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La lingua franca del Mediterraneo. Aspetti storici e prospettive sociolinguistiche

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Carta catalana dell’Europa mediterranea

di Francesco Scaglione

La lingua franca è l’antico codice conosciuto e parlato in epoca moderna (tra il XVI e il XIX secolo) da mercanti, pirati, schiavi, burocrati e intellettuali nei porti e lungo le coste nordafricane. Una Notsprache (Schuchardt 2009 [1909]: 9), una ‘lingua di necessità’, ovvero un pidgin, usato soprattutto in ambito commerciale, frutto di migrazioni, contatti, conflitti e scambi tra i popoli che si affacciano sul Mediterraneo. Costituita da una lingua lessificatrice di base italoromanza e una (debole) lingua di sostrato araba, la lingua franca, infatti, raccoglie e innesta elementi provenienti dai diversi idiomi del Mare Nostrum, restituendo un perfetto sincretismo linguistico, espressione a sua volta di un sincretismo anche e soprattutto culturale.

Lingua franca o lingue franche? Alcuni problemi storico-terminologici

L’espressione lingua franca è stata erroneamente assimilata da alcuni studiosi (cfr. Robert Hall jr 1966) a una sorta di lingua veicolare adoperata dai soldati durante le crociate, considerata verosimilmente come l’atto di nascita del pidgin comunemente inteso. Tuttavia, tale interpretazione risulta poco accurata sia per la scarsissima documentazione di epoca medievale attestante l’effettiva esistenza del codice, sia, in prospettiva storico-etimologica, riguardo al valore semantico del termine franco/Franchi. Quest’ultimo, infatti, nell’accezione (o meglio, nelle accezioni) con cui veniva adoperato nel Medioevo, si riconduce con molta probabilità al greco bizantino φράγκoς/Φράγκoι (con sonorizzazione post-nasale della velare, tipica della pronuncia bizantina), una sorta di iperonimo che indicava sia il latino e/o le lingue romanze sia i popoli che parlavano tali idiomi (Kahane – Kahane 1976: 26) [1]. Inoltre, l’assetto linguistico nel periodo medievale in ambiente crociato, in ragione anche dei rapporti commerciali, marinari, e dagli stretti contatti politico-militari tra Occidente e Oriente, non prevedeva tanto l’effettiva presenza di un pidgin quanto più probabilmente una serie di interlingue romanze (di base galloromanza e soprattutto italoromanza settentrionale) o generiche varietà di contatto instabili e scarsamente elaborate [2].

Un’ulteriore interpretazione “fuorviante” del termine si riscontra nell’opera di Kahane-Tietze (1958), The Lingua Franca in the Levant, uno studio di impronta lessicografica relativo alla terminologia nautica di area turca di influenza italo-ellenica, in cui lingua franca sembra far riferimento questa volta a una microlingua, o forse, a un gergo che, pur rappresentando verosimilmente una delle basi da cui possa essersi sviluppato il pidgin (sebbene in realtà nelle fonti scritte più studiate tale apporto risulta ridotto), non sembra comunque centrare in pieno la realtà linguistica comunemente intesa e indagata.

In tempi più recenti Wansbrough (1996) propone invece uno studio dal titolo The lingua franca in the Mediterranean in cui, come dichiarato in modo programmatico dallo stesso autore nelle primissime pagine del volume, offre una ricerca sulla lingua del commercio e della diplomazia di una vasta area mediterranea che abbraccia un arco temporale che va dal 1500 a.c. al 1500 d.c., secondo un’accezione quindi molto estesa e altra di lingua franca.

