersi della vicenda dell’architettura moderna»[3].

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Luigi Epifanio, Borgo Fazio, 1941

La assolutezza degli spazi delle piazze dei borghi, oggi particolarmente evidente per il fatto che sono in gran parte abbandonati e/o profondamente mutati (a eccezione di Borgo Callea e Borgo Cascino), rende esplicito il riferimento alla metafisica, e ci consente di approfondire i caratteri di questa mediterraneità: nel rapporto voluto con il territorio, nella persistenza della piazza come elemento fondante, nell’adozione della struttura muraria, nella semplicità delle forme. Così, questi esempi “minori” possono essere assai utili a dare un ulteriore contributo alla definizione del tema.

Questa esperienza si inserisce nel dibattito che si svolge in quegli anni in Italia sull’architettura spontanea, il cui protagonista principale è certamente Giuseppe Pagano. Scrive di lui Maria Luisa Madonna:

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Borgo Fazio, assonometria

«Il suo richiamo a una meditazione più specifica e approfondita fa sì che la sua “casa mediterranea […] corrispondente in ogni suo particolare ai bisogni della vita agricola”, conclude la Danesi, risulti “in posizione opposta rispetto alla evocazione di canoni greci e di ideali neoplatonici che comporta il mare Mediterraneo” per tutti quegli intellettuali razionalisti puristi che si riconoscevano nei postulati lecorbusiani. In questa temperie diventa inequivocabile l’atteggiamento culturale e progettuale degli architetti palermitani del Gruppo M., di cui Caracciolo si fa portavoce: si tratta di fare architettura moderna ma in più si cerca una forma-funzione con radici specificamente siciliane ma non vernacolistiche, mantenendo l’impegno con le nuove vie dell’architettura. “Gli architetti del gruppo M. non si propongono di fissare caratteri generali distintivi dell’arte mediterranea, anche se limitata all’edilizia minore; vogliono solo continuare le ricerche già iniziate, mentre tendono a fissare alcuni elementari caratteri siciliani, inesattamente valutati” (1937)»[4].

 I primi otto borghi sono stati realizzati in otto delle nove province dell’Isola; nel 1940 ne sono stati messi in cantiere altri sei, completati negli anni Cinquanta. Erano in gran parte posti in luoghi ritenuti salubri, per lo più su alture, e costituiscono così elementi di immediata riconoscibilità rispetto all’intorno.

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Giuseppe Marletta, Borgo Cascino, assonometria

Quelli che presento, in relazione ai temi della piazza e del rapporto col territorio, sono in buona parte del gruppo più antico. Il Borgo Gattuso, di Edoardo Caracciolo, presso Caltanissetta, è oggi quasi irriconoscibile, a eccezione della chiesa, architettura di pura forma cilindrica posta all’estremità del complesso in posizione elevata: ha un sistema planimetrico ordinato, come nei progetti coevi di Caracciolo, e legato alla particolarità del sito, con la scelta della sistemazione della chiesa.

Il Borgo Fazio, di Luigi Epifanio (un altro protagonista di quella stagione dell’architettura palermitana), in provincia di Trapani, anche questo pressoché abbandonato, è caratterizzato da un fronte aperto sul territorio, fronte posto su una quota leggermente superiore all’area adiacente.

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Borgo Cascino, la piazza

Il Borgo Cascino, presso Enna, di Giuseppe Marletta (esponente del gruppo di architetti catanesi, per formazione e riferimenti in parte differenti dai palermitani), è molto compatto e ancora riconoscibile nei suoi aspetti principali. L’architettura presenta caratteri di qualità, anche nell’uso dei materiali (anche se i colori pastello del recente restauro sono alquanto discutibili, come si può notare dalla veduta di epoca precedente all’intervento). La pietra con cui è costruita la torre è riproposta, in forme di grande semplicità, negli elementi di decorazione degli edifici, cornicioni, portali, cornici di finestre e marcapiano. Il progetto prevedeva un ampliamento che non è stato realizzato.

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Donato Mendolia, Borgo Bonsignore, planimetria

Anche il Borgo Bonsignore, vicino Ribera in provincia di Agrigento, dell’ingegnere Donato Mendolia, è ben conservato, e come il precedente ha la piazza come elemento fondante.

Dei borghi successivi, abbiamo già accennato a Borgo Callea, di Pietro Ajroldi, in provincia di Agrigento, ancora ben conservato e utilizzato, anzi sottoposto a un’operazione di “restauro” recente, in cui però si è scelto di modificare la superficie esterna di gran parte degli edifici con un rivestimento in pietra, escludendo solo la torre littoria, l’unica del progetto originario (con la chiesa) prevista in pietra. Malgrado questo discutibile intervento, l’aspetto della piazza è ancora chiaramente leggibile ed è forse quello che maggiormente la apparenta alle piazze della pittura metafisica.

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Borgo Bonsignore, la piazza, 1941

L’altro borgo coevo è il Borgo Borzellino, in provincia di Palermo, di Giuseppe Caronia e Guido Puleo, in cui ancora la piazza è il fulcro principale, ma è ormaidel tutto abbandonata e ridotta allo stato “vegetale”.

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Giuseppe Caronia, Guido Puleo, Borgo Borzellino, assonometria

In conclusione si può asserire che il tema della piazza, ignorato dagli esempi emblematici del Movimento Moderno in quegli anni, costituisce un elemento profondamente connaturato alla architettura italiana, e ripreso negli anni ’60-’70 dall’architettura della “Tendenza”, alla quale si deve anche una indiscutibile coerenza con la pittura metafisica, con le piazze dipinte da De Chirico. Per cui queste realizzazioni di scala molto limitata possono rappresentare un carattere significativo dell’evoluzione della disciplina nel Ventesimo secolo.

Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
Note
[1] Paola Barbera, Architettura in Sicilia tra le due guerre, Sellerio, Palermo 2002.
[2] Maria Accascina, I borghi di Sicilia, in “Architettura”, maggio 1941.
[3] Giuseppe Strappa, Nuove città mediterranee, in Metafisica costruita, Touring Club Italiano, Milano 2002.
[4] Maria Luisa Madonna, Dalla «Città-giardino Mussolinia» alla colonizzazione del latifondo siciliano, in Marcello Fagiolo, Maria Luisa Madonna, Le città nuove del fascismo; sta in Studi in onore di Giulio Carlo Argan, La Nuova Italia, Scandicci 1994.

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Cesare Ajroldi, ha cominciato la propria carriera accademica con Alberto Samonà, diventando in seguito professore ordinario, direttore del Dipartimento di Storia e progetto nell’architettura all’Università di Palermo, oltre che coordinatore del dottorato in Progettazione architettonica con sede nel capoluogo siciliano.  Ha partecipato a numerosi concorsi nazionali e internazionali dal 1970 al 2004, ottenendo il II premio per lo ZEN e l’Università di Cagliari (1972, capogruppo G. Samonà). Tra le opere più recenti, la scuola media a Niscemi (realizzata) e il progetto di Autostazione Sud a Palermo. Tra le pubblicazioni più recenti: Monumento e progetto a Palermo (Roma, 2005), Expo Lisboa 1998 Paris-Palermo (Roma, 2007), Per una storia della Facoltà di Architettura di Palermo (Roma, 2007), Innovazione in Architettura (Palermo, 2008), La Sicilia i sogni le città. Giuseppe Samonà e la ricerca di architettura (2014).

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