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La “pesca da diporto” di Ferdinando di Borbone

 

 Portici, peschiere reali, Salvatore Fergola, inizi Ottocento

Portici, peschiere reali, Salvatore Fergola, inizi Ottocento

di Maria Sirago

Dagli anni Quaranta del Settecento re Carlo di Borbone, appassionato di caccia, ma anche di pesca, per quest’ultima attività aveva deciso di riservare per uso proprio il territorio concesso anticamente al Monastero di San Sebastiano, che si estendeva dalla torre di San Vincenzo, al Molo, fino a Posillipo, pagando al Monastero un canone annuo di 300 ducati (Sirago, 1993:.331 e 2018: 80-84). Lungo la costa aveva creato una riserva di pesca, sul tipo dei “siti reali” di caccia di Procida e Ischia (eredità materna, appartenente ai Farnese dai primi del Cinquecento), e di quelli acquistati, Portici, Caserta, Astroni, Agnano, Cardito, Carditello, Calvi, Capriati, Licola, Maddaloni, Caiazzo, Venafro, dove vigeva il divieto di caccia e pesca (Giustiniani, 1803-1805: 256).

Il luogo preferito per la pesca era il porto del Granatello a Portici, dove Carlo aveva deciso di costruire un idilliaco palazzo reale in cui si recava durante la stagione estiva. Si racconta infatti che il re, recatosi a Castellammare con la moglie Maria Amalia per assistere alla pesca con la tonnara (anch’essa eredità farnesiana, per cui suo bene allodiale o personale), sulla via del ritorno per il mare in tempesta si era rifugiato nel porticciolo del Granatello dove aveva visitato la bellissima villa del duca d’Elbouf, costruita ai primi del Settecento; così, deliziato dall’amenità del luogo, aveva deciso di far costruire un palazzo che potesse ospitare tutta la corte, acquistando la stessa villa d’Elbouf, prospiciente sul mare.

Poi durante la costruzione erano stati ritrovati molti reperti archeologici con i quali il sovrano aveva creato il Museo (Del Pezzo, 1895: 161-167). Il sovrano aveva anche fatto costruire delle “peschiere reali”, riserve di pesca. Esse, «destinate al privato divertimento di Sua maestà. [erano] disposte in tanti ripartimenti tutti chiusi con cancelli di ferro, e reti anco di sottil ferro formate, che lascia[va]no libera l’entrata alle acque marine senza che [potessero] uscirne i pesci ivi rinchiusi» (Celano, 1792: 30 -34).

Anche il figlio Ferdinando aveva la stessa passione per la pesca, insieme a quella della caccia. Divenuto re nel 1758, a soli otto anni, dopo la partenza del padre, partito per la Spagna per assumerne la corona, era stato affidato ad un Consiglio di Reggenza presieduto dal fedele ministro Bernardo Tanucci che doveva inviare settimanalmente una missiva in Spagna per informarlo sull’andamento del governo del Regno (De Maio, 1996, Sirago, 2019).

Bernardo Tanucci, anonimo

Bernardo Tanucci, anonimo

Il giovane re era poco incline alla disciplina e alle occupazioni politiche previste dal suo status. Inoltre, data la sua gracilità, nella sua educazione fu privilegiata l’attività fisica. Preferiva dedicarsi ai numerosi passatempi, in primo luogo alla caccia e alla pesca ma anche all’equitazione, “sport” che praticava anteponendoli a qualsiasi obbligo privato o pubblico, il che suscitò motivi di critica tra i contemporanei e gli storici.

Il 12 gennaio 1767, a sedici anni, egli divenne maggiorenne, come era stato prescritto da Carlo, assumendo i poteri regi. Perciò il Consiglio di Reggenza fu trasformato in Consiglio di Stato e Tanucci nominato primo ministro. L’anno seguente, il 7 aprile, giunse in Napoli da Vienna la sposa Maria Carolina, figlia di Maria Teresa d’Austria, che in breve aveva preso saldamente in mano le redini del governo. Difatti, secondo una clausola del contratto matrimoniale, alla nascita del primo figlio maschio ella poteva entrare a far parte del Consiglio di Stato; ma, come riferiva Tanucci a Carlo nelle in sue missive settimanali, ella aveva incominciato anche prima a dedicarsi agli affari di stato, col consenso del re, che poteva dedicarsi ai suoi passatempi, riuscendo a “giubilare” (mandare in pensione il ministro Tanucci, ormai vecchio e stanco, nel 1776 (Sirago, 2019).