Ma accanto alla denominazione più comune è possibile ritrovare ulteriori “etichette” con cui il codice viene indicato e conosciuto in letteratura. La prima è quella di sabir (Mac Carthy-Varnier 1852) che deriverebbe dal famoso intermezzo in lingua franca cantato dal personaggio del Mufti ne Le Bourgeois Gentilhomme di Molière (Se ti sabir / Ti respondir / Se no sabir / Tazir, tazir) [3]. Il termine, anch’esso poco risolutivo e ambiguo, indica in genere un preciso stadio diacronico del pidgin, ovvero la fase finale, la sua “continuazione” ottocentesca di epoca coloniale posteriore alla conquista di Algeri per mano francese nel 1830 [4]. Tuttavia, sabir è stato successivamente utilizzato per indicare anche la varietà di francese parlato dagli arabi, designando, in questo caso, non più una lingua di scambio con caratteristiche proprie quanto piuttosto uno specifico etnoletto [5].

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Battaglia di Lepanto, arazzo, sec. XIV

La seconda denominazione è invece quella di petit mauresque che appare nel titolo della fonte più completa, ma anche più problematica, della lingua franca, ovvero il Dictionnaire de la Langue Franque ou petit Mauresque (1830). Di autore anonimo, tale opera costituisce, oltre che un dizionario francese-lingua franca, una sorta di vademecum linguistico, corredato di note grammaticali e piccoli dialoghi, redatto per i soldati francesi alla conquista di Algeri nel XIX secolo. L’espressione petit mauresque, data come sinonimo di ‘lingua franca’, indica anche in questo caso un preciso stadio diacronico del pidgin (corrispondente grosso modo alla fase del sabir) e sembrerebbe derivare dalla convinzione che «i soldati francesi quando si capivano con gli indigeni, credevano di parlare arabo» (Schuchardt 2009 [1909]: 23-24), o meglio una sua varietà più semplificata e ridotta (petit, per l’appunto).

L’ambiguità che, come evidenziato, si riflette ora sull’oggetto di studio, ora sulle diverse fasi diacroniche, ha determinato la necessità di precisare e, in parte, circoscrivere il fenomeno con ulteriori specificazioni terminologiche. Ad esempio, Cifoletti (2011 [2004]) propone l’espressione lingua franca barbaresca attraverso la quale denomina il pidgin di base soprattutto italiana che, sebbene diffuso e/o conosciuto con molta probabilità in tutto il Mediterraneo, si stabilizza, stando alle documentazioni pervenute, in età moderna (tra i secoli XVI e XIX) solo negli stati barbareschi (Algeri, Tunisi e Tripoli). Lo studioso, pertanto, esclude l’area del Levante in cui ipotizza una situazione sociolinguistica diversa, caratterizzata dalla presenza di un’interlingua di base italoromanza (veneziana) (ivi: 14 e 18), probabilmente già diffusa in epoca medievale. Tale opinione è condivisa anche da Nolan (2015: 105-106) che ammette la presenza lungo le coste berbere di una lingua comune, sviluppatasi anche a partire da un gergo marinaro di base essenzialmente italiana, che seppur stabile, doveva mostrare, come si vedrà più avanti, un certo grado di variazione diatopica.

All’interno di questa ingarbugliata rete di terminologie che non permettono di “fissare” in modo definitivo l’oggetto di studio senza continue precisazioni, la nostra scelta, condivisa da alcuni linguisti (cfr. tra gli altri Minervini 1996; Martínez Díaz 2007), è quella di adottare l’espressione lingua franca del Mediterraneo (LFM), secondo una prospettiva molto lontana rispetto a Kahane- Tietze (1958) e ad altri studiosi, per riferirci al pidgin diffusosi lungo le coste arabe del Mediterraneo tra il XVI e il XIX secolo. La scelta di (ri)proporre il termine Mediterraneo, non nasce tanto dalle fascinazioni che la parola sembra implicitamente suscitare, ma dalla volontà di non escludere la possibile diffusione del codice (seppur in un uso non sistematico, o in una sua varietà diatopica) al di là del Maghreb, in ragione anche dei rapporti commerciali che univano l’intero bacino del Mediterraneo; inoltre, tale scelta terminologica, di certo molto larga (soprattutto se paragonata a quella più puntuale e circoscritta proposta da Cifoletti), muove, secondo una prospettiva comunicativa, anche da un possibile grado di intellegibilità tra il pidgin stabilizzatosi più chiaramente in area occidentale e le altre realtà linguistiche che caratterizzavano le regioni orientali (tendenti verso un uso veicolare di un’interlingua) in cui il codice doveva essere comunque compreso, anche se non praticato in modo “ortodosso”.

