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La maschera fàtica

Prizzi, i diavoli (ph. Melo Minnella)

Prizzi, I diavoli (ph. Melo Minnella)

di Rosario Perricone  [*] 

Ho avuto la fortuna di conoscere lo scrittore nigeriano e premio Nobel Wole Soyinka. Nel corso di una delle sue ultime visite al Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino di Palermo, Soyinka si fermò davanti a un Gledé (maschera-marionetta degli Yorubà) e mi chiese. «Questa cos’è per te?». Dopo un attimo di esitazione di fronte alla domanda apparentemente retorica, risposi con flebile voce: «Una maschera?». «Per me – disse – è un pezzo di legno finemente scolpito. Solo quando è indossata dalla persona che la danza diventa una maschera».

Ogni ricerca dovrebbe partire dal presupposto che non si può restare racchiusi all’interno di un inquadramento metodologico già definito, dal momento che il suo apporto conoscitivo alla realtà discende dalla commistione ponderata di differenti strumenti di metodo e contributi analitici. Applicheremo diversi paradigmi euristici alle maschere cercando di pensarle non tanto come oggetti inerti al nostro sguardo le quali nel momento in cui vengono sottratti dall’ambito d’uso e isolate in una collezione diventano “semiofori” (Pomian 1978: 32), ma al contrario le penseremo «come soggetti animati, dotati di personalità, bisogni e soprattutto desideri. Anziché chiederci che cosa significano, proveremo «a chiederci che cosa vogliono» (Mitchell 2009: 100).

Gli aspetti formali della maschera non hanno valore perché rinviano a qualcos’altro che può esser detto anche – e forse meglio – a parole, ma perché fanno emergere aspetti e rapporti che sono esclusivamente iconici e in quanto tali non risultano traducibili in nessun altro codice. La maschera è innanzitutto Sehangebot, offerta rivolta allo sguardo, che ha un «‘plusvalore’ ottico» che ne determina l’intera logica visuale (Boehm 1996). In questo contesto la maschera non è cosa, oggetto, quanto piuttosto evento in atto, epifania di un’assenza che coinvolge e travolge l’astante attraverso la performance.

Adrano, La Diavolata (ph. Luigi Lombardo)

Adrano, La Diavolata (ph. Luigi Lombardo)

Le performance segnalano le identità, piegano il tempo, riconfigurano e adornano i corpi, raccontano storie. La performance ha un ruolo centrale nel pensiero di Turner (1986, 1993) poiché i generi performativi sono esempi viventi del rito come azione. Un processo dinamico e continuo lega il comportamento performativo alla struttura sociale ed etica, cioè il modo in cui la gente giudica e organizza la propria vita e determina i valori individuali e di gruppo. La performance è un paradigma di processo. Questo approccio permette di far crollare l’anelito classificatorio occidentale sostituendolo con una “logica meticcia” basata sulla continuità culturale – che non trasforma le culture in astoriche e intemporali al contrario le esplora attraverso l’analisi differenziale (Jean-Loup Amselle 1999).

Lévi-Strauss ci ha insegnato che 

«ogni mito o sequenza di miti rimarrebbe incomprensibile se ciascun mito non fosse opponibile ad altre versioni dello stesso mito o a miti in apparenza diversi. (…) Come avviene per i miti, le maschere, insieme con i miti da cui esse traggono origine e con i riti in cui esse compaiono, non diventano intellegibili se non attraverso i loro mutui rapporti. (…) come avviene per le parole di una lingua, ognuna di esse non contiene in sé tutto il significato» (Lévi-Strauss 2016: 45, 68). 
Mamoiada )ph. Vincenzo Agate)

Mamoiada, Mamuthones  (ph. Vincenzo Agate)

È stato dimostrato che i miti non possono essere usati come «didascalie» di iconografie, né le immagini o gli artefatti possono essere intesi come illustrazioni di miti. Esiste nelle pratiche iconografiche uno stretto collegamento tra miti, canti rituali, disegni, scritte illustrate o decorazioni corporee a loro collegate. Di conseguenza le iconografie non si vedono più come decorazioni ridondanti, ma sono intese come «variazioni» della stessa «immaginazione concettuale» che genera le narrazioni mitiche all’interno di un rapporto sinestetico diffuso ovunque. (Severi 2019)

La maschera diventa, secondo un certo tempo e all’interno di un certo spazio, una persona. In particolare, questo tipo di presenza dell’oggetto è al centro dell’azione rituale, costituisce lo spazio del pensiero. Il senso comune e molte teorie antropologiche concepiscono, quasi istintivamente, questo tipo di presenza di oggetti come risultato di una sostituzione diretta: a tale oggetto corrisponde tale persona e viceversa.

In questa prospettiva, per esempio, all’interno di un rito è la maschera che assume le sue funzioni e mantiene una relazione di equivalenza assoluta. Al contrario la maschera agisce in un modo molto diverso. Bisogna tenere conto della sua complessità specifica, la maschera è in realtà molto più vicina a un cristallo che a uno specchio. È un’immagine multipla, plurale, composta da tratti parziali e incompiuti, provenienti da diverse identità e a volte antagonistica.