Ferdinando, come il padre, amava la reggia di Portici dove durante la stagione estiva tutta la corte si trasferiva per la villeggiatura; qui egli poteva pescare nelle “peschiere reali” e calare la tonnara. La costa tra San Giovanni e Torre del Greco fin dai primi del Cinquecento era possesso di alcune famiglie feudali che dagli abitanti riscuotevano alcuni diritti feudali di pesca, anche per quella del corallo. Dopo l’estinzione dei principi di Stigliano i beni erano tornati al regio demanio per cui nel 1699 gli abitanti avevano potuto ricomperare il demanio con i proventi del loro lucroso mestiere di “corallari” (pescatori di corallo) (Sirago, 1993: 343-344). Ma negli anni Quaranta del Settecento, dopo la costruzione delle “peschiere reali” e il calo della tonnara regia, in tutto il territorio era stata nuovamente vietata la pesca, controllata da un direttore e da guardiani dei “siti reali di pesca” che dovevano evitare di far pescare di frodo (Archivio di Stato, Napoli, Casa Reale Antica, III Inventario, Siti Reali, 1929, 29 novembre 1799).

Fig. 3 Ferdinando IV dalla sua lancia segue la pesca nella tonnara del Granatello, Anonimo, Napoli, ex Ammiragliato (Formicola, 2020)

Ferdinando IV dalla sua lancia segue la pesca nella tonnara del Granatello, Anonimo, Napoli, ex Ammiragliato (Formicola, 2020)

Ferdinando nel 1773 aveva fatto costruire al Granatello, prospiciente alla reggia, un porto costato 23.000 ducati per le sue “galeottiglie” reali, imbarcazioni della stessa tipologia delle galere ma dalle dimensioni ridotte a metà, con un’andatura più lenta (Sirago, 1993: 344; Visone, 2008: 220ss.), con le quali soprattutto in estate quotidianamente faceva la spola tra la Capitale e Portici.

Negli anni Settanta il ministro Tanucci, data la scottante situazione politica, temeva che si potesse verificare un attacco al palazzo reale   di Portici dove re Ferdinando si recava spesso per cacciare o dedicarsi alla pesca nelle «peschiere reali», per cui aveva fatto costruire delle batterie lungo la costa, da Napoli a Castellammare, con cannoni provenienti dalla Svezia (Sirago, 2019: 528). Ma il giovane re, per nulla preoccupato, aveva provveduto al meglio per organizzare con profitto le sue battute di pesca. Aveva fatto venire a corte una cinquantina di abitanti di Lipari con le famiglie, esperti marinai e pescatori, che voleva far addestrare e tenere presso di sé come una sorta di guardia personale (Mincuzzi, 1969: 553 ss.), detti “volontari del regio Corpo di Marina”, il cui comando era stato affidato a Gaetano Filangieri, che aveva anche il compito di “maggiordomo di settimana” (Filangieri T., 1902:3). Ma questa iniziativa non era piaciuta al ministro che il 18 dicembre 1770 aveva scritto a Carlo per manifestare tutta la sua preoccupazione. Egli riteneva che i rozzi marinai avevano molta    influenza sul re: difatti egli trascorreva molto tempo con loro, facendo insieme anche gli esercizi militari (Scalfati, 1774) ed aveva fatto fare per loro anche una uniforme, per distinguerli dagli altri corpi militari (Mincuzzi, 1969: 448-449).

Fig. 4 Ferdinando vestito da pescatore con una “galeottiglia” alle spalle, Napoli, Museo di San Martino (Formicola, 2020)

Ferdinando vestito da pescatore con una “galeottiglia” alle spalle, Napoli, Museo di San Martino (Formicola, 2020)