1La lingua franca del Mediterraneo e il primato dell’“italiano”

Dalla breve trattazione di ambito terminologico, propedeutica per chiarire un oggetto di studio a volte poco definito e “scivoloso”, risulta evidente che la LFM nasca come codice di scambio tra europei di madre lingua romanza e arabofoni. La stabilizzazione di tale “codice di contatto”, databile intorno al XVI secolo, mostra lo sviluppo di un pidgin con lingua lessificatrice essenzialmente italoromanza (ma con numerosi inserti iberoromanzi) e una lingua di sostrato di matrice araba molto debole e di scarso apporto.

La conoscenza di una o più varietà romanze in ambiente arabofono non costituisce un fenomeno risalente ai soli secoli di stabile attestazione del pidgin, ma rappresenta una realtà molto comune già in epoca medievale, incoraggiata dai rapporti commerciali (e dalla pirateria) tra la sponda europea e africana, e favorita anche dai numerosi presidi, fortezze ed enclave europei (soprattutto spagnoli e italiani) lungo le coste magrebine.

Il primato dell’italiano (e dei dialetti italoromanzi) all’interno della LFM ha senza dubbio una storia antica e si riconduce al prestigio di cui già nei secoli precedenti alla stabilizzazione del codice tale lingua doveva godere nell’intero bacino Mediterraneo. Infatti, come sottolinea Migliorini (1960), l’italiano rappresentava la lingua della diplomazia, un codice di scambio a tutti gli effetti, tra europei e turchi durante l’impero ottomano. Inoltre, dai documenti provenienti dalle antiche cancellerie francesi (atti notarili, reclami, transazioni, etc.) disseminati lungo le coste nordafricane si attesta fino al XVII secolo un uso massiccio della lingua italiana soprattutto se i soggetti interessati erano di nazionalità diversa (cfr. Cremona 2002). Pertanto, come in parte già indicato, l’italiano doveva rappresentare una lingua conosciuta in tutto il Mediterraneo, che nella “versione” parlata dagli arabofoni (o più in generale da chi non aveva una varietà italoromanza come L1) doveva fungere da vera e propria lingua veicolare, rappresentando con molta probabilità la base o, come si vedrà, una sorta di pre-pidgin da cui a partite dal XVI secolo si svilupperà lungo le coste nordafricane occidentali un codice più stabile [6].

La situazione linguistica della zona del Levante doveva invece mostrare nei secoli di stabilizzazione del pidgin un assetto diverso caratterizzato dalla permanenza di una varietà “corrotta” di italiano, una sorta di italiano “coloniale” (di base soprattutto veneziana, conosciuto probabilmente già nel Medioevo) come dimostrano le scarse documentazioni di area orientale, molte delle quali di dubbia affidabilità e linguisticamente poco coerenti. Un esempio tra tutti è il piccolo componimento del poeta spagnolo Juan del Encina, Villancico contrahaziendo a los mócaros que siempre van importunando a los peregrinos con demandas del 1521, che riproduce la parlata dei mulattieri arabi che si rivolgevano ai pellegrini europei in Terrasanta. A differenza dei documenti di area magrebina, il testo mostra più abbondanti elementi di provenienza non romanza (a livello fonetico, morfologico, lessicale, sintattico) che si innestano in un tessuto linguistico essenzialmente italoromanzo-veneziano con qualche inserto spagnolo. Ad ogni modo, dati i contenuti, la finalità parodica e la scarsa uniformità linguistica, il componimento non permette di comprendere a pieno se il codice adoperato rappresenti una varietà di lingua franca (forse sua “goffa” e inaccurata riproduzione dell’autore?), o un’interlingua italiana influenzata dall’arabo, o ancora una ipercaratterizzazione letteraria attraverso cui riprodurre lo stereotipo linguistico del Moro che si sforza di parlare una lingua romanza [7].