Se decifriamo questa complessità della maschera, lo spazio del pensiero che l’azione rituale presuppone – e il legame di credenza che è stabilito tra oggetti e persone – appaiono in una luce diversa. La maschera è considerata come il luogo in cui sorgono identità complesse, plurali e contraddittorie, capaci di generare una dimensione ontologica parallela.

Il modo migliore per comprendere l’oggetto rituale è attraverso ciò che esso fa, e non attraverso ciò che esso sta a significare. Infatti la maggior parte dei significati viene attribuita dall’esterno. Dal nostro punto di vista, l’oggetto rituale riguarda più il fare che il dire. Ne deriva che esso offre un orientamento all’azione e dunque una cornice per l’azione che è rilevante per la comprensione delle attività umane al di là di ciò che si svolge durante il rito stesso.

Melilli, Carnevalle (ph. Nino Privitera)

Melilli, Carnevale (ph. Nino Privitera)

Sono diversi gli autori che abbracciano questa concezione nella quale la categorizzazione determina l’azione rituale (Douglas 1993, Tambiah 2002; Rappaport 2004). Il rito viene considerato come possibile orientamento all’azione, invece che come un insieme di significati. La maschera performata crea un universo soggiuntivo fatto di “come se” o “potrebbe essere”, da cui emerge il mondo sociale condiviso a cui l’oggetto fa riferimento. La formalità, la reiterazione e i vincoli tipici della performance rituale sono elementi necessari di tale creazione condivisa.

Jonathan Smith (1982) parla di natura “immaginaria” del rito, infatti i riti e il comportamento rituale non sono eventi; sono una modalità di negoziare la nostra esistenza nel mondo. Il rito asseconda la profonda necessità umana di avere dei confini con la loro natura di entità negoziabili (Seligman, Weller, Puett, Simon 2011). Ma il contesto rituale non è il solo luogo in cui può essere espressa l’agentività della maschera. Esistono altre situazioni dove questi giochi di sostituzione e identificazione parziale tra gli umani e gli oggetti possono stabilirsi. Severi (2019) ha proposto di definire questi contesti spuri come situazioni quasi rituali che, senza corrispondere alle consuete condizioni di esercizio dell’azione rituale, tuttavia permettono di descrivere tutto attraverso la teoria relazionale.

Cattafi, U Scacciuni

Cattafi, U Scacciuni (ph. Archivio fotografico “A maschera”, Cattafi)

Da queste analisi deriva che l’agentività di un artefatto dipende, oltre che dal contesto relazionale in cui opera, anche dalla forma specifica di vita degli artefatti. Questa ipotesi apre una nuova prospettiva per l’antropologia dell’arte allargando ulteriormente la teoria formulata da Alfred Gell (1998) e permette di analizzare le maschere in una nuova relazione che tenga conto, insieme al legame tra elaborazione logico-concettuale, anche della struttura sociale, della ragione funzionale, della realtà degli attori, della loro capacità di elaborazione simbolica e della loro memoria rituale.

Ogni maschera attraverso la fatica della performance rituale si trasforma allora in comunicazione fàtica, nel senso malinowskiano del termine. Per Malinowski (1923) è il fàtico a essere alla base del linguaggio, mentre il referenziale ne è una derivazione secondaria, una specializzazione ulteriore.

Mezzojuso, Mastro di Campo (ph. Luigi Lombardo)

Mezzojuso, Mastro di Campo (ph. Luigi Lombardo)

Lo scopo della comunicazione fàtica è quello di “prolungare la comunicazione”, quello che Jakobson (1963) chiama “l’accentuazione del contatto”.  «Il contenuto del messaggio è ininfluente, se non addirittura inutile, a tutto vantaggio del contatto stesso. Quel che si dice, il significato del messaggio, cede il posto alla situazione sociale in cui si inserisce» (Marrone 2017: 2).

La maschera è fàtica, se favorisce o supplisce la capacità comunicativa di chi vive nella sua aura. Evocando un comune vissuto, attuale o pregresso, la maschera fàtica promuove l’intersoggettività. Essa non si configura come sostitutiva ma come supplementare, aggiuntiva. Dunque, la donazione del senso non è altro che produzione di nuovo senso, decifrabile come filigrana nascosta di un previo senso comune sedimentato e si realizza in un determinato contesto rituale comunicativo. Il carattere principale e più affascinante della maschera lo ritroviamo in alcune zone privilegiate dell’esperienza umana: quella mistica del sacro, quella straniante del sogno e quella inebriante del poetico a cui le maschere inequivocabilmente rinviano. 

Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023 
[*] Una versione precedente del testo è stata pubblicata in inglese con il titolo Mask in Glossary of Morphology. Lecture Notes in Morphogenesis (eds. Salvatore Tedesco, Federico Vercellone), Springer, 2019: 303-306.
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Rosario Perricone, insegna Antropologia culturale e Museologia nell’Accademia delle Belle Arti di Palermo. È presidente dell’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari e Direttore del Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino” di Palermo. Ha scritto tra l’altro: Il volto del tempo. La ritrattistica nelle culture popolari (2000), I ricordi figurati: foto di famiglia in Sicilia (2006); Oralità dell’immagine. Etnografia visiva nelle comunità rurali siciliane (2018).

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