In un’altra lettera del 12 marzo 1771 il ministro riferiva che essi erano rozzi ed incolti per cui temeva che distogliessero il re, che aveva un’indole dedita più ai piaceri che alle cure dello Stato, dai suoi doveri. Invece Ferdinando aveva continuato a frequentarli, imparando da loro a manovrare le “galeottiglie” reali (Mincuzzi, 1969: 660 ss.). Il 13 ottobre 1772 in un’altra missiva riferiva  a Carlo che il figlio aveva arredato le “galeottiglie” in modo sontuoso, con vasellame d’argento pagato 3000 ducati tratti dalla cassa allodiale (o personale) del re (Mincuzzi, 1969: 769-770). In quel periodo si stava riorganizzando la flotta, per la quale si stavano allestendo alcuni sciabecchi su modello spagnolo (Sirago, 2019), velieri mediterranei di origine araba con scafo con punta slanciata, a tre alberi, con un piccolo bompesso, molto manovrabili e veloci, per cui più adatti alla guerra di corsa (Formicola – Romano, 1990). Ma con una missiva del 19 maggio 1772 il ministro rassicurava Carlo riferendogli di non aver fatto abolire le galere, anche se Ferdinando, divenuto esperto di imbarcazioni grazie ai liparoti, era di parere contrario. Il re, infatti, riteneva «che non rend[ev]ano le galere servizio che non si po[tesse] ugualmente dalle galeotte e sciabecchi», che erano anche molto più veloci (Mincuzzi, 1969: 741-742). Nello stesso tempo si dedicava alacremente alla pesca con le sue “galeottiglie” (Sirago, 2018: 80ss.). Ma questa attività preoccupava Tanucci perché il re trascurava spesso le sue incombenze politiche, come aveva già osservato per il passato nella sua lettera a Carlo del 15 agosto 1769, quando aveva riferito: «Per andare a pescare il re rimandò la settimana passata il Consiglio d’Azienda da giovedì  a sabato» (Mincuzzi, 1969: 544 ss.).

Ma comunque l’esperimento dei liparoti non doveva essere stato del tutto fallimentare visto che il ministro il 4 giugno 1771 faceva presente a Carlo con piacere che con la esperienza acquisita dai marinai nel sovrano si era sviluppata una certa «inclinazione alla marina» (Mincuzzi, 1969: 673-674). Dopo alcuni anni, nel 1776, Tanucci poteva comunicare al re che la difesa del litorale, per la quale erano stati spesi con la cassa allodiale 30 mila ducati per le costruzioni e 40 mila per l’artiglieria venuta sia dalla Svezia che da Trieste, era completata, anche se ormai non sembrava così necessaria, visto che i venti di guerra si erano placati (Mincuzzi, 1969: 1024-1025, 26 marzo). Lo stesso giorno riferiva che il re prevedeva di usare 10.600 ducati della stessa cassa, un suo fondo personale, per costruire un nuovo quartiere per alloggiare al meglio i volontari di marina, cioè i marinai di Lipari, e le loro famiglie (Mincuzzi, 1969: 1022- 1024, 26 marzo), il che mostrava la volontà di sistemare al meglio la sua fedele squadra.

Anche nel Diario segreto scritto dal sovrano trascritto da Umberto Caldora per il periodo tra il 1796 e il 1799 si fanno continui riferimenti a battute di pesca proprio nel porto del Granatello, a cui si aggiungeva anche il lancio della tonnara all’uso napoletano (Caldora, 2014: 303, 6 maggio 1798), con ancore di pietra e il pedale posto a terra, diversamente da quelle siciliane calate in mare aperto con ancore di ferro (Sirago, 2018: 62ss.). Caldora aveva scelto di trascrivere questi anni del Diario (conservato nell’Archivio di Stato di Napoli) per analizzare il comportamento del sovrano negli anni che precedettero la Repubblica Partenopea e nel suo periodo di esilio a Palermo, dalla fine di dicembre 1798.

Nel Diario, forse scritto su suggerimento della regina, egli riportava le occupazioni quotidiane, gli incontri con i ministri, i comportamenti della moglie, ma non commentava alcun evento politico.  Mostrava solo interesse ai suoi passatempi, praticati anche durante l’esilio a Palermo. Mentre Napoli era in fiamme, durante gli ultimi giorni della Repubblica, egli si recava in una zona vicina alla città, l’Arenella, dove faceva calare la tonnara all’“uso napoletano” con il piede posto a terra, con l’ausilio di un rais napoletano, e qui spesso “passava la giornata” (Caldora, 2014: 456, 460, 463, 6,15, 24 maggio 1799). Dalla tonnara dell’Arenella talvolta passava per quella di Mondello, dove si “divertiva molto” (Caldora, 2014: 465, 8 giugno 1799).  Nello stesso periodo era solito calare una “tonnarella alla napoletana” nel territorio in cui si calavano le tonnare di Solanto e Sant’Elia (Caldora, 2014: 472, 23 giugno 1799), lungo il litorale di Bagheria, (D’amico, 1815: 30 -34). Il 30 maggio si limitava a segnare “buone nuove” da Napoli (Caldora, 2014: 465) ed il 13 giugno (ivi: 469) che l’ammiraglio Nelson era “alla vela con tutta la sua Squadra” per dirigersi a Napoli.