3Tra diacronia e diatopia. Aspetti della variazione

Nonostante l’effettiva stabilità, la LFM non risulta estranea a variazione diacronica e diatopica nemmeno nella area geografica e nella fase cronologica in cui il pidgin mantiene maggiore fissità (corrispondente all’idea di lingua franca barbaresca di Cifoletti). Infatti, malgrado il ruolo indiscusso dell’italoromanzo come stabile lingua lessificatrice, sul versante diacronico i testi più antichi testimoniano uno stadio iniziale in cui il codice mostra una maggiore influenza italoromanza, a cui subentra nei documenti a cavallo tra il XVI-XVII secolo un considerevole influsso iberoromanzo. Quest’ultimo aspetto appare storicamente motivato dall’espulsione dei Mori dalla Spagna in seguito alla fine della Reconquista e all’unificazione del Paese per mano dei Re Cattolici nel 1492. Infatti, gli arabi che abbandonarono la penisola dovevano avere una discreta conoscenza dello spagnolo [8], seppur fortemente influenzato dalla propria L1, e pare quindi plausibile che questi abbiano trasferito, a partire del XVI secolo, tale “competenza” anche nella LFM. Inoltre, la conquista di Oran (1509) e di altre città della costa algerina da parte della Spagna e la cospicua presenza di spagnoli nelle terme dei regni di Algeri, Tunisi e Salé hanno potuto ulteriormente incoraggiare la diffusione della componente ispanica all’interno del codice (Martínez Díaz 2007: 224-225) [9] che, ad ogni modo, mostrava già chiare tracce lessicali di matrice iberoromanza. Nella fase finale invece, intorno al secolo XIX, si riscontra un intenso apporto lessicale di provenienza galloromanza, aspetto che faciliterà l’assimilazione del pidgin alla lingua coloniale.

Sul versante della diatopia, invece, è possibile ipotizzare che la LFM presentasse una serie di dialetti secondari (Coseriu 1980). Seppur senza chiari esempi di varianti fonetiche o geosinonimiche, ciò viene confermato da due importanti testimonianze che evidenziano una chiara variabilità dipendente dal fattore “luogo”. La prima fonte è l’opera Topogragraphia e historia general de Argel del 1621, un testo di impronta storiografica, scritto dal frate spagnolo Diego de Haedo sulla base, come indicato nella prefazione, di una serie di resoconti raccolti dall’arcivescovo di Palermo, suo parente e omonimo. Nel cap. XXIX dedicato anche alle lingue parlate ad Algeri, l’autore restituisce uno spaccato sociolinguistico contraddistinto da un forte plurilinguismo in cui, insieme al turco e al moresco, riconosce la presenza di un terzo idioma:

[l]a tercera lengua que en Argel se usa es la que los moros y turcos llaman franca o hablar franco, llamando ansí a la lengua y modo de hablar cristiano, no porque ellos hablen toda la lengua y manera de hablar de cristiano o porque este hablar (aquéllos llaman franco) sea de alguna particular nación cristiana que lo use, mas porque mediante este modo de hablar, que está entre ellos en uso, se entienden con los cristianos, siendo todo él una mezcla de varias lenguas cristianas y de vocablos, que por la mayor parte son Italianos y Españoles y algunos Portugueses […]. Y juntando a esta confusión y mezcla de tan diversos vocablos y maneras de hablar, de diversos reinos, provincias y naciones cristianas, la mala pronunciación de los moros y turcos, y no saben ellos variar los modos, tiempos y casos, como los cristianos (cuyos son propios), aquellos vocablos y modos de hablar viene a ser el hablar franco de Argel, casi una jerigonza o, a lo menos, un hablar de negro boçal traído a España de nuevo. Este hablar franco es tan general, que no hay cosa [lee casa] do no se use, y porque tampoco no hay ninguna do no tengan cristiano y cristianos, muchas que no hay turco ni moro grande ni pequeño, hombre o mujer, hasta los niños, que poco o mucho y los más dellos muy bien no le hablan, y por él no entiendan los cristianos los cuales se acomodan al momento a aquel hablar [...]. (Haedo 1927 [1612]: 116-117).