Mentre cadeva la Repubblica, il 22 giugno, egli era a pescare con la tonnara all’Arenella (ivi: 471-472). Il 3 luglio partì da Palermo per tornare a Napoli con una nave della flotta di Nelson (Caldora, 2014: 475); ma al suo arrivo preferì restare nel porto, sull’imbarcazione, anche se si faceva vedere spesso dal popolo per placare gli animi, mentre si eseguivano le condanne capitali, in primis quella dell’ammiraglio Caracciolo, “afforcato” sulla sua nave Minerva per ordine dell’ammiraglio Nelson.  Ma poi, tornato a Palermo il 9 agosto aveva ripreso le sue abitudini, in primis la pesca all’Arenella (Caldora, 2014: 490, 15 agosto). Ed anche quando tornò a Palermo per il secondo esilio, durante il Decennio Francese (1806-1815) continuò ad utilizzare i siti palermitani per calare le sue tonnarelle “alla napoletana (D’amico, 1815: 30-34).                                                                                                                         

                                         Fig.5 Resti della tonnara di Solanto


Resti della tonnara di Solanto

Dopo la Restaurazione il re, vecchio e stanco, non utilizzò molto i siti reali di pesca. Poi i suoi successori, che non manifestarono la stessa sua passione per la pesca, preferirono affittare le “peschiere reali” del Granatello (Archivio di Stato, Napoli, Casa reale Antica, III Inventario, Siti Reali, 1666, affitto della pesca del Granatello, 1832).

Il re quando era a Napoli si dedicava al suo “sport” preferito a Mergellina dove negli anni Settanta aveva preso in fitto un “Casino” presso la spiaggia, ai piedi della collina di Posillipo (luogo in cui ora vi è la funicolare) per riporvi gli attrezzi di pesca, reti sciabiche, lanciatoi (arpioni), nasse ed altri vari attrezzi (Knight, 1995: 270ss.). In estate, come raccontava lo stesso Ferdinando nel suo Diario segreto, la pesca diventava un vero spettacolo, «con un concorso numerosissimo di spettatori tanto per terra che per mare», una «pesca riuscita benissimo» (Caldora,2014: 330, 11-12-13 agosto 1798). A Posillipo, sulla spiaggia ora nascosta dalla strada costruita negli anni Venti dell’Ottocento, faceva anche calare una tonnara, con cui faceva “buona pesca” (ivi: 333, 22 e 23 agosto 1798), ponendovi il piede, o “pedale” secondo l’uso napoletano (Sirago, 2018).

Fig 4 Mergellina, veduta con pescatori, anonimo, XIX secolo, collezione privata

Mergellina, veduta con pescatori, anonimo, XIX secolo, collezione privata

Egli non si divertiva però solo con la pesca ma anche con la vendita del pescato. Il “repubblicano” Giuseppe Gorani, probabilmente una spia francese (di origine piemontese) (1793: 49-51) aveva assistito «à ce spectacle amusant et uniqe dans son genre», divertendosi molto, ma criticando le occupazioni ludiche del re, caccia e pesca, che permettevano alla regina e ai ministri di governare “à leur fantasie”, con grave danno per il Regno. Il re, dopo essere approdato sulla spiaggia di Mergellina, mostrava tutto il prodotto della pesca; qui arrivavano i capiparanza che compravano il pesce dallo stesso re. Egli si divertiva a vendere il pesce come un comune pescatore, facendo le “voci” per ottenere un migliore guadagno, senza dare nulla a credito, toccando il denaro per controllarlo, contorniato dai molti lazzaroni per i quali aveva una particolare predilezione; e questi gli si disponevano intorno, facendo in modo che i viaggiatori stranieri potessero assistere all’esilarante spettacolo, «une scène …extrêmement comique».

Il sito di Mergellina, saccheggiato durante la Repubblica, gli era molto caro. Per cui da Palermo dava ordine al direttore dei “siti reali di pesca” di controllare che non vi fossero abusi; questi infatti non aveva permesso a Vincenzo Vaccaro di ricostruire nel luogo “del Leone”, a Mergellina, un nuovo “bagno” per attività balneari al posto di quello costruito “nel sito denominato Cantalupo”, distrutto da una tempesta, utilizzato per le abluzioni salutifere di acqua marina che si stavano diffondendo in quel periodo su imitazione degli stranieri (Archivi di Stato, Napoli, Casa Reale Antica, III Inventario, Siti Reali, 1929, 11 febbraio 1800 e 3 maggio 1801).