Accanto all’importantissima testimonianza riguardo alla natura mescidata, alle caratteristiche formali e ai contesti d’uso del codice, il frate riporta alcuni di dialoghi nella LFM in cui si osserva che la varietà algerina mostra un più cospicuo numero di termini di provenienza spagnola che cooccorrono in alternanza con i corrispettivi di matrice italoromanza (ad esempio, cabeza/testa, bueno/bono, perro/cane, assi/(a)cosi, etc.; Cifoletti 2011[2004]: 148).

Ma la variazione diatopica viene indicata in modo più esplicito nella prefazione al Dictionnaire (1830) in cui si puntualizza che il codice “diffère même sur plusieurs points, suivant les villes où il est parlé, et le petit mauresque [LFM] en usage à Tunis, n’est pas tout-à-fait le même que relui qu’on emploie à Alger; tirant beaucoup del’italien dans la première de ces régences, il se rapproche au contraire de l’espagnol dans celle d’Alger”. Pertanto, l’autore anonimo conferma gli aspetti desumibili dalla testimonianza di Haedo, indicando una maggiore presenza iberoromanza in area occidentale che viene via via scalzata verso oriente da un’influenza più chiaramente italoromanza.

Nonostante quindi la LFM fosse soggetta a variazione, è utile precisare però che il suo “funzionamento” e le proprie caratteristiche interne rimangono invariate nel corso dei secoli: resta sempre un codice di scambio usato in contesti e con finalità comunicative ristrette, caratterizzato da grammatica semplificata, morfologia ridotta al minimo e da strutture sintattico-semantiche molto trasparenti e tendenti all’isomorfismo (v. Sottile-Scaglione 2018: 206-207).

Verso un modello sociolinguistico

Alla luce dei diversi aspetti emersi è possibile proporre un modello, o meglio una sorta di “geometria” sociolinguistica che riassume le diverse caratteristiche della LFM fin qui considerate.

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Schema 1. Modello sociolinguistico della LFM con propaggine orientale

Nello Schema 1 le due linee oblique, una piena e l’altra tratteggiata, rappresentano rispettivamente la lingua lessificatrice e la lingua di sostrato che rimangono abbastanza stabili dalle prime fino alle ultime attestazioni del codice. In diacronia, ritroviamo una fase iniziale che coincide, dal punto di vista linguistico, con il momento di massiccia presenza italoromanza (da qui la sovrapposizione tra il punto di partenza dell’asse diacronico e la lingua lessificatrice). Scendendo in diacronia registriamo l’influenza iberoromanza a cavallo tra il XVI e XVII secolo e l’apporto galloromanzo attestato nel XIX secolo che, ad ogni modo, non determina una sostituzione della lingua base che rimane sempre italoromanza (da qui la linea puntinata che sta a indicare la costante presenza della lingua lessificatrice). Infine, ci addentriamo nella fase coloniale del pidgin (definibile come sabir), nella sua propaggine ottocentesca, da cui prende piede un processo di depidginizzazione e di avvicinamento della LFM verso una delle sue fonti lessicali (secondo meccanismi di rilessificazione), e da cui scaturiscono esiti (soprattutto dopo la seconda metà dell’800) ormai assimilabili a vari stadi di interlingua francese. Tale processo di perdita e progressiva estinzione del pidgin coincide con la diffusione istituzionale del francese in tutte le coste settentrionali dell’Africa accompagnata da una costante e intensa esposizione alla nuova lingua target, cambiamenti storico-sociali a causa dei quali la LFM perde la propria funzione di codice veicolare.

Lungo l’asse diatopico possiamo invece evidenziare l’influenza iberoromanza nel dialetto di area algerina (coincidente con l’estremità sinistra della linea); mentre spostandoci sul versante orientale (estremità destra della linea piena) si osserva un maggiore influsso italoromanzo (da qui la sovrapposizione con la lingua lessificatrice). Infine, nel tentativo di restituire, seppur in forma di pura suggestione, un quadro completo della realtà sociolinguistica mediterranea, indichiamo, inoltre, all’estrema destra dell’asse diatopico, tramite una linea irregolare e staccata rispetto al grafico principale (perché realtà linguistica altra rispetto alla LFM), la presenza di un italiano semplificato di base veneziana, una sorta di interlingua fossilizzata, diffusa nell’area del Levante e costante nel corso dei secoli, che, in ragione della sua vicinanza alla lingua lessificatrice del pidgin di area magrebina, doveva mostrare un alto grado di intellegibilità rispetto al codice indagato.

2Mater semper certa est? Un’ipotesi genealogica

In base alle caratteristiche evidenziate da Thomason & Kaufman (1988: 168-169), un pidgin nasce all’interno di un contesto sociale che vede l’interazione tra membri di comunità linguistiche diverse che sviluppano, in seguito a un contatto generalmente poco intenso e saltuario, un mezzo di comunicazione adoperato per usi ristretti (soprattutto commerciali), acquisito ad hoc dai due gruppi di parlanti (e quindi sprovvisto di parlanti nativi). Inoltre, il codice mostra strutture stabili ma molto semplificate e un assetto in cui il lessico viene fornito per lo più dal gruppo linguistico più “potente” e prestigioso, mentre la lingua più “debole” e meno prestigiosa lascia chiare influenze, oltre che in alcune “spie” lessicali, soprattutto a livello fonetico, morfologico e sintattico.

Ora, alla luce di tali caratteristiche generali, la LFM sembra soddisfare in toto gli aspetti sociolinguistici che contraddistinguono un pidgin in quanto codice di scambio utilizzato in contesto di contatto tra arabofoni ed europei di madrelingua romanza per finalità specifiche (commerciali, burocratiche, etc.). Tuttavia, lo spoglio delle sue fonti principali (prima tra tutte, il Dictionnaire), mette in evidenza caratteristiche che non rientrano all’interno di un pidgin “prototipico”. Infatti, se da una parte, è possibile apprezzare fenomeni riconducibili a processi di semplificazione (riduzione morfologica, costrutti sintattico-semantici trasparenti e composizionali, ridotta marcatezza, etc.) che rappresentano degli “universali” del contatto linguistico (apprezzabili anche all’interno dei vari processi e tappe che scandiscono l’acquisizione di una L2), dall’altra, è evidente un apporto molto scarso della lingua di sostrato poiché, escludendo alcuni elementi fonetici [10], il lessico (con la presenza sì di arabismi, ma ampiamente diffusi tra le lingue che si affacciano sul Mediterraneo; v. Sottile-Scaglione 2018: 207-213) e soprattutto gli aspetti morfosintattici non sembrano evidenziare una rilevante e stabile influenza araba. Pertanto, la LFM non pare restituire un sistema in cui gli apporti tra le lingue in contatto risultano “equilibrati”, ma si configura invece come un pidgin “unilaterale”, fortemente sbilanciato verso la lingua lessificatrice.

Ma come si spiega tale assetto? O meglio: quali sono nello specifico gli aspetti che lo hanno determinato? Come in parte già suggerito da Schuchardt (2009 [1909]: 14), la questione può essere “risolta” non guardando alla “qualità” delle lingue interagenti quanto piuttosto considerando variabili di natura extralinguistica. Una prima, ma parziale risposta, d’accordo con Cifoletti (2011 [2004]: 265-266), viene infatti suggerita da fattori legati più chiaramente al prestigio delle lingue in contatto. Infatti, se, come indicato, l’italiano (o piuttosto, l’italoromanzo) già a partire dal Medioevo godeva di un considerevole prestigio in termini socio-culturali, l’arabo (come anche il turco) soprattutto in età moderna aveva raggiunto, di contro, il momento di maggiore declino. Ciò spiegherebbe, in effetti, l’uso e la diffusione delle LFM, non giustificando però pienamente la sua peculiare struttura.