Fig.7 Casina Vanvitelliana

Casina Vanvitelliana

Altri “siti reali” di pesca, spesso uniti alla caccia, erano quelli del Fusaro, di Licola e di Ischia (Azzinnari Ricci, 1988: 678). Il lago Fusaro, un lago salmastro nel territorio tra Cuma e Baia, in possesso della Casa Reale, era usato con i suoi dintorni, scarsamente abitati, dai sovrani come “sito reale di caccia e di pesca”. Nel 1752 re Carlo aveva acquistato il lago col suo territorio facendo costruire dall’ architetto Luigi Vanvitelli proprio in mezzo al lago, su un naturale livello granitico, una “casinetta ottagonale”. casino reale del Fusaro, chiamato poi “Ostrichina”, oggi conosciuto come “casina vanvitelliana”. Poi Ferdinando IV nel 1782 aveva dato incarico all’architetto Carlo Vanvitelli, figlio di Luigi, di progettare e realizzare la residenza di caccia, la Casina Reale del Fusaro. Furono costruiti “sei bassi terranei’ destinati alla scuderia reale, a «osteria per gli ospiti che vi si recavano a diporto»; fu restaurata l’antica foce di Torre Gaveta, e soprattutto, fu incrementata la coltura delle ostriche, di cui il re era molto ghiotto. Difatti dal 1764 re Ferdinando, che era un esperto di produzioni ittiche, aveva fatto porre in atto un fiorente sistema di “pesca industriale”, l’ostricoltura (con ostriche provenienti dalle coltivazioni di Taranto), insieme alla mitilicoltura (la quale non ebbe però buon esito), una attività data poi in fitto.

 Fig. 8 Ischia, Villa Bagni, Jakob Philipp Hackert, 1787


Ischia, Villa Bagni, Jakob Philipp Hackert, 1787

Per organizzare la ripopolazione del lago furono usate delle tecniche che ricordavano quelle in uso in epoca romana. Sulla sponda del lago furono edificati vari fabbricati, per conservare il pesce e per porvi a riparo barche ed attrezzi da pesca ad uso della famiglia reale. Così quello che un tempo era l’alloggio del guardiano divenne il “Real Casino” al centro del Fusaro dove a fine Settecento accorrevano i viaggiatori stranieri, desiderosi non solo di vedere gli antichi paesaggi acherontei descritti da Virgilio ma di assaggiare le famose ostriche che vi si producevano (Pane, 1980, Cirillo, 2001). Solo successivamente fu costruito il pontile di legno, mentre l’“Ostrichina”, ossia la villa a riva, progettata dall’architetto di Casa Reale Antonio De Simone, inaugurata nel 1825, aveva anche un ampio spazio per consentire la sosta delle carrozze reali (Ranisio, 1989: 61ss.).

Altro “sito reale” di caccia e pesca era il lago di Licola, uno dei luoghi preferiti dal re Ferdinando, che vi aveva fatto costruire una “Casina di caccia e pesca” ancora esistente, per praticare nelle paludi circostanti i suoi “sport preferiti (Giusto, 2004).

Infine il re era solito organizzare battute di caccia e pesca nell’Isola di Ischia. Qui il re si recava in villeggiatura, ospitato dal suo medico curante, Francesco Buonocore, che aveva fatto costruire un “casino” a “Villa bagni” (odierna Ischia Porto) (Moraldi, 2002). Il re, deliziato dal soggiorno, tra il 1785 ed il 1786 decise di acquistare il casino, che fece ampliare dall’architetto Carlo Vanvitelli. Qui nell’antico lago vulcanico (trasformato nel 1854 in porto) il re soleva pescare le “chiocciole (Sirago, 2015: 311). Ma anche questo luogo, acquistato dai sovrani borbonici e divenuto “sito reale”, nel corso dell’Ottocento veniva affittato (D’Arbitrio Ziviello, 2004).

Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023 
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Maria Sirago, dal 1988 è stata insegnante di italiano e latino presso il Liceo Classico Sannazaro di Napoli, ora in pensione. Partecipa al NAV Lab (Laboratorio di Storia Navale di Genova). Ha pubblicato numerosi saggi di storia marittima sul sistema portuale meridionale, sulla flotta meridionale, sulle imbarcazioni mercantili, sulle scuole nautiche, sullo sviluppo del turismo ed alcune monografie: La scoperta del mare. La nascita e lo sviluppo della balneazione a Napoli e nel suo golfo tra ‘800 e ‘900, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2013; Gente di mare. Storia della pesca sulle coste campane, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2014, La flotta napoletana nel contesto mediterraneo (1503-1707), Licosia ed. Napoli 2018.

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