Tuttavia, spingendoci un po’ oltre, in considerazione sempre del prestigio esercitato dall’italiano, conosciuto, anche se mai pienamente appreso [11], in tutte le corti dei sultani, fungendo nel corso dei secoli da lingua veicolare anche in ambito burocratico, è possibile ipotizzare, come suggerito da Camus Bergareche (1993: 450-451), che la LFM fosse nata da una varietà di interlingua araba-(italo)romanza abbastanza diffusa che raggiunge in epoca moderna una maggiore fissità dei tratti. Pertanto, tale codice non si sarebbe sviluppato da un meccanismo di pidginizzazione prototipica, e quindi, da un contatto incostante e poco lineare tra due lingue, ma da un processo di pidginizzazione diverso, definibile come pidginizzazione secondaria, scaturito da una base linguisticamente più stabile (un’interlingua), orientata in modo sproporzionato verso la lingua di prestigio. Tale processo sembra quindi parzialmente opporsi a quei meccanismi di normale e canonica pidginizzazione, che preferiamo chiamare primaria, da cui si determina un codice in cui i contributi delle lingue interagenti appaiono più “bilanciati”. Pertanto, alla luce di tali fenomeni, non sembra effettivamente stupire lo scarso apporto dell’arabo all’interno della LFM che non poteva non risultare ancora più attenuato e “sbiadito” nel passaggio dalla fase di interlingua a quella di pidgin stabile.

6Conclusioni

La LFM rappresenta un’importantissima sintesi della cultura mediterranea in grado “raccontare” le vicende storico-socio-linguistiche di popoli diversi, ma uniti da un grande mare che è stato e resta scenario suggestivo e problematico. Come osservato, il codice mostra un’elevata complessità e lati ancora “oscuri” e irrisolti riguardanti soprattutto l’effettiva area di diffusione e l’affidabilità delle fonti scritte. A ciò si aggiunge anche il rapporto tra lingua lessificatrice e lingua di sostrato, aspetto che rende tale codice un caso di estremo interesse, un vero e proprio unicum nel panorama degli studi sul contatto linguistico.

La LFM meriterebbe quindi ulteriori approfondimenti e indagini, utili a restituire tasselli significativi della storia della civiltà mediterranea che trova un riscontro importante anche nella dimensione più strettamente linguistica.

Dialoghi Mediterranei, n. 34, novembre 2018
Note
[1] Schuchardt (2009 [1909]: 15) aveva invece collegato l’origine del termine all’arabo lisān al-farandž (al-afrandž) ‘lingua dei Franchi’, o alfarandžī (alfaranğī) ‘franco’, nel primo caso, per indicare le lingue degli europei e, nel secondo, con funzione di etnico riferito soprattutto agli italiani. Ma entrambe le espressioni con molta probabilità si erano diffuse nell’arabo tramite prestito dal greco bizantino.
[2] Come sottolinea Minervini (1996: 242), l’ipotesi dell’uso della lingua franca già in epoca medievale costituisce per gli studiosi una spiegazione attraverso cui motivare la presenza di numerosi tecnicismi di ambito militare, mercantile, marinaro o di altri esotismi (di origine bizantina o araba) nelle lingue europee occidentali o, in direzione opposta, la diffusione di voci romanze infiltrate nell’arabo o nel greco.
[3] Come precisa Venier (2016: 301), sabir rappresenta una sorta di nome denigratorio (sinonimo di “lingua storpiata e povera”) sulla base dell’enfatizzazione dell’uso dell’infinito come tratto caratterizzante del codice, aspetto che non a caso traspare chiaramente nel glottonimo.
[4] In particolare, Mac Carthy-Varnier riconoscono due varietà del pidgin, il petit sabir e il grand sabir: il primo rappresenta il codice nel suo stadio primitivo, originario e più semplificato; mentre il secondo rappresenta la varietà “rivista” e più arricchita.
[5] Il termine sabir, o al plurale sabirs, viene adoperato anche da Martinet (1968-1970) come una sorta di genericismo in cui confluisce un ventaglio più ambio di codici frutto di contatto tra parlanti con idiomi diversi.
[6] In tal senso, il presunto periodo di stabilizzazione del pidgin viene confermato attraverso un confronto con le fonti più antiche come il Contrasto della Zerbitana risalente alla fine del 1300, una ballata in forma di dialogo tra un italiano e una donna dell’isola tunisina di Gerba che rappresenta una sorta di parodia linguistica dell’italiano parlato da un arabofono. La struttura del testo più che suggerire la presenza di un pidgin (di cui non soddisfa, ad esempio, i processi di semplificazione soprattutto verbale che si osservano nel periodo di stabilizzazione della LFM) restituisce piuttosto un codice di base italoromanza meridionale arricchito da ulteriori inserti dialettali (v. Minervini 1996: 249-252).
[7] Quest’ultimo aspetto rappresenta una pratica molto diffusa all’interno della commedia degli autori del Siglo de Oro della letteratura spagnola, come Lope de Vega e Calderón in cui il moro viene caratterizzato linguisticamente da una varietà “corrotta” di spagnolo che poteva mostrare alcune affinità con la LFM. Si tratta, ad ogni modo, di un cliché caricaturale e macchiettistico riproducibile anche da chi non era mai venuto a contatto con il pidgin, e che ritroviamo in epoche successive anche, con base italiana, in alcune commedie di Goldoni, o con base francese, in altre opere di Molière (ad esempio, anche nel Sicilien).
[8] La testimonianza più evidente è data dall’aljamiado, un sistema di scrittura attraverso cui i Mori del sud della Spagna (soprattutto in Andalusia) traslitteravano lo spagnolo (ma alche altre lingue romanze) in caratteri arabi.
[9] In realtà, la studiosa presuppone una vero e proprio cambiamento della lingua base dall’italiano allo spagnolo, che non sembra essere pienamente confermato nemmeno dai testi di quel tempo come, ad esempio, l’opera di Haedo (1621).
[10] Sebbene l’aspetto fonetico fosse di certo soggetto a una considerevole variabilità individuale, legata alla L1 del singolo parlante, i principali apporti di matrice araba riguardano la chiusura delle vocali medie italiane (ma anche spagnole) [e] e [o] che passano a vocali estreme [i] e [u], e la generale tendenza alla monottongazione dei dittonghi romanzi (come fora, bono, logo, dez, etc.; Camus Bergareche 1993: 444; Cifoletti 2011 [2004]: 290-291)
[11] Infatti, conoscere, ma soprattutto parlare fluentemente e correttamente l’italiano era considerato un fatto “disdicevole” per un musulmano perché implicava una chiara identificazione con il “nemico”. Ciò avrebbe incoraggiato, pertanto, un’acquisizione parziale e deficitaria della lingua target, stabile nel corso del tempo (Frank 1985 [1850]; Cifoletti 2011 [2004]: 267-268).
Riferimenti bibliografici
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Francesco Scaglione, dottore di ricerca in Studi letterari, linguistico-filologici e storico-culturali (Università degli Studi di Palermo), dal 2014 collabora con il gruppo di ricerca dell’Atlante Linguistico della Sicilia (ALS). Per la sua tesi di dottorato ha svolto una indagine sul contatto italiano-dialetto in Sicilia a partire dall’analisi dei dati lessicali raccolti per le inchieste sociovariazionali dell’ALS. I suoi principali interessi riguardano la sociolinguistica e la dialettologia con particolare riferimento al contatto linguistico, agli arcaismi dialettali, alla semantica, all’analisi del discorso e ai nuovi usi del dialetto.
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